La lingua salvata. Quattordici donne entrano, una dopo l’altra, nella palestra di un ginnasio dove i pochi spettatori ammessi a piccoli gruppi stanno ascoltando il boato impressionante di Perseus, il più grande buco nero della Via Lattea, a 250 milioni di anni luce dalla terra, registrato dalla Nasa grazie all’elaborazione tecnologica di impulsi luminosi. Il suono più antico e potente della natura manipolato e tradotto in un sistema di segni comprensibile agli uomini. Il “grido” di una natura lacerata, violata. È l’antefatto di Giudizio Possibilità Essere. Esercizi di ginnastica su “La morte di Empedocle” di Friedrich Hölderlin da svolgere in una palestra di Romeo Castellucci, sorta di estratto dello spettacolo Four Seasons Restaurant dello stesso Castellucci di qualche anno fa, trasposto dal palcoscenico ai locali di una palestra scolastica e ripreso in questa edizione del Festival dei Due Mondi di Spoleto.

Un’altra comunità puritana statunitense, tutta al femminile, come quella di Democracy in America, specchio moderno deformato della democrazia ateniese, che si appresta a mettere in scena La morte di Empedocle, tragedia in versi incompiuta scritta da Hölderlin nel 1796. Il mito di Empedocle – il filosofo agrigentino che, dopo aver provato invano a redimere la comunità propugnando l’unione assoluta tra uomo e natura, si sacrifica gettandosi nel cratere dell’Etna –, come in molte delle produzioni di Castellucci recenti, è lo spunto per un’interrogazione sul senso del tragico e del teatro nella contemporaneità, sulla scena come luogo in cui si semplifica e si riconsegna il caos del mondo. Il teatro come spazio iconoclasta, vero e proprio luogo dello sguardo in cui l’uomo dà forma al proprio (dis)ordine secolare posto di fronte al silenzio di Dio, il destino tragico del dominio tecnico, in un rapporto istitutivo delle società occidentali moderne, già tracciato nella Tragedia Endogonidia e poi nei recenti attraversamenti dell’utopia democratica americana. In questo caso, addirittura, il teatro come posto “sbagliato”, scrive Castellucci nel breve testo che accompagna la rappresentazione, come spazio in cui si consuma un esercizio ginnico, un agonismo pedagogico, una disciplina della vita autentica.

Ci muoviamo all’interno di un solco già arato dunque, con maggior o minor successo, sin dai tempi dei lavori con la Socìetas Raffaello Sanzio. Questa volta però, prima che tutto ciò abbia inizio, Castellucci opera una scelta decisiva che segna la riuscita dell’intero spettacolo. L’entrata di ogni singolo personaggio è sottolineata in modo violentissimo, radicale, attraverso un gesto ritualmente ripetuto quattordici volte: ognuna delle donne della compagnia prende in mano un paio di forbici e si taglia la lingua, prima che un cane attraversi la scena e mangi i residui amputati sparsi ovunque sul pavimento. Un gesto feroce, abissale, che richiama la minaccia disumana che la domestica fa al piccolo Elias nell’incipit fulminante de La lingua salvata di Canetti: il tentativo di “salvare” la lingua sacrificando la Zunge, mutilando il proprio corpo, liberandolo dal dispositivo organico preposto all’eloquio, per accedere all’autenticità della comunicazione verbale, a un’esperienza che nasca dal silenzio, dalla sua sospensione quale atto genitivo dell’azione poetica. Il tentativo cioè di sostituire la Sprache con il Gespräch, il linguaggio – veicolo di oggettivazione coscienziale, di sottomissione del mondo da parte del soggetto – con il colloquio – l’incontro autentico del soggetto con il mondo, con l’altro da sé.

Sottrare la lingua a qualsiasi funzione strumentale, a qualsiasi forza nominativa che la inchiodi a strumento di appropriazione tecnica del reale; sottrarla dunque al Giudizio, alla potenza nominativa del discorso, per consegnarla alla Possibilità dell’Essere – come recita la triade del titolo –, alla sua unica possibile verità che risiede nell’autenticità del verso poetico: questo il senso dell’antefatto che accoglie lo spettatore appena entrato nella palestra, mentre si siede per terra su dei cuscini che sembrano stati appena utilizzati per un esercizio di ginnastica artistica.

La rappresentazione teatrale può dunque cominciare solo dopo che tale gesto fondativo di sottrazione del sé abbia luogo. Ed è proprio questa scelta, si diceva, a rappresentare la chiave della riuscita di questo piccolo ma straordinario spettacolo. Perché mostrare quell’atto di amputazione in apertura libera Castellucci dal bisogno di riconsegnare dialetticamente la tirannia dei dispositivi tecnologici sull’umano su cui lavora gran parte della sua ultima produzione. Ogni trasfigurazione scenica dell’esito tecnico del percorso metafisico occidentale, che Castellucci riconsegna attraverso il lavoro sul linguaggio e sui suoi impianti tecnologici, ancora presente nello speculare e successivo Democracy in America, è abbandonata o sottoposta alla logica di una drammaturgia visiva e sonora elementare (come le voci in playback di una parte delle attrici, o il suono di Perseus amplificato con cui si apre l’antefatto, o ancora le armi imbracciate dalle donne della comunità per opporsi alla predica di Empedocle). La rappresentazione diventa una recita “povera”, la declamazione di una partitura testuale, perché ogni Gestell, oppositiva e “disumana”, è stata amputata, cancellata con quel taglio radicale iniziale.

Non c’è bisogno di alcuna ritualità dissimulata, alcuna macchina teatrale che dia forma all’astrazione di un regime vuoto dell’immaginario. Il movimento scenico deve unicamente corrispondere alla potenza elementare del poema incompiuto di Hölderlin: pose plastiche, vere e proprie ripetizioni ginniche realizzate da attrici in uno stato di grazia, figure che, intrecciate, danno corpo a forme e forze primordiali (come la magnifica immagine del parto nel finale, rito di iniziazione e purificazione della comunità dopo la morte del filosofo), rappresentano unicamente il tentativo di accompagnare la forza tautologica disarmante del testo di Hölderlin. Una poesia che è pura azione, che non tenta di oggettivare e sottomettere al suo significato alcun dato del mondo. Una poesia fatta di versi interrotti, serrati, in cui non c’è metafora, non c’è immagine, non c’è alcun punto di reale assoggettato che si mostri al di là del suo senso immediato. Una lingua “teatrale” che non nomina alcunché se non il suo stesso agire, che è una pura cosa in se stessa e che ritrova la sua forza nucleare nell’immanenza di ciò che afferma.

In questo piccolo spettacolo di Spoleto quello di Castellucci diventa finalmente un teatro che non ha più paura di mostrare la sua potenza nuda, grotowskianamente, dal momento che cessa di pensarsi come un dispositivo di immagini tecnologiche che deve a tutti i costi sostituire il potere normativo della parola. Quello di Giudizio Possibilità Essere è finalmente un teatro di parola in quanto parola, un teatro che cioè accetta di farsi carico del portato veritativo del discorso (poetico) attraverso il corpo, senza doverlo sacrificare sull’altare metafisico della tecnica, che lo trasfigura in un orizzonte visuale diffuso, performativo, dissimulatamente vuoto.

E non è un caso che, come già in Four Seasons Restaurant, proprio il lavoro su Hölderlin rappresenti uno dei momenti più avanzati della produzione di Castellucci recente. Perché è come se il regista di Cesena abbandonasse finalmente qualsiasi orizzonte messianico, qualsiasi invocazione di una divinità o immanenza salvifica, e ci riconsegnasse non un’umanità lacerata ma un’umanità che spera. Quasi seguendo i famosi versi di Hölderlin, tanto cari a Heidegger, «Molto ha esperito l’uomo. Molti celesti ha nominato, da quando siamo un colloquio e possiamo ascoltarci l’un l’altro». Un teatro in cui qualsiasi punto di trascendenza possa essere nominato senza l’evocazione annichilente di un impianto inumano del pensiero, del potere oggettivante del significato, che annulla qualsiasi “colloquio” in nome della violenza reificante del linguaggio. Finalmente un teatro di corpi e di parole, senza che le due cose possano esistere l’una al di là dell’altra.

Riferimenti bibliografici
E. Canetti, La lingua salvata, Adelphi, Milano 1991.
F. Hölderlin, La morte di Empedocle, Garzanti, Milano 2005.

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