Un segnale acustico ad intermittenza variabile su uno schermo nero evoca una situazione d’emergenza. La prima immagine visibile sullo schermo rivela la fonte del suono, un macchinario medico collegato a un paziente. Nella sequenza d’apertura del film The Good Nurse, il rumore incalzante del dispositivo accompagna lo scatenarsi di una crisi, ma la messa in quadro di questa crisi aderisce a una retorica opposta alla forma generica del medical: laddove il medical accentra il collasso del corpo e ne fa il proprio punto di incandescenza, The Good Nurse lo tiene fuori campo. Oltre la porta d’ingresso che fa da cornice all’inquadratura, gli unici indizi visivi che accennano a ciò che sta succedendo dentro sono le gambe tremanti di un malato sul letto d’ospedale, mentre i medici corrono per entrare in stanza, scomparendo così dal campo visivo. Un lentissimo carrello in avanti, che dall’esterno della stanza muove a stringere sul profilo di una delle figure presenti, suggerisce un atteggiamento di distacco verso l’evento drammatico, distacco di cui si fa portatrice questa figura enigmatica: allontanandosi dal gruppo di soccorritori, un infermiere si posiziona in un angolo della stanza e osserva la scena e, nonostante la gravità della situazione, non sembra avere nessuna intenzione di agire.

È questa la lettura che Tobias Lindholm (ideatore della miniserie The Investigation e regista di alcuni episodi della serie Mindhunter) con il tramite dell’attore Eddie Redmayne, ha voluto dare del serial killer americano Charles Cullen. Le motivazioni che hanno portato l’infermiere del New Jersey a uccidere centinaia di pazienti nei primi anni duemila sono ancora oggi del tutto sconosciute; il personaggio, pertanto, non può essere conosciuto, almeno in un sistema narrativo classico, fondato sul rapporto tra motivazione e azione. Così la sceneggiatura di Krysty Wilson-Cairns (autrice dello script di 1917 di Sam Mendes) decide di accentrare la storia di un personaggio chiaro, conoscibile come Amy Loughren, la “brava infermiera” che dà titolo al film, disposta a mettere in gioco la propria vita per un fine più grande; a interpretarla è Jessica Chastain, con un viso stanco e il corpo spinto al limite delle proprie forze.

Fin dal prologo, il film ci presenta un intreccio di predestinazione architettato da forze oscure che abitano il campo sonoro e visivo. Il sound design è orientato a una combinazione integrata di suoni macchinici e anempatici, sia discorsivi (la partitura ambient di Biosphere) sia storici come il suono del monitor del ritmo cardiaco. Il lavoro del compositore, in particolare, si concentra sulla creazione di drones elettronici molto estesi e raggelanti, che procedono seguendo una struttura ricorsiva svincolata dalla sintassi del montaggio. Visivamente, l’opera attinge al bagaglio stilistico e tematico del nordic noir, con un’illuminazione fatta di luci basse e ombre pronunciate, e una palette cromatica che spazia tra il grigio e il blu, al servizio di una storia che supera la semplice ricostruzione della cronaca di un individuo deviante per indagare in profondità la dimensione sociale del sistema sanitario americano.

Le dinamiche di potere sono evidenziate dai sintagmi descrittivi che configurano lo spazio del centro medico: i pazienti, stesi sul letto, sono sempre collocati secondo una linea orizzontale che occupa la parte inferiore dell’inquadratura, mentre le gravi ferite e i dolori cronici li ammutoliscono, togliendo loro la forza di parlare. Gli infermieri del turno di notte, invece, occupano il centro dell’inquadratura in una posizione verticale mentre assistono i pazienti. In questa divisione geometrica delle aggregazioni, spicca il doppio ruolo di Amy come infermiera e paziente: la donna soffre infatti di una grave condizione cardiaca, e questo fatal flaw le consente di giacere alternativamente su entrambi gli assi.

Dalla prospettiva del personaggio di Amy, la malattia e l’ospedale si presentano come delle forze antagoniste che cercano di contrastarla, e si uniscono alla figura dell’infermiere Charles per coincidere in un unico nemico invisibile e silenzioso. In questo senso, Lindholm si allontana dal modello della serie Mindhunter ed evita ogni forma di profilazione psicologica del killer, creando invece un personaggio-sagoma, che si nasconde tra le ombre dei corridoi ospedalieri e la cui vita personale rimane avvolta nel mistero, non essendo sottoposta a nessun tipo di indagine.

Mentre la minaccia di Charles sembra abitare gli interstizi dell’inquadratura, i suoi margini e i suoi sfondi, il volto di Amy è l’unico ad essere ripreso in primo piano più volte durante il film. Il ripresentarsi del volto innesca un processo di astrazione che rende possibile andare oltre le contingenze geopolitiche della vicenda, per rappresentare uno scontro universale tra il bene e il male. Il conflitto è allestito dalla messa in quadro, con il bene che abita il centro dell’immagine, mentre il male è sfuggente e decentrato.

Per mettere fine a questa strategia di fuga, lo scioglimento del film impone una contrazione dello spazio di relazione: in una piccola stanza, Amy e Charles sono messi una davanti all’altro, in un ravvicinato rapporto di campo e controcampo che restituisce ad entrambi una collocazione al centro del quadro; è quindi il modo di inquadrare i personaggi ed avviare un processo di astrazione nel quale, finalmente, può prendere forma la verità.

The Good Nurse. Regia: Tobias Lindholm; sceneggiatura: Krysty Wilson-Cairns, Charles Graeber; musiche: Biosphere; interpreti: Jessica Chastain, Eddie Redmayne, Nnamdi Asomugha, Noah Emmerich; produzione: Darren Aronofsky, Scott Franklin, Michael Jackman; distribuzione: Netflix; origine: Stati Uniti d’America; durata: 121′; anno: 2022.

Tags     Netflix, nordic noir, volto
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