Ormai andiamo a cercare anche lo sport su Netflix. E lo facciamo nonostante un pregiudizio, una vecchia storia non del tutto infondata. Si dice che certi sport non facciano per il cinema. Chiunque ami il calcio, il basket, il rugby, la pallavolo, la pallanuoto – tutti sport di squadra a ben vedere – e chiunque sia appassionato alla settima arte conosce la difficoltà di quest’ultima a confrontarsi con i primi senza adottare una chiave allegorica. Eppure, nel corso degli ultimi tempi, qualcosa sta forse cambiando. All’interno della tendenza biografica che caratterizza il cinema e la serialità televisiva è necessario annoverare alcune produzioni mirate a raccontare la vita personale, sportiva e mediatica di alcuni “fenomeni”: il rapporto con la squadra della quale hanno fatto parte nonché con il contesto geografico, sociale e culturale nel quale si sono inscritti e che a loro volta hanno contribuito a creare.

Basti citare a tal proposito Diego Maradona (2019) di Asif Kapadia, che indaga il rapporto simbiotico tra il calciatore e la sua città di adozione, fino a mostrare la degenerazione di questo stesso rapporto. A magnificare la qualità dei gesti sportivi del campione sudamericano, a costituire una forma d’accesso cinematografico all’archivio dei gol di Maradona, si trova l’idea di non mostrare mai il replay. Li vediamo una volta sola e ci basti. Li riscopriamo così nella loro unicità.

Ma parlare di sport significa in questo momento fare i conti con la serie tv più sorprendente dell’intero periodo di lockdown, capace di superare La casa di carta nella classifica di visualizzazioni: The Last Dance (2020) di Jason Hehir.

Lanciata su Netflix a metà aprile, The Last Dance si focalizza su quella che è considerata la più forte squadra agonistica di tutti i tempi: i Chicago Bulls, sei volte vincitori dell’NBA tra la stagione 1990-1991 e 1997-1998. Questo documentario a carattere illustrativo, tutt’altro che sperimentale, inizia dalla fine – quel 1997-1998 in cui i Chicago Bulls si imposero di vincere ancora, ben sapendo che il ciclo era chiuso – per tornare continuamente indietro nel tempo.

Fin dai primi episodi si raccontano le storie di due colonne della squadra: Scottie Pippen e Dennis Rodman. Riscopriamo il ruolo imprescindibile del primo e cerchiamo di comprendere gli effetti psicologici della sua vita professionale da “eterno secondo”. Di Rodman viene ricordata l’aggressività e la tenacia sul campo, ma anche la stravaganza, le fughe a Las Vegas nel bel mezzo degli allenamenti, la relazione con Madonna. A trovare un piccolo spazio sono anche agli altri invincibili della squadra come Steve Kerr e Bill Wennington ma, soprattutto, Tony Kukoč, l’“Airone di Spalato”, che arriva a Chicago nel 1993, mentre nei Balcani è in corso una sanguinosa guerra civile.

Ma al centro della scena c’è ovviamente lui. Sebbene il titolo non porti il suo nome, The Last Dance è una serie su Michael Jordan. Nelle interviste realizzate nel presente, è inquadrato in primo piano, piano medio o piano americano. È sempre seduto. Nel ricordare le vittorie del passato non perde un certo cinismo e non ha abbandonato l’atteggiamento di chi sa di essere il migliore. Molti spettatori e commentatori della serie sono rimasti sorpresi dalla sua “antipatia”, dalla sua arroganza, da alcune mancanze di rispetto nei confronti della squadra. Ma la verità è che la statura e la postura di Michael Jordan sono ormai quelle del monumento: una specie di Abraham Lincoln – magari un po’ più rilassato – della cultura mediatica americana. Alla staticità del suo corpo nel presente si contrappone il dinamismo del passato, l’immagine-logo di Jumpman.

Chiunque abbia visto The Last Dance sa bene che l’aspetto più affascinante è costituito dalle imprese sportive. Se guardiamo la serie è per tornare a stupirci delle capacità di palleggio, passaggio e tiro del più grande giocatore di tutti i tempi, è per l’irruenza della sua corsa e del suo salto, è per la dirompenza delle sue movenze su qualsiasi schema di blocco. Ma tutto ciò non può giustificare in sé l’idea di mettere in piedi una serie: di “best of” di Jordan e dei Bulls è pieno Youtube e posso tornare a guardarli come e quando voglio, gratis. Decidere di fare una serie a partire da una squadra, da un giocatore, da uno sport, significa dunque ambire a ricostruire il mondo che gli corrisponde e che essi stessi hanno contributo a costruire.

L’idea chiave di questa serie è dunque quella di mostrare come il gesto sportivo – tanto più se straordinario – non possa essere concepito soltanto in quanto tale. Esso è comunque da subito anche un gesto sociale che suscita repliche, innesca forme comportamentali. All’interno di una società profondamente mediatizzata come quella americana degli anni novanta, la qualità di un passo, la velocità di un palleggio e la forza di una penetrazione estendono l’idea di ciò che può fare un corpo, di ciò che è visibile e dicibile all’interno del discorso sociale.

Le schiacciate di Michael Jordan hanno la capacità di imporsi tanto come inimitabili quanto come imitabilissimi modelli. Dischiudono un’enorme potenzialità di pratiche da parte di giovani cestisti o di vecchi amatori di questo sport, ma spalancano anche le porte al mercato globale dell’immagine delle scarpe Nike firmate Jordan e della maglia numero 23. Si tratta di indumenti che – forse per la prima volta su scala globale – qualsiasi ragazzino ha indossato o ha ambito a indossare. E chissà che pure una stella del merchandise contemporaneo come #CR7, allora un pischello di Madeira, non abbia cercato di convincere i propri genitori o uno zio a procurargli la canottiera più ambita degli anni novanta.

L’aspetto decisivo di questa serie a carattere documentario, tutto sommato non così originale, è dunque quello di invitarci a riflettere sullo scarto e sulla coincidenza tra l’uomo Michael Jordan e la figura di Air Jordan. L’interesse suscitato dalla serie si basa proprio sull’esplorazione dello iato che passa tra il salto in aria del cestista e la sua consapevole iconizzazione mediatica. Al di là dei singoli match, è questa la partita più importante, una partita per l’egemonia che si gioca su scala nazionale e globale.

Tra gli intervistati spicca la figura di Barack Obama, nient’altro che un giovane squattrinato all’epoca dei fatti, come ammette candidamente ritornando con la memoria agli anni novanta: “Quando Jordan mise Chicago sulla mappa non potevo permettermi di andarlo a vedere dal vivo”. Cercando di proseguire il ragionamento sull’affermazione di Air Jordan come icona globale, l’impressione è che quella proposta da Obama sia più di una battuta e dica molto del successo di questa serie e del possibile rilancio del cinema e della serialità a tema sportivo.

L’ex Presidente americano afferma che il cestista è stato anche un cartografo e un conquistatore. Che solo grazie alle sue corse, ai suoi salti, grazie ai rimbalzi, una città tutt’altro che marginale degli Stati Uniti d’America ha comunque potuto trovare quella rappresentazione efficace di cui era ancora mancante. Con la sua frase, Obama ammette che negli USA, più che altrove, l’immaginario commerciale e quello nazionale tendono a fondersi, con il comune obiettivo di espandersi, di affermarsi su nuovi mercati. Michael Jordan vola in cielo e schiaccia a canestro mentre, intanto, Air Jordan è una bandiera che può essere sventolata in occasione delle Olimpiadi e un logo che può essere affisso su oggetti di varia natura.

A ben vedere, la questione geografica e politica era centrale anche nell’altro recente esempio citato in apertura di questo articolo. Diego Maradona è infatti un film sul calciatore e sulla città che fa da esigente fondale alla sua impresa. È la storia del talento naturale arrivato dall’Altro Mondo e approdato nella “città teatro”, scenario ideale per dare luogo alla più radicale provocazione estetica, cinesica e balistica nella storia del calcio. Del resto, come aveva già capito Emir Kusturica nel suo film dedicato all’argentino (Maradona di Kusturica, 2008), la facilità e l’irriverenza del gesto maradoniano – si pensi al “gol del secolo” e a quello di mano, entrambi contro l’Inghilterra nel mondiale del 1986 – sono carichi di implicazioni geopolitiche, ben più potenti delle esplicite rivendicazioni del calciatore: “Le Malvinas sono argentine!”.

Come emerge dalle principali riflessioni geofilosofiche sui media, il cinema è un’arte sovvertitrice e commerciale al contempo. Ha dimostrato un interesse precoce per personaggi che si muovono lungo un piano di immanenza e che talvolta vi scivolano come su un piano inclinato. Per questa via, ha esaltato la qualità dei gesti libertari di chi infrange e travalica un limite o una norma; ha esibito le posture di chi indugia in atteggiamenti da libertino, attardandosi negli spazi pubblici oltre i termini del lavorativo; ma ha anche foraggiato, con la propria potenza d’immaginazione e disseminazione, l’attitudine dei liberali che commerciano immagini e modi di comportamento.

In tal senso, Maradona e Michael Jordan incarnano due tendenze opposte, due modelli di mondo, due vie della deterritorializzazione. Se il clamore del gesto sportivo è per il primo l’espressione di un’irriverenza individuale, sociale e politica, l’atletismo del secondo è inseparabile dal piacere del successo e dalla volontà di essere cool. Se per Maradona la medialità del gesto atletico trae nutrimento dalla miseria e può irraggiarsi soltanto in un movimento popolare e populista, la medialità del corpo di Jordan è assolutamente apollinea ed è già concepita in funzione della sua codifica nei campi della televisione, della fotografia e del design.

Maradona vuole essere calciatore e ribelle, fino a misurarsi con la controversa figura di Masaniello per diventare successivamente un seguace e un amico personale di Fidel Castro e di Hugo Chávez. Michael Jordan ammette chiaramente di voler essere solo uno sportivo e non un attivista, da cui la celebre battuta ripresa in uno dei primi episodi della serie: “Anche i Repubblicani comprano le scarpe da ginnastica”. Pur nelle differenze tra i due personaggi, gli effetti suscitati dai loro gesti saranno tanto forti da retroagire su loro stessi, rischiando di travolgerli. Entrambi finiranno a parlare di sé al passato, seduti su un trono.

Dobbiamo dunque aspettarci una possibile rinascita del cinema e della serialità a tema sportivo in chiave geopolitica? Difficile dirlo. Quanto è certo è che un nuovo cinema o una nuova serialità a tema sportivo non potranno prescindere dal cogliere la singolarità del gesto che spacca la norma e conduce alla gloria una città o una nazione rimaste al margine, ma anche e soprattutto dall’indagine dei processi attraverso i quali quello stesso gesto viene sottratto dal flusso d’immanenza e sottoposto a codifica, indirizzando l’estetica sociale e innescando il circuito della moda.

Fare un film sui Chicago Bulls significa oggi anche questo: raccontare di Michael Jordan e del suo record di punti, ma anche e soprattutto cercare di capire in che modo e per quale motivo, tutti o quasi tutti sognassimo una paio di scarpe con l’aria ai talloni e una maglietta con il numero 23. Essere Air Jordan come forma di vita mediale.

https://www.youtube.com/watch?v=Peh9Yqf1GXc

Riferimenti bibliografici
R. De Gaetano, America-Italia: per una geografia del cinema, in Fata Morgana Web 2019. Un anno di visioni, a cura di A. Canadè e R. De Gaetano, Pellegrini, Cosenza 2019.
A. Rafele, Replay. Calcio, vetrine e choc, Luca Sossella, Roma 2018.

F. Zucconi, Quando ogni immagine è facile. Una geofilosofia politica dei media, tra Badiou e Deleuze, in Teorie dell’evento. Alain Badiou e il pensiero dello spettacolo, a cura di F. Ceraolo, Mimesis, Milano 2017. 

The Last Dance. Ideatore: Michael Tollin; interpreti: Michael Jordan, Scottie Pippen, Dennis Rodman, Steve Kerr, Bill Wennington, Phil Jackson, John Salley; produzione: NBA Entertainment, Mandalay Sports Media, Jump23, ESPN, Netflix; origine: USA; anno: 2020.

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