Leggendo la raccolta di saggi critici sul teatro e sul cinema ottimamente curata da Francesco Ceraolo per Teorie dell’evento. Alain Badiou e il pensiero dello spettacolo (Mimesis, 2017), si resta colpiti innanzitutto dalla densità d’ogni singolo intervento, costretto sempre, per il suo soggetto stesso, ad affrontare ogni volta i nodi teorici che il filosofo francese mette in gioco, non solo nei riguardi dello spettacolo – ma alla fine si deve constatare che non è possibile mantenere certe idee preconcette (leggi: pregiudizi) in merito a un pensiero in continua evoluzione, malgrado una scrittura (di Badiou) che, in certi casi, può apparire eccessivamente assertiva (qualcuno l’ha definita “spigolosa”).
E in fondo è facile urtare contro questi spigoli, e riportarne qualche abrasione, se si resta a quanto sostenuto, per esempio, in Rapsodia per il teatro, tradotto solo un paio d’anni fa dallo stesso Ceraolo. Qui, nell’intento di ascrivere il teatro alla categoria degli eventi (d’Arte) capaci, assieme agli eventi dell’Amore, della Politica e della Scienza (specialmente della Matematica), secondo certi presupposti filosofici, di scuotere la routine dell’Essere, in ragione della loro novità traumatica, Badiou giungeva a porre il teatro (il vero Teatro) come profondamente isomorfo alla Politica, quindi alla res publica, in ragione del suo necessario collegamento a un Testo e a uno Spettacolo, effettuato davanti a un pubblico, tramite le figure complementari dell’autore e del regista, negando invece al cinema (almeno in prima istanza) tale carattere. Se il Teatro, arrivava a dire Badiou, è collegato allo Stato ed è faccenda di Stato (come esemplificato dalla democrazia ateniese), il cinema è sopratutto affare privato, faccenda di Capitale: il vero Teatro conta sugli spettatori, il cinema li conta.
Eppure tutto ruota attorno al quesito che già fu di Deleuze: cos’ha da dire un corpo? Secondo il Badiou di Rapsodia per un teatro, un corpo, in sé, senza qualche forma di Testo, non ha da dire molto più che il suo esserci. Il teatro del corpo non può fare altro che esprimere il senso senza senso di gesti, movimenti, scarti, vocalità, sussurri e grida inarticolate, mancandogli il supporto del Testo, il solo capace di far apparire nell’evento dell’occasione particolare la luminosa epifania dell’Eterno (o del Vero). Dunque esistono, per Badiou, non due, ma tre tipi di teatro: quello con la “t minuscola”, ossia il teatro del divertimento, del piacevole (o insopportabile) chiacchiericcio – quello con la “t maiuscola”, il Teatro delle Idee, nato un tempo in Grecia come gemello o fratello siamese della Filosofia (non a caso il dialogo filosofico, da Platone in poi, richiama i procedimenti della drammaturgia) – e quello che non si può più considerare teatro, un oltre-teatro del corpo, del grido, del gesto, che Badiou, pur riconoscendone i meriti (ma un po’ a denti stretti), non ritiene possa portare propriamente questo nome.
A maggior ragione, secondo certe prese di posizione di Badiou, al cinema manca (quasi sempre) la dimensione delle Idee: manca la partecipazione e l’elaborazione degli spettatori, ridotti al conteggio della loro consistenza numerica: dunque manca (quasi sempre) la possibilità di essere davvero evento, se evento è ciò che accade, ma accade nell’ordine del traumatico – però questa sottovalutazione del cinema, alla fine, viene corretta da Badiou stesso: vedi, per esempio, gli scritti già raccolti da Daniele Dottorini in Del capello e del fango; e lo stesso Dottorini, nel suo saggio dedicato all’Analogos, all’Ombra, alla Grotta (platonica) e alle mille immagini del cinema qui lo ribadisce, citando non a caso le inquadrature che al mito della Caverna aveva dedicato Chris Marker nella nona puntata (Cosmogonie ou L’usage du monde) del suo documentario L’héritage de la chouette (1989), sulle origini greche della cultura occidentale.
Prendiamo la morte di Molière (vedi il saggio di Carlo Serra, Estrarre dal reale), sulla quale Badiou si è soffermato a lungo. Molière muore mentre sta interpretando sulla scena, come attore, Il malato immaginario, divenendo pertanto, da malato immaginario, morto reale. Che significa questo incredibile corto circuito tra finzione e realtà? La realtà, o meglio, il Reale (la sfumatura lacaniana non è casuale, e non sfugge, nel suo saggio sul teatro postdrammatico, a Pietro Bianchi), si manifesta proprio attraverso la finzione, la squarcia, la rende impossibile – è innegabile che qui si crei l’evento, ma a prezzo della fine della rappresentazione. L’evento consiste nel gesto dell’attore di strapparsi la maschera, gesto istintivo del moribondo, non privo peraltro di un sia pur minimo coefficiente di teatralità.
Supponiamo ora (aggiungiamo noi) che Molière non fosse morto in scena. Supponiamo magari di vederlo recitare in una replica di Il malato immaginario precedente a quella fatale: non si avrebbe la stessa sensazione dell’irrompere del Reale, non si coglierebbero già sul suo viso, nei suoi gesti affaticati, nelle guance scavate, i segni della malattia e della morte imminente? Non avvertiremmo già, dietro il Comico, il senso del Tragico che incombe?
Pensiamo, per portare un esempio cinematografico, al Massimo Troisi della versione filmica del Postino di Neruda – ma anche in un film, non c’è bisogno che l’attore sia (e appaia) in punto di morte: bastano i volti dementi, le teste a pera, delle figlie di madame Tetrallini in Freaks. Di loro, meno che mai riusciamo a convincerci che si tratta solo di ombre su uno schermo bianco. Lo spettro-attore derridiano, lo spettr-attore, riesce a imporre la sua flagranza, l’insostenibile evento della sua presenza, la sua realtà malgrado tutto.
Così, il Grande Cinema Cosmico può sostituire la caverna platonica nel dialogo La Repubblica tradotto e riscritto dallo stesso Badiou. È un mistero, come dice Godard, o un paradosso, che si sviluppa attorno alla questione del rapporto tra essere e apparire. Tramite il montaggio, ma non solo, il cinema è in grado di sviluppare e trasformare la nozione stessa di Idea, come appare ad esempio negli scritti che Badiou ha dedicato a Un mondo perfetto di Clint Eastwood (ne parla Alessia Cervini) o a Falso movimento di Wenders (ne parla Bruno Roberti).
La forza del cinema, conclude Roberto De Gaetano nella postfazione, è nella sua necessaria impurità, nel dare l’idea, attraverso i film (alcuni film) che formano il suo Reale, della necessaria impurità d’ogni Idea, del suo inevitabile mischiarsi col capello e col fango.
Riferimenti bibliografici
A. Badiou, Del cappello e del fango. Riflessioni sul cinema, a cura di D. Dottorini, Pellegrini, Cosenza 2009.
A. Badiou, Rapsodia per il teatro. Arte, politica, evento, a cura di F. Ceraolo, Pellegrini, Cosenza 2015.
F. Ceraolo, a cura di, Teorie dell’evento. Alain Badiou e il pensiero dello spettacolo, Mimesis, Milano, 2017.