The Utopia Strong, nome suggestivo, che s’addice alle geometrie della copertina, le linee e le curve in asintoto, il disegno quasi mistico di questi tratti intorno a una sfera argentina e lo sfondo nero in quanto cosmo stereotipato, quando poi dietro sembrano preesistere sezioni, segmenti di senso grafico, catarifrangente; è il nome di un nuovo trio (ma formato da musicisti esperti, già impegnati tra Gong, Coil, Guapo, ecc, cioè Kavus Torabi, Michael J. York e Steve Davis) e del suo primo disco pubblicato dalla Rocket Recording, tripudio di elettronica che si rifà certo a quella degli anni settanta, tra Cluster, Brian Eno, Heldon (quell’Electronic Guerrilla a cui prese parte anche Deleuze che leggeva Nietzsche), così come, troppo spesso lo si dimentica quando si pensa ai pionieri di questo genere, il Battiato di Sulle corde di Aries, quello stillicidio di gocce elettriche, secrezioni ocra, gialli, inesausti galleggiamenti o annegamenti in pozzanghere di ossessione; ma anche ovviamente a quella marea di elettronica contemporanea, non prettamente sperimentale, che va da James Holden, Floating Points e arriva ai Bitchin Bajas, veri e propri corifei del mini-mog, passando per i Plaid, i Four Tet, fino a certi dischi usciti per El Paraiso negli ultimi dieci anni (penso al misconosciuto, scintillante Pan di Jonas Munk o a Doppler del suo compagno di band Jakob Skott), ecc.
Un’elettronica avventurosa dentro gli spazi che si mostrano ancora integri, non frammentati in lacerti cerebrali; si sentono in penombra, alla luce fioca di qualche led intermittente o di una luna in rapsodia di blu, di violaceo, di violacciocca che si sporge tra i vapori di un’atmosfera ultrastellare.
The Utopia Strong non disperde il motivo, la ragione di un’armonia anche elementare, ora grondante a grappoli di note, di gocce (come Sequenze e frequenze, appunto), che si oppone a derive in drone e si modula attraverso impressioni di chitarre, xilofoni, grancasse, come Emerald Tablet che apre il disco.
Da lì il percorso si fa variegato, sincretico, tant’è che in Konta Chorus vige il refrain industriale — cupa, epica cadenza di sirena, emanazione di un’esperienza sonora artificiale che è anche, evidentemente frame, parvenza di figure, di panorami che fremono — accordato ad aperture a corda, aperture di chitarre classiche, folk su base di sintetizzatore. Le stesse, in modulazioni estese di synth, che mostrano, suonano orizzonti, aurore purpuree, oceani nel cui specchio oscilla un monte di note, un firmamento ricolmo di byte, o presagi inquietanti, in Summer e Unquiet Boundary.
È quella disposizione icastica consustanziale alla musica, tanto più alla musica elettronica, o a certo space-rock, al kraut, per cui la nota sembra voler trascendere in icona (e viceversa), in atmosfera, generando non immagini definite, conchiuse, bensì vaghi immaginari che hanno la concretezza di vapori in cui le cose si possono solo intravedere, eppure sentirle ineffabilmente presenti. Si tratta di una dimensione di transito, di traslitterazione impossibile eppure tentata per propria inclinazione dall’unità sonora, ma in genere dal segno: transito da un linguaggio a un altro, che porta a un limine in cui sembra affacciarsi e apparire il virtuale, tutta la congerie di forme esistenti solo in potenza.
Solo all’interno di questa concezione, di questa geografia di trasmigrazione, di spostamento (anche frenetico) si può concepire la vicenda della musica elettronica, progressiva (non diversamente da quanto accade nelle fughe o nei giga, nelle partiture barocche, nei quintetti di Faurè ecc., di cui certa elettronica, e tanto più la techno più consapevole, sintetizza l’andamento, il calco), guardando la torsione che compie, il contorcimento del suo stesso corpo astratto; guardandola nel suo sfaglio, mentre abbozza (semplicemente ispira in chi ascolta) spazi e tempi: che sarebbe come apprendere, appercepire il cinema dalla parte dell’armonia, mentre tentasse di sciogliersi in nota, suono, sinfonia. Allora Transition To The Afterlife è, anzi sembra, nella misura in cui le cose s’intravedono, un luogo chiuso (come lo è Pickman’s Model), un cafarnao stipato da bassi profondi in cui rimuginano sintesi di organetti di Barberia sotto le intonazioni larghe e liriche di una “viola di morte” (quella di Landolfi).
Che poi è preludio della lunga suite di Brainsurgeons 3 tutta tesa d’archi artificiali, sia a ritmare all’inizio in modo compassato insieme alla grancassa, sia come sibilo e poi motivo principale, un momento prima che si scateni, crescente, una ridda ipnotica di stridori computerizzati e rif di tastiera intersecati a cornamuse elettriche, per una post-pastorale che sfocia, sfuoca in arpa. Per poi rivivere, prolungarsi nella trama degli organi, alcuni quasi stonati, svisati, di Do You Believe in two Gods?, fino a che non diventano strilli, clamori di starne metalliche che si perdono in lontananza. Ma da lì giungono voci femminili vestite di veli di nuvole verdi e violette, in cui sono trascese, trasmigrate le viole, il tremore delle violacciocche nate da bozzoli di note, di bip sulla placia, che s’intessono in tramonto, rimembranza, in Moonchild, che va “alla deriva sugli echi delle ore”.