Che cosa rende una qualunque esistenza animale, quella di uno dei miliardi di esemplari della specie animale autodefinitasi Homo sapiens, una vita propriamente umana? Ossia una vita in cui quello che succede al corpo animale non si limita ad accadergli – come capita che un albero si bagni per la pioggia o che una formica sia inavvertitamente schiacciata dalla suola di una scarpa – ma come un’esperienza di una vita che progressivamente arriva a pensarsi e costruirsi come la propria vita? Tiresia contro Edipo. Vite di un intellettuale disorganico (Il Melangolo, a cura di Enea Bianchi, 2021) è l’ultimo libro scritto da Mario Perniola, un libro che comincia a scrivere subito dopo che gli è stato diagnosticato un tumore incurabile: «Il 7 novembre 2016 il medico ha previsto per me una prognosi infausta: un anno di vita» (Perniola 2021, p. 13; in effetti Perniola ha avuto da vivere solo due mesi di vita in più rispetto all’anno previsto dal medico). Di che cosa scrive, Perniola, in questo libro? Racconta come tutta la sua vita, che può a quel punto ripercorrere da un punto di vista terribile ma privilegiato, non è stato altro che il tentantivo di trasformare un’esistenza qualunque in quella propria di un uomo – meglio, di un essere umano, e la precisazione la chiariremo fra poco – che ha cercato di diventare sé stesso. Un sé stesso che, evidentemente, non esisteva prima di questo tentativo, come se il sé stesso potesse esistere indipendentemente dal lavoro che comporta invece diventarlo. Da un punto di vista metafisico l’essenza, se esiste qualcosa del genere, viene sempre dopo l’esistenza, non prima.

In questo senso già il titolo di questo libro, Tiresia contro Edipo, mette in questione la nozione stessa di identità in quanto essenza. Tiresia (che è anche il titolo del suo unico romanzo giovanile, scritto nel 1964, pubblicato nel 1968, ripubblicato nel 2019 da Mimesis), come ribadisce Perniola più volte nel libro, «sarebbe stato originariamente una fanciulla, poi un uomo, quindi una donna, quindi un uomo, e ancora una donna, poi una donna vecchia per trasformarsi infine in un topo» (ivi, p. 20). Tiresia, allora, è chi non è individuato una volta per tutte, chi è piuttosto il divenire di una esistenza umana mai del tutto compiuta, mai del tutto identificabile, un’esistenza che non è mai un semplice esemplare di un modello, di una essenza appunto. Tiresia si contrappone a Edipo, invece, quell’Edipo che per tutta la vita non ha mai smesso di essere soltanto il figlio di Laio e Giocasta: la tragedia di Edipo è allora la tragedia dell’identità, del figlio che non smette di contrapporsi a mamma e papà, che non esce mai dal cerchio chiuso della famiglia.

L’ispirazione deleuziana del titolo è evidente, con Tiresia che sta dalla parte di Mille piani così come Edipo da quella dell’Anti-Edipo (scritti entrambi da Deleuze insieme a Félix Guattari). Divenire contro identità, movimento contro fissazione, esistenza contro essenza. Anche il sottotitolo si inserisce in questa linea deleuziana, le Vite di un intellettuale disorganico, infatti, sono le tante vite che ha vissuto un uomo, un filosofo e una sorta di artista, non unitario, disorganico appunto. Il riferimento è al “corpo senza organi” di Antonin Artaud, ossia al corpo senza centro, quindi un corpo che non ha paura di sperimentare la vita e le sue combinazioni impreviste e spesso pericolose (anche il tumore per Perniola è un’occasione di esperienza, terribile ma decisiva). Solo un corpo del genere, infatti, un corpo liberato da ogni identità da difendere, si può permettere il divenire. Un corpo del genere, scrive Perniola, è propriamente il corpo del vampiro:

Il vampiro è un essere a metà tra la vita e la morte, l’esperienza neutra e impersonale della “cosa che sente”, lo stato intermedio in cui io ora mi trovo, dal momento in cui mi è stato diagnosticato il cancro al pancreas. In altri termini, è il sex appeal dell’inorganico […]. Nell’Ade Ulisse ritrova sua madre Anticlea, che si è uccisa non sopportando il dolore provocato dall’assenza di suo figlio: anche lei parla solo dopo aver gustato il sangue. Ulisse desidera riabbracciarla, ma ella si sottrae perché ai morti ciò non è concesso. Così appare chiaramente il significato anti-edipico di questa impossibilità. Nessun ritorno indietro è possibile: Ulisse partendo per la guerra di Troia ha spezzato il vincolo edipico che lo legava alla madre e si è avventurato nel mare aperto del divenire. Dall’Odissea emerge così un aspetto insospettato di Tiresia: il vampirismo. Mi chiedo se anch’io non sia stato sempre un vampiro; essendo privo di una identità ontologica, un “nulla all’opera”, come amavo definirmi tanti anni fa, ho bisogno di uno stimolo esterno, di sangue che mi consenta di agire, pur rimanendo nello stato intermedio del né veramente vivo, né veramente morto (ivi, p. 410).

Il vampiro, come il virus, vive della vita degli altri. Ma proprio come il virus il vampiro in realtà non vuole uccidere la persona a cui succhia il sangue, perché il suo obiettivo – esattamente come quello del virus – è poter continuare a vivere sempre sotto altre forme, e non potrebbe farlo se non ci fossero altri corpi da vampirizzare. Il vampiro, ma anche il virus, è segnato da una radicale “insicurezza ontologica”, ossia appunto non sa che cos’è, quale sia la sua identità. O meglio, “insicurezza ontologica” vuol dire che l’identità coincide con il suo incessante mutare, con il suo continuo cambiare forma. Pertanto invece di cercarne una, come il tempo reazionario che stiamo vivendo ci chiede di fare, rinchiudendoci in una identità – ad esempio donna, maschio, madre, padre, cristiano e così via definendo – Perniola fa di questa insicurezza la propria stessa paradossale natura. Ecco perché non è la vita di Perniola, quella che ci racconta Tiresia contro Edipo, bensì appunto le vite di un uomo che in tutta la sua esistenza non ha fatto altro, proprio come un vampiro, di prendere vita da altre vite, per costruirne sempre di nuove: per questo «Tiresia è il trasgressore per eccellenza della distinzione tra i sessi, delle norme sociali, della bipartizione tra uomini e dei, della mortalità umana, della divisione temporale tra presente e futuro. […] Egli è il mediatore tra l’umano e il divino, tra la vita e la morte, tra mascolinità e femminilità, tra uomini e bestie» (ivi, pp. 20-21).

La figura che raccoglie tutti questi divenire è «il mio divenire-donna. L’essere umano non è per nulla dotato di un’identità fissa, ma aperto sul mondo. La nozione di mondo rimanda a qualcosa di aperto e di rischioso» (ivi, p. 36). Ecco, il “mondo è aperto e rischioso”, è questa, forse, la chiave per comprendere questa specie di autobiografia che in realtà è più una autoinvenzione di sé stessi. Il mondo è aperto, cioè mondo vuol dire scoperta e invenzione, ma vuol dire anche pericolo e rischio, come il tumore che lo ha portato via. Il punto è trovare un modo per fare anche del tumore una possibilità di una delle tante vite di Tiresia-Perniola; scrive infatti a gennaio 2017, tre mesi dopo la diagnosi del tumore: «In questi tre mesi ho scritto quasi trecento pagine di getto, per non pensare sempre alla malattia, da cui sono venute fuori anche delle cose per me sorprendenti che vanno al di là della mia persona e che presentano un interesse generale. Da questo scartafaccio cercherò di trarre l’essenziale e, se sarà possibile, di continuarlo. Madama Morte è sempre impersonale: proprio perciò solo attraverso di lei il soggetto, che ho tanto detestato, diventa neutro. In altre parole, cessa di essere uno scrivente e diventa uno scrittore» (ivi, pp. 15-16).

Non essere tanto uno “scrivente”, cioè qualcuno che oltre a tutte le altre sua attività scrive anche una storia, quanto essere uno “scrittore”, cioè qualcuno la cui vita coincide con quella stessa scrittura, cioè con una vita che diventa ciò stesso che viene scritto. Così anche il tumore diventa, paradossalmente, un’occasione di vita, qualcosa da cui il vampiro Perniola può riuscire a succhiare dei succhi vitali, della forza per continuare a vivere, per continuare a divenire qualcos’altro. E se c’è un luogo che per Perniola incarna questo divenire questo è il suo amatissimo Brasile: «Tutto ciò che ho poi frammentariamente attribuito al Brasile si concentra in quel momento. Intanto direi che è un presente immobile, un punto in cui la vita e la morte si congiungono perché c’è un divenire-mare verde e caldo, un divenire-vento, un divenire-cielo in cui corrono nuvole bianche, ma soprattutto un divenire-flamboyant vermelho, albero fiammeggiante, albero di fuoco, delonix regia, poinciana regia: ti vedrò ancora nella mia vita?» (ivi, pp. 74-75).

Il punto decisivo del libro, ma anche delle molte vite di Perniola, è in questa domanda, che tuttavia non ha nulla di angoscioso (non a caso la leggiamo non a fine libro, ma in un punto qualunque, perché non dobbiamo attribuirgli troppa importanza). Si tratta di capire in che senso il vampiro-Tiresia Perniola possa continuare ad esserci una volta che l’uomo Mario Perniola è ufficialmente morto il 9 gennaio 2018. Se prendiamo sul serio il divenire allora è chiaro che Perniola non ha smesso di divenire qualcos’altro, perché il divenire non si arresta mai. Quasi alla fine del libro Perniola scrive, dopo avere ricordato la figura di un suo parente gesuita, Vito Perniola, morto nel 2016, proprio l’anno della diagnosi della malattia mortale: «Ripercorrendo la vita di questo gesuita, mi sembra di allargare la mia: divenire-Vito-Perniola» (ivi, p. 423). Tutta una vita per diventare un’altra vita, quella di un gesuita che ha vissuto un’esistenza straordinaria e lontana. Allo stesso tempo tutta una serie di vite per diventare la propria impersonale vita, ché Mario diventa Vito, cioè Edipo si trasforma ancora una volta in Tiresia.

Il libro si chiude nella pagina successiva, con una frase anonima che sulle prime indispettisce il lettore, che invece si sarebbe aspettato una frase memorabile, di quelle che verranno ricordate per sempre. Perniola si chiede come abbia fatto il suo parente gesuita, che ha passato molti anni della sua vita nello Sri Lanka devastato dalla guerra civile, a sopravvivere indenne, mentre tanti altri cattolici sono stati uccisi: «Questi tuttavia abitavano nella parte nord del paese, quello occupato dalle Tigri» (ivi, p. 424; le Tigri Tamil, che lottavano per l’indipendenza della parte nordorientale dell’isola). Tutto qui. Ecco, è questo il divenire-Perniola, perché non c’è niente che finisce del tutto, c’è qualcosa che cambia, che continua a cambiare, che continua a divenire. Perniola non ha smesso di divenire-Perniola.

Mario Perniola, Tiresia contro Edipo. Vite di un intellettuale disorganico, Il Melangolo, Genova 2021.

Tags     arte, Mario Perniola, vita
Share