Tecnosofia è il nome che Maurizio Ferraris e Guido Saracco danno ad una possibile alleanza tra filosofia e tecnologia. Con quale obiettivo? I due autori lo esplicitano chiaramente nelle ultime pagine del testo:

Nietzsche scrisse una volta al suo amico Overback che i filologi sono degli animali speranzosi. Indubbiamente è così, e lo si può dire anche del più disperato dei filosofi, così come degli umanisti in generale. Ma nessun animale è più speranzoso del tecnologo, e ha eccellenti ragioni per esserlo. In contraccambio agli innumerevoli doni di Prometeo, quell’irriducibile Epimeteo che è l’umanista, può offrire solo un dono, ossia un buon argomento contro la paura (Ferraris, Saracco 2023, p. 163).

Il movimento teorico della coppia tecnologo-umanista si muove intorno al tema centrale del discorso pubblico contemporaneo, ovvero la paura, e in particolar modo la paura della tecnologia. Quotidianamente ci sono piccole o grandi innovazioni nell’ambito della tecnologia digitale e delle sue applicazioni che sembrano non far altro che alimentare il timore che la fine della specie umana sia sempre più vicina. Lo sviluppo tecnologico, infatti, mette continuamente alla prova il nostro senso comune, cioè un sentimento largamente condiviso rispetto a ciò che si può considerare “normale” o “naturale” nel dispiegamento delle nostre esistenze. Facciamo un esempio: l’ipotesi che si possa produrre un film con protagonista James Dean realizzato grazie all’AI è quanto meno disorientante, perché non rientra nelle forme di esperienza che noi già conosciamo e solleva tutta una serie di questioni, etiche, politiche e finanche sindacali – si pensi allo sciopero degli attori hollywoodiani che riguarda anche questo tema – che faticano a trovare un’univoca soluzione.

La tecnologia, d’altronde, rappresenta e ingloba una serie di questioni, e quindi di paure, che sempre più intensamente agiscono su di noi come individui e come collettività: il cambiamento climatico, le incertezze sociali (i problemi demografici e le sue conseguenze, la trasformazione del lavoro), la definizione di nuovi blocchi di potere tra Oriente e Occidente e, non da ultimo, il conflitto tra democrazia e totalitarismi. In tutte queste sfere dell’esperienza umana, segnate da epocali cambiamenti e conseguenti incertezze, la tecnologia ha un ruolo determinante.

Ora, come scrivono i due autori, il tecnologo, moderno Prometeo, può combattere la paura, e quindi sfoderare un certo ottimismo verso il futuro grazie alle azioni concrete che ha messo in campo, cioè innanzitutto in quanto agente di quel progresso che, sebbene produca criticità, è allo stesso tempo processo creativo e riaffermativo della volontà di potenza dell’essere umano. Anche qui la cronaca ci è d’aiuto: è di pochi giorni la notizia di una donna colpita da ictus che riesce a comunicare tramite il proprio avatar, grazie ad un’interfaccia cervello-computer. Viceversa all’Epimeteo 2.0 spetta l’arduo compito di offrire strumenti riflessivi e critici per affrontare proprio questi cambiamenti. E qui Ferraris coglie un punto molto importante, che ha a che fare anche con molti dibattiti recenti – si pensi alle posizioni di Agamben sulla pandemia – cioè quello del ruolo della filosofia nella società contemporanea, rivendicando, in polemica con quel pensiero debole all’interno del quale egli stesso si è formato, l’ottimo stato di salute dalla filosofia («Non c’è nulla di più sbagliato che concludere che la filosofia è al capolinea, come si leggeva quando, con una idea che retrospettivamente mi sembra irresponsabile sebbene poi abbia determinato la felicità della mia vita, mezzo secolo fa quando mi sono iscritto a filosofia», ivi, p. 6.). Riesce Ferraris in questa impresa? Quella, cioè, di offrire un buon argomento contro la paura del progresso e, contestualmente, ribadire l’efficacia e, in ultima istanza, la centralità della filosofia nella vita contemporanea?

Il ping-pong tra il tecnologo e l’umanista – come loro stessi definiscono questo possibile intreccio di punti di vista – produce una sorta di grattacielo teorico. La metafora è proprio degli autori, esemplificata anche da un’illustrazione all’inizio del testo. Erigendo un piano dopo l’altro – partendo dalla Natura, piano terra, fino ad arrivare al concetto di Webfare (ovvero la proposta di riappropriazione economica dei dati e ridistribuzione della ricchezza da essa generati che da tempo Ferraris promuove), i due autori ripercorrono e interpretano le trasformazioni prodotte dall’incontro tra le forme di capitalizzazione, «in quanto creazione di una struttura storica e sociale» (ivi, p. 21) e la tecnologia. I diversi piani, dunque, corrispondono alle diverse sfere di capitale. Qui la posizione è chiara e inequivocabile: la decrescita non è la soluzione all’incertezza del futuro e solo l’elaborazione di nuove forme di capitalizzazione, attraverso lo sviluppo di soluzioni tecnologiche innovative, come il webfare, può favorire un progresso più giusto e sostenibile. In altre parole: non c’è alternativa al progresso.

Ora l’argomentazione su cui si basa la costruzione dell’intero grattacielo, ovvero le sue fondamenta teoriche, rappresenta una base solida, perché è la premessa necessaria a qualsiasi discorso sulla tecnica: l’essere umano è umano proprio in virtù della tecnica. Scrive Ferraris, in un passaggio decisivo:

L’animale umano ha, come carattere definitorio, l’uso della protesi tecnica, nella fattispecie il bastone perché, diversamente dalle grandi scimmie, ha compiuto una scelta definitiva per la stazione eretta, e non può tornare a camminare a quattro zampe. Dalla stazione eretta deriveranno il fatto che i bambini vengano partoriti in uno stato di sviluppo prematuro (altrimenti, sarebbero troppo grossi per una madre bipede), l’uso del linguaggio (fare conferenze a quattro zampe non è comodo, soprattutto se, essendo le zampe destinate alla deambulazione, bisogna adoperare la bocca per la prensione di oggetti invece che per l’espressione di concetti), il privilegio della mano come intermediazione universale con un numero sempre crescente di strumenti. Detto in breve, è la tecnologia, cioè qualcosa che sta fuori di noi e che viene fabbricata per scaricare all’esterno un capitale di fatti e di atti che all’interno sarebbe troppo impegnativo di tempo e di energie, oltre che limitato dalla finitezza della vita individuale, che ha fatto sì che potessero sorgere la società, i riti, i miti, e la longevità, la cultura e il sistema pensionistico senza cui l’idea stessa di scrivere, poniamo, una storia dei mali che la tecnica ha inflitto alla umanità sarebbe inconcepibile (ivi, pp. 32-33).

Ferraris riprende questa argomentazione in più parti ed essa costituisce sicuramente un necessario presupposto per combattere la paura della tecnologia. A tutte quelle posizioni – diffuse anche tra i filosofi, si pensi ad esempio al successo di un autore come Byung-chul Han – che tendono ad individuare nella tecnologia ciò che corrompe una presunta purezza dell’animale umano, una sua naturalità, Ferraris oppone, anche con una certa dose di sarcasmo, l’incontestabile evidenza che tale originaria essenza non tecnicamente corrotta dell’essere umano non è reale. Non esiste essere umano senza la tecnica, per cui rinnegare o demonizzare la tecnica significa rinnegare o demonizzare ciò che è proprio dell’essere umano.

Ora la domanda da porsi è: tale argomentazione, pur nella sua assoluta condivisibilità e necessità, è anche sufficiente ad offrire strumenti per combattere la paura? Su questo, ovvero nel processo di edificazione, il grattacielo appare meno solido.

La conseguenza che trae Ferraris da questa necessaria ma non sufficiente premessa è che la tecnica è invenzione dell’essere umano per l’essere umano e che quindi qualsiasi timore sugli imprevedibili esiti della tecnologia e sul pericolo di una presa di potere da parte delle macchine è una «vana fantasia» (ivi, p. 112). Ferraris rivendica un radicale, e direi anacronistico, antropocentrismo – anche rispetto al tema della “biosfera”, su cui non mi soffermo – ma nel fare ciò sembra perdere di vista proprio lo specifico tecnologico del nostro tempo da cui principalmente deriva la paura che la filosofia dovrebbe combattere. Quando sostiene che possiamo attribuire intelligenza ad una macchina solo a patto di essere «disposti a considerare intelligente una matita, un pezzo di carta, un abaco, un metro, un regolo calcolatore» (ivi, p. 100), pur riconoscendo il carattere provocatorio dell’affermazione, non possiamo però non rilevare che, mentre in nessun caso per usare efficacemente un abaco devo presupporre la sua intelligenza, così non è quando invece uso Alexa, che è progettata proprio perché io mi rivolga a lei come se stessi parlando con una persona dotata di un’intelligenza (cfr. Natale 2022), la quale diventa sempre più raffinata proprio a partire dalle mie interazioni, alimentando un processo di ottimizzazione della relazione che non conviene interrompere.

O ancora, quando si sofferma sul concetto di onlife, in aperta polemica con Floridi, sostenendo che non c’è nulla di specifico del digitale nell’ibridazione tra la sfera online e quella offline – perché semmai lo specifico del web, per il filosofo della documentalità, è il potenziamento della capacità di registrazione dei nostri comportamenti – e che si può parlare di onlife solo a patto di considerare tale «anche la vita che, qualche decennio fa, gli adolescenti passavano al telefono» (Ferraris, Saracco 2023, p. 42), sembra quasi adottare una prospettiva riduzionistica, per cui data l’ibridazione tecnica è tutto sommato irrilevante ciò che essa specificamente produce. I diversi modi in cui l’essere umano evolve grazie alla tecnica determinano forme di vita, equilibri ambientali (in senso deweyano) e riconfigurazioni della nostra sensibilità che sono radicalmente diversi e che generano paure diverse. E tra l’altro se è vero, come dice Ferraris, che il corpo è l’elemento che segna l’irriducibile differenza tra l’essere umano e la macchina – «mai come nell’età dell’intelligenza artificiale si è compreso quanto l’intelligenza naturale sia imprescindibile per il conferimento di scopi e significati. E questo non perché l’intelligenza naturale possegga uno spirito che trascende il calcolo delle macchine, ma perché è dotata di un corpo, di un organismo con le sue urgenze e la sua mortalità» (ivi, p. 70) – è altrettanto vero che sono proprio gli specifici equilibri tra corpi (intesi come sistema mente-corpo) e tecnologie, che, modificandosi al variare della tecnica, determinano mondi nuovi. In fondo la ruota e l’aereo sono la stessa cosa, eppure hanno prodotto mondi radicalmente diversi.

Ciò che dunque emerge è che forse non basta un’alleanza tra la filosofia e la tecnica ma che si rende sempre più necessaria un’alleanza tra le scienze umane – la sociologia, la psicologia, la teoria delle immagini – ovvero tra quelle prospettive teoriche che riflettono sulle specifiche forme di vita che emergono dagli sviluppi tecnologici, che sono certamente riconducibili ad un percorso di inarrestabile evoluzione della specie umana, ma ciononostante producono mondi diversi. In fondo è proprio a questo a farci paura.

Riferimenti bibliografici
S. Natale, Macchine ingannevoli. Comunicazione, tecnologia, intelligenza artificiale, Einaudi, Torino 2022.

Maurizio Ferraris, Guido Saracco, Tecnosofia. Tecnologia e umanesimo per una scienza nuova, Laterza, Roma-Bari 2023.

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