Nell’alta cucina, come nella vita, più delle capacità conta l’apertura mentale: la disponibilità, la scioltezza, la fiducia venata di stupore ad andare verso il mondo, verso se stessi e verso le altre persone, nella consapevolezza che solo dall’incontro con il fuori può originarsi l’occasione della scoperta e che, dall’esperienza dell’ignoto, deriva un imprescindibile e sempre rivoluzionario riassestamento dell’Io. L’idea dell’apertura come possibilità e affermazione del nuovo aveva già attraversato i primi otto episodi di The Bear e, davanti a un prodotto seriale denso – che nella compattezza e nei tempi giusti trovava la ragione del proprio valore e di un immediato successo – il dubbio che si fosse detto tutto ciò che c’era da dire ha attecchito, sin da subito, sull’ipotesi di un secondo capitolo egualmente riuscito. Eppure, il gioiello in serie di Christopher Storer torna con una stagione mozzafiato, in grado di troncare gli indugi e di non smentire la solidità strutturale della precedente rafforzandone, piuttosto, forma e contenuti.

La brigata presieduta dal noto chef Carmy Berzatto (Jeremy Allen White) riesce infatti facilmente a riguadagnarsi l’attenzione e il coinvolgimento empatico degli spettatori e, rifuggendo il rischio di un prolungamento degli eventi insensato, ridondante, fondato su logiche di mercato in disaccordo (accade spesso) con i principi essenziali e “vincenti” della narrazione, i dieci episodi inediti si configurano come le fasi di un processo che aggiunge cuore e qualità alla storia. Nello schiudersi dei personaggi e nell’approfondimento del loro vissuto, nella ricerca e nell’attestazione dell’autenticità che li rende umani in carne ed ossa, lo sviluppo dei temi si compie in modo credibile e lineare. Il racconto si amplia, si libera in spazi alternativi all’ambiente consueto, in luoghi non ancora tracciati risultando, di conseguenza, potenziato. Se prima l’obiettivo del protagonista era quello di salvare la malmessa paninoteca ereditata dal fratello pagando i debiti da lui contratti e ripristinando una gerarchia interna, ora è invece quello di trasformarla nel giro di poche settimane in uno dei migliori e più raffinati ristoranti di Chicago, ricordandosi di respirare, abbattendo i muri, uscendo all’esterno per apprendere la disciplina e osare all’insegna della pura ispirazione.

La seconda stagione di The Bear ci mostra un Carmy lucido e riflessivo, determinato a non perdere il controllo, che ammette il caos purché sia ponderato. Con il supporto dei suoi amici e collaboratori, in particolar modo della socia Sydney (Ayo Edebiri) e della sorella Natalie (Abby Elliott) nominata Project Manager, lo chef organizza le attività quotidiane nel dettaglio, segue una tabella di marcia precisa e si dà un termine temporale per il grande opening, entro il quale il locale e tutti coloro che vi lavorano dovranno essere adeguatamente pronti. Per questo motivo, tra soffitti che crollano e test anti-incendio, mentre si discute sull’acquisto delle padelle e si susseguono continue prove di scienza culinaria per un menù da aspiranti stellati, progressivamente si abbandonano i vecchi, fallimentari e tossici piani d’azione. Il progetto che va realizzandosi si rende possibile grazie all’elasticità cui il gruppo pian piano si adatta, ad un atteggiamento collettivo di distensione che si conforma ad una volontà “superiore”, quella del defunto Mikey, del quale Carmy desidera ad ogni costo non disattendere le aspettative. Il «lasciati andare» risolutivo del processo di elaborazione del lutto che, nella parte conosciuta della storia, rappresentava un ostacolo all’espressione del suo talento, declina naturalmente nel superamento di un confine; nell’atto concreto e necessario di guardare e spingersi oltre, avanti, di aprirsi e partecipare al gioco della vita.

La suddivisione episodica del racconto si sposa bene, oltre che con il proposito di cadenzare i lavori di ristrutturazione del locale, con quello di percorrere in successione diverse linee narrative e di porre, di volta in volta, il focus sul modo tutto personale con cui ciascun personaggio si rapporta al trauma dell’apertura. La “Carmy-centrica” The Bear non resta ancorata al corpo, allo sguardo e alle nevrosi del protagonista, ma decide di delineare intimamente anche gli altri perché «un’aggiustatina non bastava più». Ai membri del gruppo è affidato il compito di sfondare le pareti marce di muffa, ricreare lo spazio, trovare il proprio scopo altrove.

Per strada, in una lontana città d’Europa, nelle cucine dei maestri o con indosso la divisa di una prestigiosa scuola, ognuno affronta coraggiosamente la paura, la accetta ed evolve nella persona che credeva non meritare di essere. Sydney girovaga per le vie di Chicago gustando sapori estranei che la inebriano e ispirano originali ricette; Marcus (Lionel Boyce) parte per Copenaghen dove si specializza nell’ideazione del dessert; Tina (Liza Colón-Zaias) segue un corso di livello e, maneggiando il coltello che Carmy le regala, impara l’arte del taglio perfetto; Richie (Ebon Moss-Bachrach) sfoggia doti manageriali e relazionali che non sapeva di possedere, e diventa un professionista del coordinamento del servizio e del personale di sala. I personaggi agiscono dunque fuori dal contesto che li protegge, che li assorbe e che sino a quel punto aveva ostruito il possibile manifestarsi di risorse e opportunità. Contagiati dalla resilienza del loro mentore si lasciano andare, adesso fisicamente, al di là della confortevole prigione del ristorante.

Nella prima stagione, l’urgenza di sanare il disastro finanziario per non dover dichiarare fallita l’attività di famiglia non escludeva nessuno e conteneva i tanti più nascosti e silenti desideri dei singoli. Ad ogni modo, il dramma interiore di Carmy oscurava e relegava ai margini ogni secondaria richiesta di riscatto, e tutto era narrativamente e tecnicamente votato alla restituzione di un disagio che stava giorno dopo giorno divorandolo; di una sofferenza abbagliante che, a livello espressivo, era opportuno si traducesse nella restrizione eccessiva del campo. Il senso d’oppressione provato dal protagonista si tramandava allo spettatore attraverso l’esaltazione dell’angustia (e, come qui raccontato, attraverso le impennate del ritmo, il montaggio febbricitante, il rumore ostinato).

Nel corso della seconda, seppur sotto il profilo della continuità il disegno iniziale non venga tradito, accade qualcosa di diverso. Storer e la co-writer Joanna Calo firmano una sceneggiatura che sì mantiene il caratteristico tono dolceamaro dei dialoghi (veri e seducenti), dei silenzi (pieni e mai inopportuni), dei fatti (straordinariamente ordinari, specchio di una normalità esistenziale che intimorisce e suscita sempre l’incertezza di sprecare il tempo) ma che, soffermandosi su aspetti inesplorati della trama, esige una riconsiderazione delle modalità di rappresentazione. La chiusura claustrofobica è inadatta a raccontare i risvolti di un intreccio ormai animato non da impulsi frustrati o non del tutto compresi, ma da effettive e razionali azioni di rivalsa: azioni che, differentemente da quanto era accaduto in precedenza, non si circoscrivono all’area della cucina e sono, al contrario, sostenute da una pulsione cosciente e più tenace all’apertura.

Carmy ha ancora qualche saltuaria ricaduta nel vortice dell’ansia; dà il numero sbagliato a Claire (Molly Gordon) perché lei gli piace e «lui ha perso tante cose», prende decisioni senza consultare Sydney quando teme un parere contrastante, rivive l’incubo di un Natale da brivido in cui si palesa la disfunzionalità dei Berzatto, suda freddo al pensiero della sconfitta. Ciò nonostante, sviluppa una concezione più ariosa del tempo e, nei momenti in cui lo avverte, soddisfa il bisogno di una pausa (o di uno stimolo) muovendosi, aprendo in uscita le porte del ristorante, frequentando altri spazi (ad esempio, per la prima volta nella sua vita va ad una festa), ed invita i comprimari a fare lo stesso. Il nuovo comportamento dello chef influenza lo spirito altrui, e segna l’esordio di una regia meno schizzata, non volta esclusivamente a soffocare, che include il mondo. La macchina da presa passa da dentro a fuori, viaggia da un continente all’altro; ammette l’ingresso in scena di chi, estraneo al circuito della ristorazione, non fa parte della squadra, ma riveste una certa particolare importanza nella vicenda privata dei vari suoi componenti.

Claire torna dal passato di Carmy per insegnargli l’amore e rivelargli che «nessuno tiene il conto delle batoste». Il padre apprensivo di Sydney interviene a metterla in guardia dalle delusioni e facilita la comprensione della sua irritabilità. La madre allettata di Marcus, con il suo corpo immobile, motiva la devozione che il ragazzo dimostra al lavoro. Chef Terry (Olivia Colman) appare negli ultimi minuti di “Forchette” (2×7) per confermare a Richie la verità di essere «bravo con le persone». E ancora, Donna Berzatto (Jamie Lee Curtis) che sia nei ricordi natalizi, sia quando la sera dell’inaugurazione del ristorante indietreggia sul marciapiede senza farsi vedere dai figli, dà una voce e un volto all’ombra del materno insano che li affligge; alla tristezza patologica, rabbiosa, che hanno ereditato.

The Bear rimpasta i suoi originari elementi, senza rinnegare i principi cardine su cui si fondava. La serie ribadisce la visione disincantata e realistica dell’esistenza come caos e arena di esperienze spiacevoli, non offre una soluzione alla paura e continua ad ammettere sinceramente tanto la possibilità del dolore, quanto quella dell’insuccesso. Tuttavia, svincolata dal vecchio codice spazio-temporale atto a trattenerla e a generare un eccesso di tensione, la storia fluisce raggiungendo livelli di intensità altissimi. Una nuova frase si ascrive a mantra della seconda stagione e, lungi dal contraddire la formula lasciata per iscritto da Mikey, ne consolida la profondità semantica: «Every second counts» racchiude il pensiero sotteso al progetto autoriale di dare un seguito alla narrazione. «Ogni secondo conta» non ha nulla a che vedere con l’affrettarsi, con l’ossessione, anzi implica la capacità di restare calmi, la serenità di lasciarsi andare godendo del valore di un momento che non si ripete, del tempo speso bene. Spendere bene il tempo, anche quando sembra poco, è forse allora questo lo scopo. Il segreto di una vita che ha sapore e che perciò alla fine vince. Al termine del servizio il ristorante si svuota, le sorti della “Carmata” sono incerte, ma The Bear ripiega sui titoli di coda. Spetta a noi trovare la risposta, di secondo in secondo, vivendo.

The Bear. Ideatore: Christopher Storer; interpreti: Jeremy Allen White, Ebon Moss-Bachrach, Ayo Edebiri, Lionel Boyce, Liza Colón-Zayas, Abby Elliott, Joel McHale; produzione: FX Productions; distribuzione: FX on Hulu, Star (Disney+); origine: USA; anno: 2023.

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