Nei ringraziamenti che concludono il suo formidabile romanzo d’esordio Heather, The Totality (2017), Matthew Weiner rivela: «Scrivere questo libro è stata un’esperienza che mi ha cambiato la vita e un sogno d’infanzia realizzato, e una cosa che, come tutte le altre che ho fatto, non avrei mai potuto fare da solo». Se è vero che il mito novecentesco dello scrittore solingo e tormentato è ormai messo in discussione da alcuni fortunati episodi di narrazioni partecipate e collaborative, in questo caso è soprattutto l’esperienza della scrittura collettiva seriale a influenzare i ringraziamenti che chiudono il primo libro dell’autore americano. Non si tratta soltanto di rimettere, retoricamente, la paternità della propria opera nelle mani di una collaborazione più informale che effettiva, ma di ridiscutere il concetto stesso di autorialità letteraria in funzione di un rinnovato sistema di idee, principi, parole con cui si pensano, oggi, le storie.

La serialità televisiva complessa ha, in questo senso, contribuito a rivoluzionare il concetto stesso di autore. A partire dalla mente e dalla penna di Weiner, del resto, sono nate le due serie che forse hanno più influenzato la serialità televisiva del XXI secolo: si tratta di The Sopranos (1999-2007, HBO), in cui Weiner lavora come produttore esecutivo, partecipando alla writer’s room coordinata da David Chase e firmando la sceneggiatura di 12 episodi, e di Mad Men (2007-2015, AMC), serie di cui è ideatore, sceneggiatore, produttore esecutivo, showrunner. Se Weiner è, insomma, tra i più talentuosi e influenti scrittori americani contemporanei, stupisce che in Italia quasi nessuno si sia accorto dell’uscita della nuova serie da lui scritta, prodotta, creata e perfino girata.

The Romanoffs viene rilasciata, con la cadenza di una puntata a settimana, dal 12 ottobre al 23 novembre 2018 su Amazon Prime Video. Si tratta di una serie antologica composta da otto episodi che seguono, rispettivamente, le storie di otto personaggi connessi a vario titolo con la famiglia reale russa. Oltre a esserne ideatore, creatore, produttore e sceneggiatore (assieme a Michael Goldbach e Mary Sweeney), Weiner è anche regista di tutti e otto gli episodi, ognuno ambientato in un contesto narrativo apparentemente non concatenato al precedente, o al successivo (New York, Parigi, Toronto, Mexico City, Vladivostok, Hong Kong, etc.). Il budget messo a disposizione da Amazon è di circa 50 milioni di dollari, con una media di 6 milioni a episodio; inoltre, Weiner ha la possibilità di coinvolgere star come Diane Lane, Aaron Eckhart e Isabelle Huppert (oltre ai fedelissimi Christina Hendricks e John Slattery). Anche in virtù della durata variabile tra i sessanta e i novanta minuti, ogni episodio assume le sembianze di un piccolo film, scritto, costruito e girato con uno stile diverso. Tuttavia, l’uniformità di genere è garantita dalle tonalità ricorrenti del noir, rimodellate di storia in storia da un registro trasversalmente in equilibrio tra il dramma e la commedia.

La particolarità che salta subito agli occhi è la totale disattesa di qualsiasi aspettativa spettatoriale, almeno rispetto a come la serie si presenta. Se, infatti, lo stesso logo rimanda a un collegamento diretto con la casata reale russa, in realtà nessun episodio è realmente ambientato nello specifico contesto in cui essa si è storicamente sviluppata. La stessa sigla agisce in una doppia direzione: da un lato, attraverso una carrellata iniziale prima su alcuni ritratti, poi sui membri della famiglia reale (che si conclude con una fucilazione di massa), fa credere che il punto di partenza sia proprio quel contesto storico; dall’altro, attraverso il passaggio repentino dai corpi martoriati dei Romanov a fotografie d’epoca di avi e discendenti, e infine alla fuga di una ragazza sopravvissuta al massacro (probabilmente Anastasia?), che sbuca con un mantello blu dalla metropolitana di New York sotto le note di Refugee di Tom Petty, lo spettatore viene invitato a saldare il suo immaginario nel presente. Alcuni dei personaggi su cui sono costruite le storie sono, infatti, diretti discendenti della famiglia reale; altri sono semplicemente connessi ad essa da un motivo d’interesse (la scrittura di un libro o l’interpretazione di un film su di loro). Tuttavia, soltanto accidentalmente, le vicende sono narrativamente ispirate alla storia della famiglia: le storie, insomma, partono tutte da lì per arrivare altrove.

Il primo racconto, intitolato The Violet Hour, è ambientato a Parigi e ruota attorno a un americano che, assieme alla sua giovane compagna francese, attende la morte della vecchia zia, che crede discendente dei Romanov, per ereditarne gli averi. Se il primo episodio di una serie antologica ha soprattutto il compito di settare i temi ricorrenti e anticipare i fattori concatenanti, è proprio nella discendenza/connessione (reale o presunta) con i Romanov a risiedere l’interepisodicità della serie. Tuttavia, ogni puntata finisce per intraprendere strade inaspettate e a distanziarsene in modo anche evidente.

All’interno della serie troviamo vicende e personaggi che danno vita a storie diversamente articolate: tra crisi di coppia (The Royal We ed End of the Line) e bugie che riemergono dal passato (Expectation), tra amori idealizzati (Panorama) e rapporti familiari conflittuali (The One That Holds Everything e The Violet Hour), The Romanoffs è soprattutto una serie sulla difficoltà di avere delle relazioni umane nella (e con la) propria famiglia. A questa forte vocazione antropocentrica, Weiner aggiunge una profonda riflessione politica sul presente — le presunte molestie sessuali all’interno di un contesto omofobico raccontate in Bright and High Circle, oppure la critica al benessere aristocratico della classe privilegiata bianca americana che attraversa i vari episodicosì come sullo statuto delle immagini contemporanee — in House of Special Purpose, uno degli episodi più perturbanti, un’attrice si “perde” all’interno di un set di un film sui Romanov, non riuscendo più a distinguere la finzione della realtà.

Così come nei Sopranos e in Mad Men, la scrittura è caratterizzata da una maniacale attenzione al dettaglio, alimentata da un lentissimo e graduale rilascio delle informazioni. Nei Romanoffs, Weiner si muove costantemente in bilico tra i tempi dilatati del cinema e la necessità di tenere conto delle strutture classiche del racconto televisivo. Se nelle precedenti esperienze seriali lo scrittore americano aveva dimostrato un maggior interesse per la costruzione dell’anthology rispetto al running plot, qui la narrazione orizzontale lascia definitivamente il posto alla verticalità del racconto, e la descrizione sembra in più occasioni prevalere sulla narrazione. Tuttavia, l’esplosione della linea verticale non trascende mai in moralismi e allegorie che, fin troppo esplicitamente, caratterizzano molte serie antologiche contemporanee (si pensi al caso eclatante di Black Mirror). Lasciando naturalmente al piano orizzontale la coralità del racconto, dunque, Weiner dedica ogni episodio a uno-due personaggi dimostrando, tramite la gestione oculata dei tempi visivi e narrativi, una rara abilità nel coniugare una narrazione character-oriented in profondità ai meccanismi della suspence.

Ma è anche una forte predominanza dell’elemento visuale a caratterizzare la regia di tutti i racconti. A parte alcuni episodi di Mad Men, Weiner si cimenta per la prima volta integralmente con la regia di qualcosa che scrive. E non lo fa soltanto per ribadire la paternità totale della sua opera, quanto per garantire una linea di continuità tra le dinamiche di scrittura e il modo in cui si muove trasversalmente la macchina da presa. In particolare, l’autore interviene nella rarefazione degli ambienti alternando lunghi e raffinati dialoghi a momenti visivamente evocativi. Se in alcuni episodi il riferimento principale sembrano essere quelle atmosfere in bilico tra noir e commedia a là Woody Allen, oppure la costruzione di una suspence hitchcockiana mista all’attenzione per i dettagli visivi e narrativi che richiamano, ad esempio, il cinema di Stanley Kubrick, in altri è proprio l’estetica del cinema moderno europeo a influenzare la regia di Weiner, soprattutto in rapporto alla centralità della sceneggiatura.

Prendendo come esempio l’episodio ambientato a Mexico City, intitolato Panorama, la macchina da presa prima pedina i protagonisti, per poi perderne sovente il punto di vista in un solco visivo tra Rossellini e Antonioni (non a caso, si tratta dell’episodio meno narrativamente strutturato dell’intera serie). Non sorprende, dunque, che House of Special Purpose sembri una specie di tributo a Sils Maria (2014) di Olivier Assayas, sia nel raccontare la competizione umana e professionale tra le due protagoniste, sia nel modo in cui lo stesso spettatore finisce per perdersi all’interno del set, confondendosi in una realtà parallela tra finzione e realtà. In tutti gli episodi, Weiner alterna momenti visivamente statici, in cui prevale la centralità di una scrittura descrittiva, a situazioni in cui muove tantissimo la macchina da presa per rispecchiare i tumulti interiori dei personaggi. A una visione complessiva, insomma, i Romanoffs mette insieme otto racconti formalmente liberi e narrativamente imprevedibili, in un equilibrio costante tra elementi visivi presi in prestito dalla modernità cinematografica e dinamiche di scrittura proprie della classicità letteraria, cinematografica, televisiva.

Alcuni critici e osservatori americani sono rimasti spiazzati proprio dall’ibridismo di questa operazione, difficile da incasellare all’interno di una categoria produttiva: si tratta di cinema, televisione, o addirittura di una web-serie? Se il ritorno al rilascio settimanale delle puntate ci ricorda che il palinsesto non è morto, e che dobbiamo prenderci il nostro tempo per apprezzare la complessità delle storie e garantire loro il giusto production value contro la frenesia da binge-watching, la durata variabile di ogni episodio non permette di sistematizzare i Romanoffs all’interno delle logiche orarie del palinsesto classico, avvicinandola più alle sembianze di una saga cinematografica o di una raccolta di racconti letterari che a quelle di una serie televisiva. Forse si tratta, semplicemente, di una naturale evoluzione della serialità antologica nell’epoca dello streaming da piattaforma, dell’ennesima tappa del personale contributo di Matthew Weiner (dopo i The Sopranos con le serie quality e Mad Men con la complessità narrativa) nel ripensare i modi e i tempi in cui oggi si concepiscono, raccontano e consumano le storie.

The Romanoffs. Ideatore: Matthew Weiner; interpreti: Christina Hendricks, John Slattery, Diane Lane, Aaron Eckhart, Isabelle Huppert; produzione: Weiner Bros, Picrow, Amazon Studios; origine: USA; anno: 2018-in corso.

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