Due questioni classiche sostengono l’ampio arco del nuovo romanzo di Javier Marías: il problema etico del male minore e il problema dell’identificazione personale. Entrambi si erano già affacciati più volte nella sua opera e qui tornano in una nuova chiave.

Il primo si pone fin dalla trama, limpida. Siamo nel recente passato, nel 1997. In una cittadina del nordovest spagnolo si nasconde una donna, membro dell’Ira e fiancheggiatrice dell’Eta, accusata di aver organizzato anni prima due stragi efferate. Di Mary Magdalene Orúe nessuno però conosce il volto e l’identità che ha assunto in Spagna. I servizi segreti hanno concentrato i sospetti su tre donne. Tomás Nevinson, agente quiescente del controspionaggio inglese, rientrato al lavoro d’ufficio in Ambasciata a Madrid dopo una sofferta missione di più di dieci anni, viene incaricato dal superiore, Bertram Tupra, di tornare in azione, infiltrarsi e scoprire quale delle tre donne sia la pericolosissima terrorista ed eliminarla.

Il romanzo inizia da qui, con queste parole in prima persona: «Ho avuto un’educazione all’antica, e non avrei mai creduto che un giorno mi si potesse ordinare di uccidere una donna» (Marías 2022, p. 5). Mesi di indagini e appostamenti, osservazioni e intimità conquistate, potrebbero non bastare a Tomás per individuare con certezza la responsabile dei delitti. Nel caso, Tupra non esiterà a far uccidere tutte e tre le sospette.

Ha senso chiedersi se sia giusto? Le situazioni conflittuali sono da sempre al centro della riflessione morale. In questo caso, il dilemma si delinea nei suoi contorni classici: uccidere una delle tre donne, quand’anche non si sia certi della sua colpevolezza, impedirà comunque che se ne assassinino tre, due delle quali certamente innocenti. Tomás dovrà dunque sopprimere la più indiziata, Inés Marzán, autoconvincendosi che «uccidere non è un gesto così estremo né così difficile e ingiusto se si sa chi deve essere ucciso, quali delitti ha commesso o annuncia di voler commettere, quanto male sarà risparmiato con la sua morte, quante vite innocenti si salveranno al prezzo di un solo sparo, di uno strangolamento o di tre coltellate». Insomma, se si ha piena nozione di chi si stia uccidendo e del perché il quinto comandamento ammetta, per così dire, delle deroghe.

Come spesso nelle novelle dell’autore spagnolo, il tema dominante viene apparentemente abbandonato, per poi svilupparsi in forma di fuga, attraverso digressioni tanto incalzanti quanto controllate. Oltre a quelle sulla violenza estrema esercitata sulle donne, attraverso le vicende di regine decapitate come Anna Bolena e Maria Antonietta, pagine avvincenti sono dedicate a un altro interrogativo morale: è giusto uccidere qualcuno se sapessimo con certezza che la vittima diverrà un pericolosissimo nemico dell’umanità? Ne ebbe l’opportunità – ci ricorda Marías – Friedrich Reck-Malleczewen, medico e scrittore prussiano, quando nell’autunno del 1932 in un’osteria di Monaco Adolf Hitler gli si sedette accanto, senza guardie del corpo. Poiché le strade non erano già più sicure, Reck-Malleczewen portava con sé una pistola carica: «In quella sala semideserta avrei potuto ucciderlo senza alcuna difficoltà. Se allora avessi saputo quale ruolo avrebbe assunto quell’infame, e gli anni di sofferenza che ci ha fatto patire, lo avrei certamente fatto. Ma allora lo consideravo ancora un personaggio comico, e non sparai» (Reck-Malleczewen 2015). Se invece di esitare avesse premuto il grilletto, che direzione avrebbe preso la storia? Non uccise, e la nemesi lo colpì: denunciato da un anonimo, fu internato a Dachau e assassinato con una pallottola nella nuca.

Il problema etico è acuito dal fatto che non sempre i fatti confermano le scelte: la stolida Hillary Clinton che, assistendo in diretta al linciaggio del nemico Gheddafi, scoppia a ridere una volta rassicurata che si tratta proprio del leader libico, è un caso, per dire così, fortunato. Più spesso l’incertezza permane e dobbiamo convivere con il dubbio di aver agito per il meglio, o per il meno peggio. Come nel romanzo in questione: Tom non riuscirà a diradare fino in fondo i propri dubbi su Inés. Quando la donna giacerà ormai inerme e stordita tra le sue mani, un’ultima indecisione gli impedirà di portare al suo termine ultimo la missione: «Invece di mandarla alla pace eterna per assicurarci la nostra pace, ho preferito la pace del mio animo. Se così facendo l’ho mandata in guerra contro di noi, me ne pentirò. Vedremo» (Marías 2022).

A fondamento di ogni azione che investa un problema morale deve esservi una teoria dei valori. Se si pone come assoluta la norma “non uccidere”, nessuna azione contraria a quella sarà giustificabile. A meno che non si ragioni appunto secondo il principio del male minore, nel qual caso l’analisi della realtà precederà la formulazione della norma. In altri termini, un’azione non morale, ma neppure immorale, che minimizzi quel male, pur causandolo in parte, potrebbe divenire accettabile. È un caso ben diverso rispetto a quando si sia in grado di salvare la vita di una sola tra due persone, perché allora non vi è un dovere di salvare entrambi: un dilemma pratico, non morale. Il dilemma etico del male minore, invece, fin dalla teologia economica classica, si pone comunque tra due mali, mai tra un’azione condannabile e una giusta. Quando vi sono in gioco valori non morali in una situazione di conflitto e la scelta comporta di realizzare un disvalore, non per questo l’atto verrà valutato come immorale. Sappiamo però quanto il terreno sia sdrucciolevole: per secoli si è giustificata in questo modo la tortura, senz’altro un male, però minore rispetto al danno che, non infliggendola, potrebbe colpirci e che quindi “grazie” ad essa possiamo evitare.

Peraltro, il male si era affacciato nella vita di Tom già quando – nel precedente romanzo col quale il presente “fa coppia” –  si trattò di rispondere alla chiamata dei Servizi segreti. Per colpa di un inganno subìto proprio da Tupra, dovette consegnarsi alla volontà dei superiori e divenire per dodici, assurdi anni, una loro pedina, rinunciando soprattutto a quella «bellezza mora, temperata, dolce e imperfetta» (Marías 2018) che era la giovane Berta Isla, sua moglie, e ai loro due figli ancora piccoli. Una prima vittima gli era quindi già ascrivibile: per salvare sé stesso, aveva sacrificato con la propria felicità anche quella della moglie e della famiglia appena creata. Non solo. Nel corso della sua lunga assenza, si era trovato a dover contraffare la propria vita straordinaria per una normale, legandosi ad un’altra donna, una inglese, e avendo una figlia. Un’ulteriore svolta improvvisa lo aveva poi strappato anche a quest’altro legame, e mai più Tom avrebbe rivisto le due. Nevinson dunque aveva già dovuto scegliere, e per non arrischiare la vita della propria famiglia aveva preferito rendere fittizia la propria, calpestando così prima la serenità e il futuro in comune con Berta e i figli e in seguito delle due innocenti e ignare comparse del suo periodo inglese.

Tomás, come tutti, decide di continuo. Prima che sui suoi valori, ci si chiede quale sia l’asse identitario in base al quale sceglierà. Non certo il nome: in questa novella Tomás deve trovarsi presto un nuovo appellativo, e si farà chiamare – curiosamente – Centurión. Forse, perché al capo estremo di quella centuria di altri suoi sé, disseminati nel precedente romanzo. Nomina sunt omina? Macché. Neppure il passato e la memoria che ne conserviamo basta a individuarci. D’altra parte, Marías ritiene che non sopportiamo il passato, «il non poter porvi rimedio, non averlo potuto indirizzare, dirigerlo; né evitarlo. E così lo si travisa o lo si trucca o altera se risulta possibile, lo si falsifica, oppure se ne fa liturgia, cerimonia, emblema e alla fine spettacolo» (Marías 2007). Tomás non è dunque identificato neppure dalla sua coscienza, dal concatenarsi delle esperienze e dei ricordi.

Resterebbe l’agire: si può assumere senso nel mentre lo conferiamo con le nostre azioni alle vicende della vita. Ma, nel caso di Tomás/Centurión, neppure questo funziona: «Ero portato a farmi domande amare sull’utilità di quello che avevo fatto, arrivando senza fatica alla conclusione che il mondo sarebbe stato identico se non avessi mosso un dito, se non fossi esistito e non mi fossi sporcato le mani». Lo sfondo finale del romanzo sembrerebbe allora un ritrarsi dalla vita, al modo degli anacoreti e degli eremiti, scrollandosi di dosso ogni pretesa d’identità, come coloro che scelgono davvero di non far ritorno: «Ogni tanto penso che l’intera nostra vita – perfino la vita delle anime ambiziose e inquiete e di quelle impazienti e voraci, desiderose di intervenire nel mondo e anche di governarlo – sia dominata dal lungo e rinviato anelito di tornare a essere inavvertiti come quando non eravamo ancora nati ed eravamo invisibili, privi di emanazioni di calore, inudibili».

Chiudendo un precedente romanzo, Marías aveva scritto di ritenere «di poter raccontare le nostre vite in maniera più o meno ragionata e precisa, e quando cominciamo ci rendiamo conto che sono affollate di zone d’ombra, di episodi non spiegati e forse inesplicabili, di scelte non compiute, di opportunità mancate, di elementi che ignoriamo perché riguardano gli altri, di cui è ancora più arduo sapere tutto o sapere qualcosa» (Marías 2006). E invece, le seicento pagine del nuovo romanzo costituiscono una paziente smentita di questa premessa nichilistica. Perché quell’uomo, che si chiami Tomás o Centurión o MacGowran o Riccardo Breda, alla fine torna. Nonostante una vita contrassegnata dall’assenza, alla fine anche a quest’uomo al quale era già successo tutto, compresa la morte, tocca un ritorno.

Cosa lo ha dunque centrato, quale richiamo esercita su di lui quella casa nella quale per lunghi anni la moglie ha vissuto col fantasma di un marito scomparso e poi creduto morto? Nonostante Tomás sappia quanto insignificante sia stato nella vita di Berta, ritrovarsi nella vecchia casa di Madrid dopo tante assenze di lui e tante delusioni di lei, significa rendersi conto del fatto che, alla fine, chi resta è il vecchio marito per l’una e la vecchia moglie per l’altro. E così acquistano significato i versi famosi di Yeats che lui può infine dedicarle: «Quanti hanno amato la tua dolce grazia di allora e la bellezza di un vero o falso amore. Ma uno solo ha amato l’anima tua pellegrina e la tortura del tuo trascolorante volto».

È questa dunque la bitta alla quale Tomás decide di attraccare quel che gli resta da vivere: al loro amore imperfetto, uguale a quello di molte coppie. In questo caso, due persone da sempre sconfitte che però, nella battaglia, hanno perseverato nel pensarsi, provando a resistere pur percorrendo quasi sempre da soli la china del tempo, tutta la sua nera schiena, senza lasciarsi definitivamente andare.
Esistono dunque legami e affetti capaci di sedimentarsi e di trovare le proprie ragioni non soltanto nonostante il tempo, ma proprio grazie al suo trascorrere, senza dover ricorrere all’inganno o a patti di non belligeranza.

Resta però saldo un principio, irrinunciabile per Marías: l’amore arriva improvviso, spesso quando non deve, e lo si scopre dopo, a conti fatti. Non sempre il tempo appanna e sfoca i contorni; a volte i profili si delineano meglio proprio grazie alla distanza che, in un rapporto d’amore, pare soffiare cautamente sulle braci, ravvivandole. È allora che il peggio resta indietro, proprio quando inizia il male: «I must be cruel, only to be kind. | Thus bad begins and worse remains behind», dice Amleto (atto III, scena IV). Quando inizia il male era il titolo di un altro romanzo di Marías; questo avrebbe potuto intitolarsi Quando il male continua.

Riferimenti bibliografici
J. Marías, Tutte le anime, Einaudi, Torino 2006.
Id., Il tuo volto domani, Einaudi, Torino 2012.
Id, Così ha inizio il male, Einaudi, Torino 2015.
Id., Berta Isla, Einaudi, Torino 2018.
F. Reck-Malleczewen,  Diario di un disperato. Memorie di un aristocratico antifascista, Castelvecchi, Roma 2015.

Javier Marías, Tomás Nevinson, Einaudi, Torino 2022.

Share