
Lo sappiamo bene, fare un’esperienza in senso pieno è diventato impossibile. Nel mondo del virtuale tutto quello che possiamo toccare, in realtà, non lo tocchiamo veramente. Quel che tocchiamo, nell’ipotesi migliore, è quello che crediamo di toccare. In questo senso l’esperienza, l’esperienza diretta, è impossibile. Una esperienza tattile, ad esempio, sarebbe diretta se fra chi tocca e ciò che viene toccato non ci fosse alcun diaframma. Ma com’è possibile, una esperienza del genere? La mano che tocca, continuando con il tatto, tocca sempre qualcosa. Ma “qualcosa” vuol dire che quello che si sta toccando è questo qualcosa, e non quello, o quell’altro. Ogni esperienza è determinata, o non è una esperienza. Qualcosa è “qualcosa” non in sé, ma sempre rispetto ad una precedente categorizzazione, ad una valutazione, ad una scelta. Tocco una mela. Tocco cioè un frutto, il frutto del peccato, la mela di Cézanne, la mela della Val di Non.
Qui sta il problema, se tocco la mela sto toccando, quello che già so (o credo, senza neanche esserne cosciente, di saperne) della mela, ad esempio anche sapere che è una mela (che la mela sia una “mela” è un pregiudizio come un altro). Nel momento in cui quel qualcosa che sto toccando è una “mela”, è già intrappolato – che lo sappia o no, che lo voglia o no – in una gabbia categoriale. Ma in questo modo di quel qualcosa che sto toccando rimane solo che è una “mela”. La mela è mille diverse caratteristiche: scegliendo di pensarla e toccarla come una “mela”, implicitamente si sceglie di prenderla in considerazione soltanto come “mela”, tralasciando tutto quello che la mela potrebbe essere di diverso. Il problema è che non ci rendiamo conto del fatto che la mela è una “mela” solo dal nostro punto di vista. Per la larva di un lepidottero fitofago (Carpocapsa del Melo, Cydia pomonella, detta anche verme delle mele) la mela, in realtà, è “cibo” e “casa”. Il caso di questa larva è interessante, perché anche per lei la mela è soltanto “cibo” e “casa”. Anche per Cydia pomonella l’esperienza è sempre indiretta.
Anche per un vivente non umano il contatto non sembra mai essere diretto. Esperienza vuole dire categorizzazione, quindi selezione di caratteristiche pertinenti (per il vermetto quello che conta della mela è la polpa zuccherina, non il colore della buccia, ad esempio). In questo senso l’esperienza è sempre indiretta, è l’esperienza di qualcosa in base ad una determinata prospettiva. Esperienza significa scelta, anche se il più delle volte è una scelta del tutto inconsapevole. Ma se è una scelta, non è una relazione immediata.
In un film recente, Arrival (Villeneuve, 2016), la linguista Louise Banks (interpretata dall’attrice Amy Adams) cerca un modo per stabilire un contatto comunicativo con delle creature aliene arrivate sulla terra. Ad un certo punto, per stabilire un primo contatto con loro, appoggia le sue mani su una specie di schermo che la separa dai tentacoli dell’alieno. Sarà quel contatto a dare il via alla traduzione reciproca delle rispettive lingue. Si tratta di capire che succede, in quel contatto. È una esperienza diretta? Fra Louise Banks e l’alieno c’è un rapporto diretto? Per quanto forse ci piacerebbe rispondere di sì, è evidente che non si tratta affatto di un contatto immediato. Intanto, fra le sue mani e i tentacoli dell’alieno c’è un diaframma, una specie di schermo opalescente.
In effetti sembra una situazione già vista, come quella celebre di Persona (1966) di Bergman, in cui il bambino appoggia una mano sull’immagine di Liv Ullmann. Che sta a significare proprio il contrario di un incontro, mostra piuttosto l’impossibilità di ogni incontro. Perché l’immagine rappresenta la cosa, non è la cosa. Toccare l’immagine vuol dire non toccare la cosa. Ma c’è di più, il compito di Louise Banks è di provare a tradurre la lingua degli alieni in inglese, e viceversa. Ma cos’è una lingua se non lo schermo che separa e distanzia i parlanti? Che comunicano non attraverso la lingua, al contrario, nonostante la lingua che – come lo schermo che la separa dagli alieni – allontana fra loro i corpi. Il fatto stesso che sia una linguista, mostra che il contatto diretto è impossibile. È il linguaggio che uccide l’esperienza.
Il logico e filosofo statunitense Willard Van Orman Quine descrive una situazione simile in un libro celebre del 1960, Parola e oggetto. Quine immagina la situazione di un linguista sul campo che entra in contatto con una popolazione completamente sconosciuta, che parla una lingua per lui assolutamente incomprensibile; una situazione che definisce di “traduzione radicale”. Si tratta, proprio come accade a Louise Banks, di trovare un modo per comunicare con gli indigeni. L’esempio di Quine è diventato celebre. Il linguista è in un prato insieme ad un indigeno; improvvisamente si para davanti a loro quello che per il linguista, nella sua lingua e nel suo mondo concettuale, è un “coniglio”. Lo indica all’indigeno, e questi dice “gavagai”. “Gavagai” significa allora “coniglio”? Come esserne sicuri? In realtà potrebbe voler dire molte cose diverse, come “Guarda, un coniglio”, oppure “Fasi di un coniglio”, “Mosca del coniglio” (potrebbe essere il nome del particolare tipo di mosca che non abbandona mai i conigli), oppure ancora “Cibo” (potrebbe essere la base della dieta degli indigeni), ma anche “Andiamo a caccia”, o “Stanotte ci sarà una tempesta” (se gli indigeni hanno particolari credenze sui collegamenti fra l’apparizione dei conigli e le tempeste), o anche “Momentaneo stadio del coniglio”, e così via. Come farà il linguista a scegliere la traduzione giusta? Dovrà un po’ alla volta entrare nel mondo concettuale degli indigeni, pensare come loro. Ma in questo modo la sua traduzione sarà sempre meno oggettiva e sempre più dipendente dal particolare modo di tradurre del linguista. Dovrà vedere il mondo come lo vede l’indigeno. Ma questo significa che ogni traduzione è una interpretazione. La traduzione, per definizione, non è una esperienza diretta.
Nel suo recente Il canone minore. Verso una filosofia della natura (2016) il filosofo Rocco Ronchi sostiene, al contrario, che qualcosa come una esperienza diretta, una esperienza “assoluta” è invece possibile. Facciamo un esempio quotidiano, l’esperienza di una rosa: “nella sua immediatezza l’esperienza è l’identità della rosa, del suo profumo e del mio godimento estetico senza soluzione di continuità” (p. 59). Una esperienza è assoluta proprio perché non è qualcosa che accade fra due termini, un soggetto ed un oggetto, ad esempio. Se l’esperienza è assoluta non c’è nessuna dualità di soggetto e oggetto; si tratta di un “atto rigorosamente neutro che non è né soggettivo né oggettivo, né nel tempo né nello spazio”, una “complicazione senza composizione” (p. 61). La tesi di Ronchi è radicale, e va contro buona parte della tradizione filosofica moderna. L’idea largamente prevalente, infatti, è che per fare esperienza di qualcosa serva qualcuno, un soggetto (tipicamente umano) che si confronta con qualcosa di separato, l’oggetto. Questo dualismo sembra inseparabile dalla nozione di esperienza. Questo, per Ronchi, è infatti “il paradigma relativista e antropologico dominante” (p. 12). È “relativista” perché l’esperienza è sempre parziale: il soggetto incarna un particolare e quindi relativo punto di vista, per definizione. Il soggetto è un punto di vista. È “antropologica” perché il soggetto è l’essere umano. Quindi l’esperienza è sempre umana. Ma questo significa, e qui arriviamo al punto filosofico che sta a cuore a Ronchi, che allora un contatto diretto con il mondo è escluso in linea di principio. Mentre quello che Ronchi vuole è proprio questo, immaginare una possibilità di contatto diretto con il mondo. Ma perché ci tiene tanto? Perché finché l’esperienza non può essere che mediata e relativa, di fatto il mondo non sarà altro che un mondo pensato, immaginato, fantasticato, scientifico. Mentre a Ronchi, che si inserisce nel ricco e attualissimo filone dello speculative realism interessa il mondo in quanto mondo. Il mondo per sé, il mondo come vedrebbe sé stesso se potesse osservarsi da solo. Il mondo senza di noi. Ma non senza i corpi degli animali umani. Il “senza” di “senza di noi” si riferisce solo alle nostre ingombranti soggettività, relative e antropocentriche.
La posta in gioco del libro di Ronchi, quando scrive dell’esperienza assoluta, è questa, il mondo, il reale del mondo. Un reale assoluto, cioè non pensato, non fantasticato, non relativo, non soggettivo. Il mondo e basta. Ma perché Ronchi si preoccupa del reale del mondo? Perché il problema del mondo, e della filosofia, è che noi – gli esseri umani – siamo ingombranti. Facciamo un esempio facile. Dove arrivano gli esseri umani, quei viventi che la filosofia maggioritaria (a cui si oppone il “canone minore” di Ronchi del titolo del suo libro) descrive come relativisti e antropocentrici, modificano e distruggono tutto. Proprio perché il loro rapporto con il mondo è sempre un rapporto dal loro punto di vista, quindi parziale e antropocentrico (Homo sapiens vuol dire solo questo, antropocentrismo; nessuna comunità umana ha mai vissuto in equilibrio con la natura, il fatto era che nessuna comunità prima di ora ha mai avuto i mezzi tecnici per fare quello che oggi un qualunque esemplare della specie umana può fare; basti pensare alla quantità di mezzi di trasformazione e distruzione che si possono trovare facilmente in un qualunque ferramenta). Dove arriva l’umano, al momento una sonda umana (Voyager 1, lanciata dalla NASA nel 1977) si sta spingendo oltre i confini del sistema solare) arriva anche l’inquinamento, la trasformazione ambientale, l’invadenza della specie animale più curiosa che esista. Non ci sarebbe Voyager 1 se l’esperienza fosse assoluta.
In realtà Ronchi non la pensa proprio così, al contrario, per lui la scienza è una impresa letteralmente “inumana”, perché la sua caratteristica distintiva è “la sua indifferenza all’uomo e ai suoi bisogni spirituali” (p. 44). Infatti la tecnica, per Ronchi, “è il naturante della natura” (p. 48), cioè appunto il movimento interno del mondo naturale. Una tesi interessante, che va contro il luogo comune secondo cui la tecnica sarebbe ottusa e insensibile. È vero, ma rimane che la tecnica non è che l’altra faccia dell’esperienza mediata, dal dualismo fra soggetto e oggetto, fra mente e materia. Non è un caso che non esista una scienza negli animali non umani. In effetti tutto il libro di Ronchi avrebbe forse meritato uno sguardo ancora meno antropocentrico. Già la prospettiva del verme nella mela mostra come il problema dell’esperienza assoluta non si ponga solo per l’umano. Sembra che vita voglia dire prospettiva parziale, cioè appunto selezione: in definitiva esperienza indiretta. Che l’antropocentrismo, ed il connesso relativismo, sia inevitabile si vede anche quando si cerca di essere massimamente obiettivi e scientifici. Quella qui sopra è la lastra d’oro (applicata sulla superficie esterna delle sonde interplanetarie Pioneer 10 e 11, lanciate dalla NASA rispettivamente nel 1972 e nel 1973) che, nelle intenzioni degli scienziati, dovrebbe costituire una specie di firma dell’umanità, nel caso capitasse sotto gli occhi di qualche specie aliena: il simbolo dell’idrogeno, la posizione del sole rispetto alla nostra galassia, il sistema solare, infine due esseri umani, un uomo ed una donna bianchi (è difficile non pensare a John Weissmuller – Tarzan – e Maureen O’Sullivan – Jane – in Tarzan’s Secret Treasure, il film del 1941 diretto da Richard Thorpe). Il modello è sempre quello di Quine, quello della “tradizione radicale”. L’altro è sempre quello che pensiamo dell’altro soprattutto quando pensiamo di non presupporre nulla. L’altro è il nostro impensato.
Rimane che il problema che Ronchi si pone è il problema del nostro tempo. L’esperienza assoluta è quella che non ha bisogno di noi. È il mondo come potrebbe vedersi se si potesse osservare senza passare per la mediazione dello sguardo umano. Qualcosa del genere succede nella zona interdetta agli esseri umani intorno alla centrale atomica di Černobyl, dopo l’esplosione del reattore n. 4 della centrale nel 1986, con la conseguente nube radioattiva. Da quando la zona è stata abbandonata dagli esseri umani è diventata una specie di riserva naturale, dalla flora lussureggiante e dalla fauna ricchissima (piena di alci, caprioli, cervi, cinghiali, lupi quasi scomparsi altrove). Di questo si parla, in fondo, quando si parla di “esperienza assoluta”. Il mondo che semplicemente è il mondo che è. Il reale del mondo.
Ronchi cerca questo, il reale del mondo. Per questa ragione non c’è una sfida filosofica più impegnativa di questa. Ronchi, con il suo canone minore (i cui campioni filosofici sono soprattutto Bergson, Deleuze, Whitehead, Lacan e Gentile), cerca di delineare i contorni di un’impensabile condizione di “immanenza assoluta”, quel “mostruoso – mostruoso perché pre-umano, non umano o al di là dell’umano, mostruoso perché dotato di una spontaneità che si fa beffa di ogni libertà umana –, un mostruoso che occorre veramente pensare per essere filosofi” (p. 14). L’immanenza è assoluta nel senso radicale che non è pensata da qualcuno, ciò che ci porterebbe in un’ennesima forma di dualismo. Se la filosofia vuole salvarsi, questa la tesi di Ronchi, deve essere “scienza dell’assoluto” (p. 14), altrimenti è inutile.
In effetti solo se la filosofia recupera la sua incredibile ambizione ha ancora un destino, altrimenti è condannata ad essere nient’altro che un superfluo commento al lavoro degli scienziati, oppure conservazione museale di quello che i filosofi hanno detto nel passato. O l’oggetto del filosofo è l’assoluto, o non ce n’è nessuno. E qual è la caratteristica principale dell’assoluto? “L’Uno è e l’essere dell’Uno è processo (non divenire)” (pag. 16). C’è il mondo, c’è solo questo mondo che è (l’assoluto è tutto intorno alla constatazione “che l’Uno è”; p. 20), e questo mondo non diviene, perché questo vorrebbe dire che va da qualche parte, e quindi che ci sarebbe qualcosa di cui il mondo manca, la sua meta. No, il mondo è il processo infinito dell’Uno del mondo, e nient’altro. Quando il mondo è Uno, quando il reale del mondo si mostra senza nessun occhio che ne possa fare esperienza, quella è l’“intuizione intellettuale […] quell’atto che non presuppone nessun molteplice trascendente da unificare, ma che lo produce nel suo stesso compiersi” (p. 22). Una intuizione che, evidentemente, non ha nulla di intellettuale, al contrario, è l’esplosione di ogni pensiero, di ogni distinzione, di ogni esperienza. È “l’Uno che è, è l’esperienza in atto” (p. 23).
La sfida di Ronchi è indicare una via d’uscita dalla trappola dell’esperienza come mediazione, come dualismo di soggetto e oggetto, schema e contenuto. Un dualismo che ci rende il mondo estraneo e inavvicinabile. In questo senso il libro di Ronchi è mosso da una invincibile e inestirpabile nostalgia del mondo, della pienezza del mondo. La larva di Cydia pomonella, in fondo, sa tutto del mondo, proprio perché non ne ha nessuna idea. Certo, anche la sua è una esperienza parziale, ma in quella parzialità inconsapevole non c’è altro che il divenire mela del verme, come anche il divenire verme della mela, perché “nella sua purezza l’esperienza è perciò assoluta e non a due termini’” (p. 25) . C’è l’Uno del mondo, e solo questo. Rimane da chiedersi quando, e come, l’animale umano possa fare esperienza del reale del mondo, di quel “tutto aperto [che] è un tutto che si sta facendo e che non ha altra consistenza ontologica che nel suo stesso farsi” (p. 31). Ronchi ce lo dice, solo quando l’umano smette di essere umano: “se la linea maggiore del pensiero filosofico moderno è in ultima analisi […] un’antropologia, la filosofia dell’immanenza assoluta sarà allora una filosofia della natura” (p. 34). La filosofia dell’assoluto è oltre l’umano, perché l’umano è dualista, e il dualismo è il nemico del Reale: “l’esperienza nella sua immediatezza non è né soggettiva né oggettiva, non è esperienza di niente e di nessuno, non suppone né un soggetto dell’esperienza né un oggetto al di là dell’esperienza in atto. Idealismo e realismo sono così subito messi preventivamente fuori gioco” (pag. 55). Quand’è, infine, che il reale del mondo, il processo del mondo, si mostra, semplicemente ed in modo assoluto? Quando, come nella lunghissima scena conclusiva di Zabriski Point (Antonioni, 1970) siamo gettati dentro l’esplosione finale. Non è che stiamo vedendo l’esplosione, siamo l’esplosione. Il reale del mondo.
Riferimenti bibliografici
R. Ronchi, Il canone minore. Verso una filosofia della natura, Feltrinelli, Milano 2016.
S. Shaviro, The Universe of Things: On Speculative Realism, University of Minnesota Press, Minnesota 2014.
W. O. Quine, Parola e oggetto, Il Saggiatore, Milano 2008.