Se c’è un torto che si può fare ad un film, nell’analizzarlo, è quello di attribuirgli delle tesi, di voler ridurre la sua potenza espressiva ad una proposizione. Si tratta di un torto ancor più grave se si tenta questa operazione con un film come The Fabelmans. L’ultima opera di Spielberg, infatti, pur essendo il chiaro tentativo di rispondere a quella domanda che non smette mai di inseguire i registi – che cos’è il cinema? – pur essendo un vero e proprio manifesto della spettacolarità della settima arte, non cede mai alla tentazione di “dire” le proprie tesi. Le risposte sono nel racconto, nell’emozione che esso suscita, nella forma dell’immagine che talvolta allenta la presa dalla narrazione, senza mai però staccarsi da essa, ribadendo l’insuperabile maestria di Spielberg. Eppure se forse siamo abituati a questa densità espressiva del cinema spielberghiano, ciò che maggiormente sorprende di questo film sono proprio le risposte che il regista americano dà a quella domanda ontologica sul cinema, risposte che vanno ben oltre la cinefilia, il citazionismo o l’omaggio all’ormai centenaria storia dell’arte cinematografica. Risposte che riguardano l’oggi, che comprendono le sfide che il cinema deve affrontare nel suo continuo confronto con le tecnologie e i dispositivi, nella sua necessità di rinnovamento e cambiamento. Ed è per questo che, facendo torto al film stesso, vado ad enuclearle.

Al centro del racconto spielberghiano ancora una volta c’è l’infanzia, come denuncia anche la primissima sequenza in cui inizialmente la camera taglia, come in ET, gli adulti; l’infanzia intesa non solo come fase della vita, ma come esaltazione della libertà e della meraviglia che caratterizza l’esistenza umana. Il film, infatti, è il percorso di formazione del piccolo Sammy (ovvero Steven), attraverso il dispiegarsi della vita familiare, in cui però la densità delle relazioni diventerà materia da elaborare attraverso la potenza del racconto. Questa storia, però, ha una co-protagonista, Mitzi, la madre di Sammy, una moglie e una madre amorevole, gioiosa ed eccentrica, ma irrequieta, la cui vita sembra segnata dalla rinuncia alle sue passioni in favore delle responsabilità della vita adulta.

Madre e figlio, dunque, pur se colti in momenti completamente diversi della loro esistenza, sembrano compiere lo stesso percorso, un processo di individuazione inteso come piena consapevolezza di sé, dei propri desideri e delle proprie passioni, un percorso di scoperta e riconoscimento di se stessi e di salvaguardia della propria libertà, della propria capacità di non smettere mai di meravigliarsi, della propria infanzia. Il film dunque può essere letto come una sorta di dramma familiare, in cui la libertà dell’arte viene contrapposta alla disciplina dell’ingegnosità della tecnica: il padre di Sammy-Steven, Burt, è un ingegnere che lavora nella nascente industria informatica. Non si tratta di uno scontro, dell’assolutezza della lontananza o dell’inconciliabilità delle visioni, ma di sottili sfasature, leggere aritmie, impercettibili asincronie che lavorano in profondità fino a trasformare completamente le relazioni. E il cinema sarà l’àncora in questo sotterraneo, profondo e continuo, ma quasi impercettibile, maremoto familiare, nella continua reversibilità dei ruoli tra la madre e il figlio.

A partire dunque da questo impianto narrativo, già di per sé molto denso, Spielberg mette il cinema nel cinema, facendo coincidere il percorso di formazione esistenziale di Sammy con il suo apprendistato all’arte cinematografica, segnato da piccole rivelazioni e svolte esistenziali, in cui immagine e vita si incrociano. Ed ecco che ritorna la domanda: che cos’è il cinema? Potremmo dire che Spielberg risponde in cinque mosse (o cinque tesi).

Il film si apre con la prima volta di Sammy al cinema, in fila per entrare nella grande sala buia, per vedere Il più grande spettacolo del mondo (De Mille, 1952), mentre la madre e il padre cercano di convincerlo a vincere le sue paure, esaltando entrambi la magia del racconto per immagini. Le argomentazioni sono diverse: il padre punta sulla meraviglia della tecnica cinematografica, che sfrutta il sistema della persistenza retinica; mentre la madre su quella della narrazione, della capacità del cinema di creare storie “come sogni” che non dimenticherai mai. Il treno si scontra con l’automobile e poi con l’altro vagone, e il piccolo Sammy ne resta colpito, fino a desiderare di replicare lo scontro con il trenino ricevuto per Hanukkah. Ed ecco che la madre ha l’idea: filmare lo scontro con la cinepresa del padre, per poterlo vivere e rivivere all’infinito senza rovinare il trenino, per potersene appropriare.

La prima proiezione del film realizzato è pura magia: nel buio della cabina armadio, le mani del piccolo Sammy diventano lo schermo su cui proiettare la pellicola che lui stesso ha realizzato. Quello è il primo vero incontro di Sammy con il cinema, ed arriva anche la prima tesi di Spielberg: il cinema è come il gioco per i bambini, come il Fort-da secondo Freud, un’esperienza per trovare un senso all’esperienza stessa, perché il mondo diventi mondo, un modo per elaborare le nostre paure, per avere un aggancio sul reale, proprio grazie alla totale libertà dell’immaginazione che può nel film, come nel sogno, mettere in discussione qualsiasi principio di realtà. Ma è proprio quella sospensione che ci aggancia al reale, che ci permette di sostenerlo. 

Gli anni passano, la passione di Sammy per il cinema cresce e la famiglia si trasferisce in Arizona dove il padre ha trovato un lavoro più remunerativo, riuscendo a portare con sé, su insistenza della moglie, anche lo zio Bennie, il suo miglior amico, sempre presente nelle loro vite. Sammy è alle prese con la realizzazione del suo primo film western, usando come attori i suoi amici boyscout. Quando, però, nella sua sala personale, la cabina armadio della sua cameretta, Sammy proietta la pellicola, è disperato: l’assalto alla diligenza è irrimediabilmente “fake”. Così ha un’idea: forare la pellicola in corrispondenza degli spari, in modo che la luce che penetra dia l’illusione del colpo. La proiezione pubblica è un successo, l’illusione del cinema è salva. E noi possiamo ricavare una seconda tesi: il cinema è arte nel senso etimologico del termine, è una tecnica, che anche quando raggiunge le vette più sofisticate degli effetti speciali, resta all’origine un fare artigianale, frutto di piccole espedienti, idee originali e scoperte inaspettate. 

La carriera di Burt va a gonfie vele, ma Mitzi affronta un periodo di grande depressione a causa della morte della madre. Così Burt chiede a Sammy di realizzare un piccolo film della gita di famiglia in campeggio fatta poco tempo prima. Lavorando  alla moviola sulla pellicola girata durante quei giorni, Sammy però si accorge di qualcosa che era sempre stato sotto ai suoi occhi: nella profondità di campo di alcune immagini o nei gesti trattenuti della mamma e dello zio Bennie scorge un affetto e una complicità di cui non si era mai accorto prima. Così taglia tutti i pezzi di pellicola “rivelatori”, realizza il film ufficiale che gli aveva chiesto il padre ma, quando viene messo alle strette dalla madre sempre più esasperata dal suo atteggiamento scontroso, le consegna il film dell’amore segreto tra lei e Bennie. Questa volta Mitzi si ritrova da sola nel buio della cabina armadio per assistere al racconto del suo amore proibito. E noi possiamo ricavare una terza tesi: il cinema, in quanto arte, è verità, heideggerianamente intesa come disvelamento. Non quindi una mera riproduzione fedele del mondo, che riproporrebbe l’antico ma sempre attuale problema del rapporto tra immagine e realtà, ma messa in opera della verità, relazione fondativa tra rappresentazione e ciò che viene rappresentato, verità come costruzione e apertura di un nuovo orizzonte di possibilità. 

La famiglia si trasferisce in California, perché Burt viene assunto da IBM, è l’occasione di una vita. Ma Bennie non può seguirlo anche questa volta, Mitzi è disperata e alla fine annuncia la decisione di lasciare il marito. Sammy nel frattempo ha problemi con i nuovi compagni, che lo bullizzano perché ebreo. Ancora una volta sarà il cinema a fornirgli gli strumenti per abitare quel mondo. Gli viene dato il compito di realizzare il reportage della festa di fine anno e, grazie al montaggio ed altri espedienti, come il ralenti, Sammy creerà un vero e proprio racconto di finzione, tratteggiando caratteri specifici, trasformando il più violento dei suoi compagni in uno sfigato e l’altro in una sorta di adone greco, baciato dal sole. Ed ecco allora la quarta tesi, che consiste nel rovescio di quella precedente: il cinema è finzione e trasfigurazione, è illusione e messa in scena, è verosimiglianza prestata al racconto, è pura invenzione e creazione della realtà stessa. 

Un anno dopo Sammy è negli Studios della CBS di Los Angeles, dove è stato chiamato come assistente di produzione ed è lì che avviene l’incontro con l’idolo della sua adolescenza – il suo primo film western era ispirato a Luomo che uccise Liberty Valance – John Ford, sorprendentemente interpretato da David Lynch. E qui arriva la tesi nella tesi, nonché l’unico esplicito omaggio che Spielberg si concede alla grande storia della settima arte, che però ancora una volta viene ricondotta ad una sola regola, quella della linea dell’orizzonte. Il cinema è qualcosa di semplice, qualcosa che può interessare ed entusiasmare, ma che può essere anche «boring as shit». Ed ecco allora l’ultima risposta di Spielberg: il cinema è oltre la sua stessa storia, la sua più o meno rigida classificazione in momenti o epoche, sistemi produttivi o creativi, autori e generi, il cinema è oltre il suo pre e il suo post, perché vivo e pronto a rinnovarsi, e a rinnovare la meraviglia di chi non rinuncia a sognare.

The Fabelmans. Regia: Steven Spielberg; sceneggiatura: Steven Spielberg, Tony Kushner; fotografia: Janusz Kamiński; montaggio: Sarah Broshar, Michael Kahn; musiche: John Williams; interpreti: Michelle Williams, Seth Rogen, Paul Dano, Gabriel LaBelle, Julia Butters, David Lynch; produzione: Amblin Entertainment, Reliance Entertainment; distribuzione: 01 Distribution; origine: USA; durata: 151′; anno: 2022.

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