Quando Jerzy Kosiński pubblicò The Painted Bird nel 1965, il romanzo fu un grande successo che neppure le polemiche posteriori riuscirono a scalfire. È la storia di Joska, un bambino affidato temporaneamente dai genitori a una zia che, a seguito della morte di questa, inizia una serie di peregrinazioni, sfruttato, abusato e rigettato dalle diverse micro-comunità che incontra. A causa dell’incertezza sulla sua etnia e religione, Joska affronta le più incredibili e atroci traversie in un non meglio specificato Paese dell’Europa Orientale durante l’occupazione nazista, riuscendo solo alla fine a ricongiungersi al padre e alla madre. Malgrado le controversie (tra le quali quella che Kosiński non fosse l’autore materiale del libro), il romanzo riuscì a sopravvivere a queste accuse mai provate, attualizzando paradossalmente il tema del libro stesso, tradotto poi in tutto il mondo e da molti considerato uno dei più alti esempi letterari del Novecento americano.
Forse è stata proprio questa sopravvivenza a costituire lo spunto dal quale si è mosso Václav Marhoul per iniziare nel 2008 un progetto che avrebbe portato alla realizzazione di un film tratto dall’opera di Kosiński. Perché The Painted Bird non si limita ad assumerla come motivo che sorregge il racconto, ma in qualche modo chiede anche allo spettatore di sopravvivere alla proiezione. Impresa nient’affatto scontata.
Girato in un bianco e nero che esaspera i chiaroscuri, articolato in dieci quadri per la durata di quasi tre ore (oltre quattro nelle intenzioni originali del regista), con dialoghi pressoché inesistenti, il film rimane fedele all’impianto narrativo del romanzo, mantenendo uno stato di tensione costante suscettibile di esplodere repentinamente in gesti efferati (l’asportazione dei bulbi oculari con un cucchiaio ad esempio). The Painted Bird (“l’uccello dipinto” fa riferimento a uno degli episodi più crudi e spiazzanti del film, epitome dell’inevitabilità della violenza senza finalità alcuna) si inserisce a pieno titolo in quella costellazione di opere estremistiche – quelle che Pasolini auspicava alla fine della sua carriera – che obbligano lo spettatore a un confronto continuo con i propri limiti di visione.
Nessuna abiezione in effetti viene a mancare: tortura, mutilazione, schiavismo, pedofilia, zoofilia, genocidio, in un crescendo incredibile – alla lettera – che si spinge dentro il cuore violento che indirizza le azioni umane. Come restituire tutto ciò con le immagini giuste? È attorno a questo interrogativo che il film si sviluppa, nel tentativo di conciliare la credibilità delle immagini con la credibilità degli eventi narrati che, per quanto finzionali, si inscrivono all’interno di fatti storici ben precisi. Un problema sempre attuale che riprende una questione chiave che ha lungamente impegnato il cinema sin dall’alba della sua modernità, come già scriveva André Bazin in pagine famose: «Ciò di cui c’è bisogno per la pienezza estetica dell’impresa è che noi possiamo credere alla realtà degli avvenimenti sapendo che sono truccati».
Se Bazin individuava la questione della credenza principalmente come problema sintattico, il «montaggio proibito», Marhoul la concepisce invece a livello di messa in scena, tanto a livello cromatico (come ha dichiarato lui stesso a proposito del realismo implicato nel bianco e nero) quanto nella dialettica tra il campo e il fuori campo, lasciando all’immaginazione spettatoriale il compito di dare forma concreta a quanto il più delle volte solo suggerito dal film. La sospensione dell’incredulità è un prerequisito fondamentale perché si possa dispiegare compiutamente il passaggio dal libro al film: la trasformazione di una presunta autobiografia – di un io letterario – collocata in uno specifico orizzonte spazio-temporale in un racconto universale che ci riguarda senza distinzioni di sorta. Le peripezie di Joska (interpretato da Petr Kotlár), di cui si apprenderà il nome solo nell’ultima inquadratura, non sono affatto diverse dalle peregrinazioni di altri bambini che negli ultimi anni hanno costituito le icone dei fenomeni migratori, finendo per incarnare i simboli di un’umanità derelitta e respinta.
Ma questa è solo la patina superficiale di allargamento di orizzonte che si estende in cerchi sempre più ampi. L’universalità non è infatti solo di carattere anacronistico dovuto alle contingenze della cronaca, ma risiede nella struttura stessa del film. Un’universalità linguistica che ricorre, nei rari momenti parlati, a un esperanto panslavo che impedisce ogni specifica collocazione geografica, se non proprio a gesti minimali e basici che gestiscono la comunicazione tra gli individui. Un’universalità di habitat, che specialmente all’inizio definisce la normalità del mondo rappresentato come ambiente primigenio fatto di fango, capanne di legno, mestieri ancestrali, comunità nucleari.
Si tratta anche di un’universalità narrativa, che affonda nel canovaccio favolistico e dei grandi racconti archetipici; Joska è il capro espiatorio contro il quale si accaniscono nei modi più biechi e perversi adulti e coetanei, uomini e donne, e che solo alla fine comprenderà (e noi con lui) il motivo dell’abbandono temporaneo da parte dei genitori, quando scorgerà il numero tatuato sull’avambraccio del padre. Un’universalità infine delle immagini stesse, che non a caso riescono a convocare a distanza, a riecheggiare anche solo flebilmente momenti molto diversi della storia del cinema, da Pudovkin, Ejzenštejn e Dovzhenko a De Sica e Rossellini, sino a Hitchcock, Bergman, Tarkovskij, Tarr, senza che questo gioco di citazioni possa essere ricostruito sino in fondo, ma rimanendo come impressione latente, condivisione di linee estetiche e tematiche, senza possibilità univoca di risalire il percorso sino all’origine.
Se la violenza è dunque la cornice della storia, al contempo la Storia è la cornice di questa violenza, in un’intricata incassatura di cause e conseguenze. Da questo punto di vista, le pratiche immunizzanti che si attivano dentro una data comunità nei confronti della possibile minaccia sono un tratto condiviso tra le diverse società messe in scena; la differenza è la scala sulla quale queste pratiche possono dispiegarsi, che nel caso della Germania nazista è industriale, negli altri preindustriale. Non c’è dunque alcuno stato edenico perduto nel processo di industrializzazione, semmai taglie diverse che amplificano esponenzialmente l’entità dei fenomeni.
Nell’arco ampio ed estenuante descritto, The Painted Bird tratteggia una storia naturale e universale della distruzione, un affastellamento di corpi bruciati e di morti brutali, che sottopongono il pubblico a un’esperienza al limite delle possibilità di sopportazione. Di fronte al rischio di un’anestetizzazione verso immagini che testimoniano la sofferenza, che pure lambisce le nostre vite in cerchi sempre più prossimi, uno dei compiti che il cinema contemporaneo si è dato è quello di inventare le forme per far sì che lo spettatore non smetta di identificarsi con la rappresentazione, che non senta questa come qualcosa di separato da sé, nel tempo e nello spazio, ma attivi un legame empatico, anche a costo di metterne sotto sforzo le passioni sino quasi al punto di rottura. Se il rischio di scadere nel compiacimento gratuito è alto, questa continua a essere comunque una strada necessaria, che una volta intrapresa va perseguita senza compromessi: un’intransigenza di sguardo che a Marhoul certo non fa difetto.
Riferimenti bibliografici
A. Bazin, Che cos’è il cinema?, Garzanti, Milano 1999.
J. Kosiński, L’uccello dipinto, Minimum Fax, Roma 2015.
W.G. Sebald, Storia naturale della distruzione, Adelphi, Torino 2004.