Quale rapporto intercorre tra l’arte e il pensiero di Gilles Deleuze alla luce della sua ontologia? Quale ruolo è possibile ritagliare per l’arte alla luce della pericolosa vicinanza tra pensiero dell’immanenza e Reale caotico? Contrariamente a quanto asserito da una certa vulgata, Deleuze non esce di casa senza ombrello. L’incontro col Reale traumatico, col fortunale del caos, non lo trova dunque impreparato, ma ciò non implica certo la rinuncia a praticare «un taglio nell’ombrello» per «far passare un po’ di caos libero e ventoso e inquadrare in una luce brusca una visione che appare attraverso la crepa» (Deleuze, Guattari 2002, p. 206). La visione di un brandello di caos, di un lampo di Reale, è il compito che Deleuze affida al pensiero, alla scienza, e, non da ultima, all’arte. Di qui il recente fiorire di studi sulla relazione tra categorie deleuziane (e guattariane), riflessioni estetiche e pratiche artistiche.
A tal proposito, l’Orpheus Institute di Gent ha lanciato nel 2007 un centro di ricerca internazionale focalizzato sulle arti, a partire da quelle musicali, e nel novembre 2015, a cura dell’istituto, si è tenuta, sempre in Gent, una conferenza su Deleuze e la ricerca artistica (DARE), dedicata al tema del precursore oscuro (reso dai traduttori italiani di Deleuze come “precursore buio” o “precursore triste”). Il termine “précurseur sombre” compare nell’opera deleuziana nella presentazione del ’67 di Il metodo della drammatizzazione, per poi essere sviluppato in Differenza e ripetizione (1968) e ripreso negli ultimi tre minuti delle interviste con Claire Parnet note come L’Abécédaire (1988-89). Il concetto ha inoltre un peso rilevante in Logica del senso (1969).
Per precursore oscuro, come ricorda Paulo de Assis nella sua sua introduzione a The Dark Precursor, bisogna intendere il “fondo senza fondo” su cui si stagliano le relazioni. Esso mette in connessione le differenze di intensità, funzionando come un trasduttore e un attivatore del campo di forze. L’intensità è quindi eminentemente differenza, il negativo della corrente che intercorre tra differenti intensità: «dal momento che l’intensità è differenza, bisogna che le differenze di intensità entrino in comunicazione. È necessaria una sorta di “differenziante” della differenza, che riporti il differente al differente» (Deleuze 2007, p. 120). Ancora, il precursore oscuro «è l’in-sé della differenza o il “differentemente differente”, cioè la differenza di secondo grado, la differenza da sé che riferisce il differente al differente per sé» (Deleuze 1997, pp. 155-156). Si tratta, in altri termini, dell’oggetto = x come virtuale della differenza-in-sé, la forza dell’Essere univoco che mette in relazione tutte le cose tra loro solo attraverso la relazione di quest’ultime con sé stesso, facendole risuonare come parte dell’Essere Uno, piuttosto che in virtù delle loro rispettive identità (Aldea 2011, p. 29).
Nel tentativo deleuziano di sostituire l’espressione alla rappresentazione, attraverso l’attualizzazione di un campo impersonale di forze e intensità pre-individuali, il precursore buio svolge il ruolo di operatore cruciale dei processi, da un lato, di differentiazione (différentiation) o determinazione del contenuto virtuale dell’Idea, dall’altro, di differenziazione (différenciation) o attualizzazione del virtuale in specie e parti distinte. Siamo dunque di fronte al fondo oscuro in cui albergano mondi incompossibili, a una sorta di big bang capace di sprigionare tutto il potenziale della differenza: il fuscum subnigrum che descrive il «colore nero del cielo contro cui si staglia un fulmine temporalesco» (de Assis, Giudici 2017, p. 11).
Attorno al concetto di precursore buio/oscuro/triste il volume The Dark Precursor. Deleuze and Artistic Research, a cura di Paulo de Assis e Paolo Giudici, raccoglie una serie di contributi molto disparata, afferente a diverse forme di espressione artistica e dal taglio di volta in volta estetico, performativo, psico-politico. Non potendo nell’ambito di questo scritto rendere conto di ciascun intervento, mi limiterò a tracciare un possibile percorso teorico attraverso un’analisi necessariamente cursoria di alcuni contributi, particolarmente significativi ad avviso di chi scrive per l’economia generale del volume. In particolare, mi soffermerò su degli articoli dedicati alla funzione della letteratura e del cinema nell’impianto deleuziano alla luce del concetto di precursore oscuro, inteso di volta in volta come oggetto = x fantasmatico, come iper-oggetto digitale o come immagine cinematica.
Di estremo interesse risulta innanzitutto il contributo di Catarina Pombo Nabais (volume 1, parte 2), Deleuze and Perversion, posto all’incrocio tra letteratura e psicoanalisi. Sulla scorta del deleuziano Il freddo e il crudele del 1967, la Pombo Nabais si interroga sull’utilità della letteratura e sulla funzione erotica del linguaggio. Esiste infatti una violenza imposta dal racconto erotico sul linguaggio/pensiero. Deleuze contesta, come noto, la nozione di sado-masochismo e ritiene che sadismo e masochismo siano comprensibili attraverso la letteratura, più che tramite la clinica. Sade e Masoch sono il nome di un problema antropologico e la letteratura è il luogo di creazione di nuove forme di vita. Se il sadismo è contrassegnato dalla negazione, il masochismo è caratterizzato dal diniego (pp. 264-265). Il diniego del mondo installa il fantasma, il feticcio, in una logica della sospensione e del differimento del piacere. L’oggetto-feticcio è il velo per la mancanza e la castrazione, lo strumento attraverso cui si nega l’inconsistenza dell’Altro femminile e si instaura la donna-fallo, idealizzata e immobilizzata. Al padre ordalico, al di sopra della Legge, del sadismo, il masochismo sostituisce la madre-Legge. La visione deleuziana richiama in qualche modo la versione lacaniana del masochismo e lo statuto privilegiato di quest’ultimo nella struttura perversa: il soggetto diviso si pone infatti in Lacan come oggetto inerte del godimento dell’Altro. Se nel sadismo la Legge è umiliata, nel masochismo è resa impossibile, intoccabile, sospesa. Il feticcio è la zona liminale, il velo delle calze tra l’aria e la pelle. Quel velo rappresenta la promessa sempre rimandata, l’allusione sospesa, la promessa del fantasma. Il fantasma femminile è allora per l’uomo la superficie velata, allusiva, feticistica, simbolica su cui si appoggia la letteratura. Seguendo Deleuze, una clinica sublimatoria può passare solo attraverso il rapporto tra l’arte e il suo doppio fantasmatico-letterario.
Nel volume 2, nella sezione Immagine, Anne Sauvagnargues in Deleuze and Guattari’s Digital Art Machines affronta un aspetto estremamente interessante della concezione deleuziano-guattariana del macchinico, ossia il suo rapporto con la produzione artistica. Partendo dall’assunto che tutta l’arte è oggi digitale, il nostro rapporto con gli “oggetti tecnici” arriva a delineare nuove forme di vita (p. 310). Di qui il passo è breve per giungere ad affermare che non c’è distinzione tra arte e tecnologia, se consideriamo il fattore senso-motorio della tecnologia e lo mettiamo in relazione con la nozione deleuziana di immagine a partire dal cinema. Immagine ovviamente intesa non come rappresentazione ma come esistenza. Si tratta per la Sauvagnargues di ripensare non solo le immagini visive, ma anche quelle sonore. Una simile realtà trasformata dal digitale instaura un particolare rapporto col corpo, venendo a costituire delle macchine artistiche digitali. Di qui la necessità di ripensare il rapporto tra soggettività, corpi, macchine, capitalismo e clinica tratteggiato da Deleuze e Guattari nella fase anedipica della loro produzione: il digitale avvicina infatti la soggettività postfordista all’autismo più che alla schizofrenia, al calcolante più che all’esperienza schizo.
Sempre nella sezione dedicata all’immagine, Zsuzsa Barros, in Godard and/with Deleuze: “C’est comme ça que le monde naît”, ricorre al cinema di Eisenstein, Mizoguchi, Renoir e, naturalmente, Godard per evidenziare come l’immagine non sia mai unica, mai sola, ma richiami altre immagini, creando una terza immagine. Il precursore oscuro si rivela nella sua natura cinematica, proprio attraverso la messa in comunicazione di una immagine con altre immagini in quanto tali. «Tutto ciò avviene non per premeditazione o calcolo, ma per caso» (p. 332). La sperimentazione del cinema moderno si sposa con l’intento deleuziano di esplorare l’inconscio del pensiero, scompaginando la causalità lineare attraverso una temporalità svincolata da ogni presente empirico e affidata alla coesistenza di istanti-immagini messi in comunicazione in un unico spazio virtuale (Deleuze 1989).
Sempre nell’ambito della visual culture è il saggio di Verina Gfader, Hollywood Flatlands: Taking a Line for a Walk. Gfader esplora il concetto di linea in movimento soprattutto attraverso il cinema di animazione e lo shōnen manga. Le linee cinetiche, a partire dal Disney visto da Eisenstein, passando per le opere di animazione di Yuichi Yokoyama, e approdando al manga post-bomba di Keiji Nakazawa Hadashi no Gen, sono espressioni della plasticità e di un certo “fattore plasmatico”. La soggettività neoliberale con la sua capacità di riadattamento neuronale (neuroplasticità) si riflette nell’estetica di una cultura visuale plastica e malleabile (p. 372). Il punto è immaginare un campo di battaglia per le immagini che sfidi il neo-liberismo sul suo stesso terreno; in questo senso, la Gfader fa riferimento al video animato Liquidity Inc. di Hito Steyerl.
È infine il decano degli studi deleuziani, Ian Buchanan, a inaugurare la sezione più squisitamente politica del volume, con il suo The Fear of Boredom. Il dramma della contemporaneità postmoderna, in bilico tra schizofrenia e depressione, tra compulsione e anedonia, è quello dell’averci precluso la noia. La noia viene infatti considerata da Buchanan una difesa dagli stimoli e garanzia di senso critico (p. 474). L’information overload e la mancanza di tempi vuoti nella quotidianità iperconnessa mira a distrarre la nostra capacità attentiva per arrivare “sotto pelle” e giungere a “programmare” i nostri comportamenti inconsapevoli. La noia degli spazi aeroportuali può essere un esempio di spazio di riappropriazione di un’attitudine critica, invertendo la catena perversa che ci ha condotti dalla socialità alla serialità e da quest’ultima all’atomismo.
Erin Manning, nel suo In the Act: The Shape of Precarity, analizza invece il rapporto tra L’anti-Edipo e la clinica della depressione, a partire dalla personalità di Guattari e dalla lettura di Bifo (Franco Berardi) del rapporto tra attivismo e stati depressivi (p. 489). Se in qualche modo Bifo legge nella depressione di Guattari il “grande rimosso” de L’anti-Edipo e una strategia di sottrazione dalla maniacalità capitalistica, Manning contesta la liquidazione da parte di Bifo dell’attivismo e il nesso individuato tra quest’ultimo e la depressione. A fallire non è qualsiasi mobilitazione, ma una mobilitazione senza comunità (a tal proposito Manning cita esperienze di terapia della depressione in culture “altre”). Ancora, anche secondo Manning, il contraltare della schizofrenia anedipica non può essere la depressione, o l’altalena ciclotimica tra mania e melancolia, ma, in coerenza con le forme di vita postmoderne, la neurodiversità dello spettro autistico, visto come campo di sperimentazione percettiva e linguistica.
Anche da una veloce carrellata sulle tematiche del volume, è possibile realizzare come le categorie deleuziane, sia antecedenti sia successive alla svolta antiedipica, si incrocino con le questioni più cogenti dell’estetica contemporanea, favorendo tra l’altro l’inevitabile intreccio tra dimensioni artistica, politica e scientifica.
Riferimenti bibliografici
Paulo de Assis, Paolo Giudici, The Dark Precursor. Deleuze and Artistic Research, Leuven University Press, Leuven 2017.
G. Deleuze, Il freddo e il crudele [1967], SE, Milano 2007.
G. Deleuze, Differenza e ripetizione [1968], Raffaello Cortina, Milano 1997.
G. Deleuze, Logica del senso [1969], Feltrinelli, Milano 2009.
G. Deleuze, L’isola deserta e altri scritti. Testi e interviste 1953-1974, Einaudi, Torino 2007.
G. Deleuze, Cinema 2. L’immagine-tempo [1985], Ubulibri, Milano 1989.
G. Deleuze, F. Guattari, Che cos’è la filosofia? [1991], Einaudi, Torino 2002.
E. Aldea, Magical Realism and Deleuze: The Indiscernibility of Difference in Postcolonial Literature, Continuum, London 2011.