Thor e Jane Foster si fronteggiano in un’inquadratura laterale in profondità di campo. Entrambi dèi del tuono asgardiani. Entrambi in possesso di un martello incantato che fornisce loro un potere smisurato. In mezzo ai due, sullo sfondo, un edificio sviluppato in altezza in preda alle fiamme si sfalda, cedendo profeticamente. A trenta minuti dall’inizio del film Thor: Love and Thunder, viene così introdotto il fondamentale nucleo tematico del lungometraggio, a tutti gli effetti un secondo avvio.

In tale sorprendente circostanza Thor realizza che il nuovo dio del tuono, capace di sollevare il frammentato martello Mjölnir, è una donna, nonché la sua ex-amante. Il momento della rivelazione per il possente dio, marcato dal crollo della struttura dalla chiara connotazione fallica, simboleggia un momento epifanico per l’eroe e il pubblico: la possibile fine del patriarcato nel Marvel Cinematic Universe (MCU). Nel turbinio di oggetti fallici che tempestano la pellicola, una serie di personaggi femminili capaci di maneggiarli con destrezza a discapito delle controparti maschili (quasi sempre fallimentari in tale sfera) ottengono ruoli di rilievo, dimostrando la capacità di superare l’invidia del pene freudiana appropriandosi di armi emblema del potere patriarcale.

Nonostante la presenza di due ben distinti protagonisti, il titolo del film non viene formalmente contraddetto, dal momento che entrambi rispondono al nome del dio del tuono e risultano totalmente equivalenti. Se per il primo si tratta del ben noto Thor che il pubblico ha imparato a conoscere nel corso di questi quindici anni di MCU, l’altro è un’insolita versione al femminile dell’Ase, centro emotivo della storia comparabile al figlio di Odino. Più che un centro dunque, sono due i fuochi della traiettoria ellittica dei martelli incantati lanciati in battaglia, lungo la quale i personaggi percorreranno il loro cammino di maturazione.

Dopo averla conosciuta nei primi due film della serie quale oggetto della scopofilia feticista maschile, necessaria a sfuggire all’ansia di castrazione provocata dalla mancanza femminile del pene (se vogliamo rimanere alla teoria freudiana applicata al cinema da Laura Mulvey), ritroviamo qui Jane Foster in possesso del simbolo fallico per eccellenza del MCU: il martello incantato Mjölnir, forgiato e benedetto dal “padre” degli dei asgardiani Odino. L’antecedente incontro tra Thor e Lady Sif, privata di un braccio in battaglia, aveva funto da introduzione del tema e innesco dello stato ansiogeno, esplicitando attraverso l’amputazione dell’arto il processo castrante.

Il turbamento di Thor nella constatazione del possesso di Jane della sua vecchia arma e dei suoi poteri non è quindi che la manifestazione dell’ansia di castrazione dettata dal riconoscimento dell’esistenza di una donna appropriatasi del suo oggetto di affermazione di dominio fallico. Nel contesto psichico di un personaggio e di una serie di film dominati dalla dialettica dell’essere degni o meno di sollevare il suddetto martello quale esplicita prova di mascolinità e legittimo diritto di dominio della tribù, la figura della scienziata rappresenta un’imponente minaccia all’ordine patriarcale dell’universo diegetico (letteralmente) e dell’industria hollywoodiana (allegoricamente).

La nuova dea, nella sua funzione castrante, abbraccia il ruolo di archetipica «femme castratrice» delineato da Barbara Creed, dotata della terrificante vagina dentata (testimoniato dalla struttura acuminata dell’elmo della donna). Il martello scheggiato in suo possesso, precedentemente frantumato e ora ricomposto, risveglia in Thor il trauma della castrazione operata nel precedente film dalla diabolica Hela (chiara incarnazione della Medusa secondo il modello freudiano aggiornato da Creed) con la distruzione di Mjölnir, il fallo del dio.

Il mancato controllo della nuova arma fallica Stormbreaker da parte del figlio di Odino segnala la difficoltà del dio a mantenere l’assoluta centralità dell’eroe maschile all’interno dell’impianto diegetico e del discorso di genere, incapace di relazionarsi a questo nuovo mondo di sentimenti ed emozioni (tipicamente associati all’universo femminile) in cui la potenza dei muscoli virili è inutile. Viene quindi un po’ meno il controllo muscolo-ipertrofico e testosteronico dell’action hero, mentre all’altro polo dello spettro l’eroina guadagna in concretezza e presenza acquistando della vera e propria massa fisica, secondo l’attuale trend hollywoodiano che raggiunge qui la sua consacrazione nella lievitazione muscolare dell’esile Natalie Portman.

Ciò che rimane dunque della mascolinità “maschile” è Zeus, leader di tutti gli dei nella città di Omnipotence City. Anziano e fuori forma, occupato soltanto ad autocelebrarsi con narcisistiche prove di forza e circondandosi di giovani e procaci ancelle dedite esclusivamente alla sua adulazione (echi palesemente trumpiani), la divinità greca è l’emblema del vecchio patriarcato; una generazione di compiaciuti e prepotenti capitalisti e produttori intenti ad asserire il proprio potere nella società calpestando qualunque visione del mondo non derivi da loro. Appropriatamente, al termine di un confronto tra divinità della tempesta, in cui il re dell’Olimpo denuda il prestante Thor per un evidente confronto fallico atto a riaffermare il proprio ruolo di capotribù dalla minaccia del giovane pretendente, finirà trafitto dalla sua stessa folgore, non più capace di mantenere il dominio patriarcale.

Parallelamente, lo strumento fallico del villain Gorr lentamente causa la morte del “macellatore di dei”, in un particolare rispecchiamento del cancro che sta uccidendo Jane. Il prefisso necro nel nome dell’arma richiama d’altronde un’idea di processo di definitiva degenerazione, lo stesso stato canceroso che ha piagato per anni la società occidentale e l’industria cinematografica americana, ma che al momento presente sta auspicabilmente causando la lenta caduta dei patriarchi che per decenni hanno impugnato questo potere.

Tematiche di queerness, che scorrono in sottotraccia al discorso del film, sono condotte dall’altro personaggio femminile di rilievo, Valchiria, il re (attenzione, non “regina”) di Asgard, impossessatasi dell’arma fallica di Zeus. La dea diviene vera e propria personificazione della fluidità di genere nel momento in cui, con un fascio di capelli, lega il volto dell’alieno Korg alla propria nuca, trasformandosi in un grottesco Giano dal seducente volto di Tessa Thompson da una parte e una baffuta espressione rocciosa dall’altra.

Ma la portata innovativa del film non si localizza in uno scontro di generi che si risolva nell’apologia femminista, come da attuale prassi culturale, quanto nella propugnazione di un discorso di parità funzionale dei due sessi. La struttura dicotomica del film, che vede generare continue opposizioni diegetiche e tematiche (Jane e Thor, Jane e Zeus, Jane e Gorr, Valchiria e Korg, questione spirituale e questione culturale), rivela in realtà un discorso paratattico, preannunciato dal titolo Love and Thunder, in cui la coesistenza e l’uguaglianza, e non una lotta per la supremazia, sono l’essenza. I due Thor coesistono infatti come doppio protagonista della vicenda. L’equivalenza attanziale è inoltre enfatizzata dall’assenza di declinazione di genere nella morfologia della lingua inglese, eliminando qualunque distinzione denotativa nel riferimento a entrambi col titolo di “Thor”. Coerentemente col discorso, la pellicola non termina con l’affermazione di Jane quale nuova e indiscussa eroina del franchise, quanto piuttosto con la sua morte e la formazione di una nuova coppia di eroi in Thor e la figlia di Gorr.

Il momento cruciale della pellicola si rivela però non nella culminante sconfitta del macellatore di dèi (tramite uno sforzo congiunto ed egualitario delle due divinità del tuono), ma nel momento che vede il figlio di Odino condividere il proprio potere con i bambini asgardiani, senza distinzione di sesso, età o provenienza, ognuno dotato della propria arma fallica: il messaggio del film viene consegnato alle nuove generazioni. Sono loro che dovranno comprendere e mettere in pratica queste nuove strutture, demolendo le vecchie gerarchie patriarcali dominate dagli Zeus conservatori.

Riferimenti bibliografici
B. Creed, The Monstrous-Feminine: Film, feminism, psychoanalysis, Routledge, London-New York 2007.
S. Freud, La testa di Medusa in Opere, vol. 9, Torino 2006.
L. Mulvey, Visual Pleasure and Narrative Cinema, in “Screen”, vol. 16, n. 3, 1975.

Thor: Love and Thunder. Regia: Taika Waititi; sceneggiatura: Taika Waititi, Jennifer Kaytin Robinson; montaggio: Matthew Schmidt, Peter S. Elliot, Tim Roche, Jennifer Vecchiarello; fotografia: Barry Idoine; musiche: Elliott Wheeler; interpreti: Chris Hemsworth, Christian Bale, Tessa Thompson, Jaimie Alexander, Taika Waititi, Russell Crowe, Natalie Portman; produzione: Marvel Studios; distribuzione: Walt Disney Studios Motion Pictures; origine: Stati Uniti d’America; durata: 119’; anno: 2022.

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