Il canto di un gallo e il fruscio del vento fanno da sottofondo alle immagini dei suggestivi paesaggi rurali indiani, tra uomini e donne impegnati a lavorare, bambini che giocano in mezzo alla povertà ed animali che convivono con loro indisturbati. Le riprese dall’alto ci fanno entrare pian piano tra le case di un vecchio villaggio: qui una giovane ragazza è intenta ad intrecciare i suoi lunghi capelli neri, mentre sussurra sottovoce le note di un dolce motivetto. Sullo schermo compare un uomo, ripreso in primo piano, che, con lo sguardo perso tra i suoi pensieri, racconta di un tempo non troppo lontano, quando, in disaccordo con la moglie, sognava incessantemente di poter avere una figlia femmina. Il destino un giorno decide di realizzare il suo desiderio. Nasce così la primogenita della coppia, a cui lui non fa mai mancare vicinanza ed amore. L’uomo appare tuttavia tormentato. Mentre la camera prosegue a filmare, i suoi occhi continuano a muoversi in ogni direzione, forse per nascondere l’evidente commozione e la vergogna dettata dall’autoconvinzione di non essere riuscito a vestire i panni del buon padre. Ad un tratto l’inquadratura si allarga ed al suo fianco compare una donna, sua moglie.
Nei volti dei due si legge la disperazione di chi non riesce a perdonarsi qualcosa di incredibilmente lacerante. Il silenzio ci permette di osservare i loro sguardi vuoti e spenti. È solo grazie alla voice over, probabilmente estrapolata da un telegiornale locale, che riusciamo a comporre i pezzi di un puzzle che sembra tanto confonderci quanto incuriosirci.
Ieri sera nel quartiere Bero del Jharkhand una ragazza di 13 anni è stata stuprata. L'incidente è accaduto mentre la ragazza stava prendendo parte alle celebrazioni di un matrimonio vicino casa. Tre sospettati sono stati arrestati, mentre la giovane vittima si trova a casa sua.
Si apre così il nuovo film di Nisha Pahuja, To Kill a tiger – tra i documentari candidati agli ultimi Oscar – che si fa voce di un’importante problema sociale, cancro di una terra da noi lontana. Dopo aver fornito informazioni sui fatti accaduti, le parole che chiudono la prima sequenza appaiono estremamente critiche e colme di pessimismo:
È ora di chiederci: c'è qualcosa di fondamentalmente sbagliato nel nostro Paese?
Questa frase vuole spingere chi guarda a riflettere concretamente, riecheggiando nelle menti degli spettatori per l’intero arco della narrazione.
La regista ci regala un viaggio fianco a fianco con Ranjit (l’uomo visto nella prima sequenza) durante la sua battaglia, lunga e disperata, alla forsennata ricerca di giustizia per le brutali sofferenze subite da sua figlia Kiran (uno pseudonimo per nascondere la reale identità della giovane, che sceglierà poi di mostrare il suo volto al compimento di diciotto anni). Subito dopo l’arresto dei tre uomini colpevoli delle violenze, l’intero villaggio si lascia andare a sentimenti di odio e disprezzo nei confronti di Ranjit e della povera ragazza, rei di aver scombussolato l’illusoria tranquillità statica della comunità. Le arcaiche leggi non scritte del posto porteranno il popolo a consigliare alla famiglia di far sposare Kiran con uno dei suoi violentatori, così da poter “cancellare la vergogna” di quanto subito. L’ostinazione coraggiosa dei genitori nel chiedere giustizia, fa sì che la colpa di tutto venga esplicitamente riversata sulla giovane, crudelmente accusata di essere stata troppo “spregiudicata” per il contesto in cui vive.
Man mano che Ranjit continua la sua lotta personale, gli abitanti, sempre più turbati, arrivano addirittura a scagliarsi contro la troupe televisiva che sta affiancando l’uomo, opponendosi violentemente alle loro continue riprese e tentando di preservare lo stato di quiete apparente di cui cercano autoconvincersi, misconoscendo l’esistenza di una questione che tocca, in realtà, tutti loro. Ad un tratto possiamo ascoltare l’avvocato difensore dei ragazzi chiedere retoricamente: “Perché eri lì dopo mezzanotte? Questo non è l’Occidente”. Frasi aberranti a cui la regista ci mette davanti in modo prepotente, con l’intento di trasmetterci le imponenti difficoltà di nascere e crescere nell’arretratezza di luoghi così arcaici. Il fatto che queste accuse vengano mosse, oltre che dagli abitanti del villaggio, anche da un rappresentante della legge, ci lascia ancor più sgomenti.
Ranjit è una mosca bianca che con coraggio riesce ad andare contro l’ipocrisia degli uomini e delle leggi non scritte del suo popolo. Nel corso dei circa quattordici mesi che il caso richiede per sventare la corruzione del sistema e sbrogliare le infinite e discutibili ragnatele legali, lo spettatore osserva con attenzione l’effetto dell’inesorabile scorrere del tempo e della fatica dell’uomo che, negli anni, non riesce sempre a tener duro. Inciampa infatti nel tunnel dell’alcol, finendo per indebitarsi e perdere di vista, anche se solo momentaneamente, il suo obiettivo. Ciò che vediamo vivere a Ranjit mostra quel concetto che in antropologia viene definito “crisi della presenza”: un momento difficile nella vita di un individuo che, accecato dal proprio tormento, si lascia andare totalmente, senza provare a reagire in alcun modo. Questo è infatti ciò che fa il protagonista, il quale, sommerso dal mare della sua disperazione, vi annega impotentemente, incapace di elaborare il suo dramma.
La pellicola di Nisha Pahuja ci accompagna nel tortuoso percorso di un uomo ininterrottamente in preda alla rabbia ed alla disperazione, tra momenti di profonda riflessione ed altri di sconforto e smarrimento. La regista ci fa sentire, nell’arco dell’intera durata della pellicola, costantemente al fianco di Ranjit, accompagnandoci nei luoghi dove l’uomo conduce la sua vita e in quelli dove si è consumata la dolorosa sciagura di Kiran. È interessante costruire un paragone con la “trilogia” che compone la filmografia di Jonas Carpignano. Elementi prettamente tecnici, come l’uso della camera a mano, le inquadrature che vanno quasi a “pedinare” i personaggi ed il punto di vista sempre molto interno all’azione, sono una costante nei lavori dell’italo-americano. Tutti questi elementi sono riconducibili all’estetica del cinema neorealista, del quale Carpignano è un chiaro erede. In To Kill a Tiger emerge un’affinità evidente con questo tipo di cinema. Legata al corpo di Ranjit, la camera ci fa scoprire il villaggio ed i luoghi della vita dei protagonisti. Sono proprio gli spazi che ci vengono mostrati ad essere essenziali per permetterci di capire le difficoltà del contesto in cui l’uomo porta avanti la sua battaglia.
Da ciò che apprendiamo dal testo che compare sullo schermo sul finale del documentario, si stima che in India oltre il 90% delle violenze e degli stupri non portano ad alcuna denuncia. Secondo gli attivisti locali – la cui importante presenza nella pellicola sottolinea la necessità dell’educazione verso tali aspetti – la vittoria di Kiran nel 2018 ha incoraggiato un gran numero di donne a dar voce al loro bisogno di giustizia. Sensibilizzare ed istruire su tale argomento appare essere l’unico modo per tentare di sradicare queste arcaiche convinzioni dagli uomini e incoraggiare le vittime a ribellarsi di fronte all’indifferenza. Pahuja, dando visibilità a questa storia e a questi luoghi, contribuisce, in minima parte, ad avviare un’inderogabile presa di coscienza a cui nessuno di noi dovrebbe sottrarsi.
To kill a tiger. Regia: Nisha Pahuja; fotografia: Mrinal Desai; musica: Jonathan Goldsmith; produzione: Cornelia Principe, David Oppenheim, Mindy Kaling, Samarth Sahni, Jason Loftus, Andy Cohen, Dev Patel, Shant Joshi, Shivani Rawat, Anita Lee, Niraj Bhatia, Deepa Mehta, Sean Farnel; durata: 125’; Canada, India.