Sullo schermo, il primo movimento che cattura il nostro sguardo è l’andatura spedita di un personaggio maschile, di spalle rispetto alla posizione degli spettatori. Seguendolo, veniamo catapultati nell’atmosfera frenetica di un festino privato. I corpi adolescenziali messi in scena riempiono le stanze di una abitazione e si muovono al ritmo di musica; eppure c’è qualcosa che stride. Nel vortice festoso, di cui facciamo esperienza diretta grazie all’immersivo movimento di macchina, si intromette una porta chiusa, poi un ragazzo con un coltello. È il primo elemento orrorifico che si affaccia nella narrazione a cui partecipiamo, un suicidio che avviene sotto gli occhi di tutti: ma è, soprattutto, l’ultima azione di un prologo che infesterà la storia che introduce.
Così si apre Talk to Me, il film horror che segna l’esordio alla regia dei due fratelli Danny e Michael Philippou, già affermati youtuber. Nei pochi minuti di prologo analizzati, che presentano l’avvio di una architettura narrativa ben costruita, ogni elemento della sceneggiatura comincia a dispiegarsi, così come le relazioni che intercorrono tra i vari personaggi. Nel gruppo di amici di cui seguiremo le azioni, tutto orbita attorno alla protagonista Mia, alle prese con il secondo anniversario della morte di sua madre. Poi al legame stretto, quasi morboso, che ha nei confronti della famiglia della sua migliore amica, Jade, e del fratellino minore di lei, Riley.
Il film, dunque, si muove per sottrazione sin dalle battute iniziali, mostrando chiaramente come le conseguenze della morte, influiscano sulla costruzione identitaria dei ragazzi adolescenti. Attaccando, come la maledizione sovrannaturale che la storia presenterà di lì a poco, la possibilità di avere una famiglia, unita, amorevole. Infatti, dove Mia cerca di colmare un vuoto attraverso il corpo della madre della sua amica (Miranda Otto), a seguirla c’è la presenza fantasmatica di un padre che non riesce ad avere alcun canale comunicativo con lei. Una scelta registica consapevole, questa, che si manifesta con la volontà di sfocare la sua immagine quando ci viene presentato nelle scene iniziali, ponendolo in secondo piano e dietro le spalle di sua figlia.
In Talk to Me, prima ancora che l’orrore faccia la sua comparsa permettendo allo spettatore di dargli un nome e, dunque, di conoscerlo, quello che viene messo in dubbio, pesato, giudicato, è la lealtà nei confronti delle relazioni che stringiamo nelle nostre vite. Relazioni che, nell’ottica di un mondo ancora da costruire come quello adolescenziale, rappresentano il fulcro stesso della propria essenza, in cui il giudizio tra pari nello stesso gruppo sociale, pesa violentemente.
Quando finalmente l’elemento orrorifico torna nel tessuto filmico per non abbandonarlo più, esso si manifesta come una sfida o – per usare un termine che richiama la dimensione del duo registico – una challenge, da filmare con i propri cellulari e postare su Snapchat. Infatti, prima ancora di esserne toccate in prima persona, Mia e Jade guardano gli effetti che la sfida produce sui propri profili, dileguandola come una ricerca di attenzioni da parte dei soggetti che fingono una possessione. Eppure elettrizzate all’idea di provarlo sulla loro pelle.
È il mondo reale dei registi che fa capolino, dimostrando non solo l’attenzione al dispositivo mediale, lasciandolo parlare prima dell’esperienza diretta, ma soprattutto la profonda conoscenza della loro audience di riferimento. Lo dimostra l’utilizzo del social più utilizzato tra i gruppi di amici, o il ritrovo collettivo negli interni privati quando i genitori sono via; ma anche quel bisogno bruciante, urgente, di crescita per dimostrare il proprio coraggio in una sfida a tempo.
La minaccia sovrannaturale è incarnata da un oggetto feticcio, congiunzione tra due mondi di cui il genere horror si fa portatore: in questo caso, una mano ricoperta da un gesso bianco che permette di parlare con i morti. Attraverso il semplice contatto con una mano in carne ed ossa, ed un invito ad entrare che richiama il vampirismo nel mondo filmico, avviene la possessione che deve durare solo pochi secondi. L’architettura del microcosmo di amici non può che ruotare attorno alla mancanza, all’assenza, alla repressione di istinti e sentimenti. Dunque, non sarà tanto la minaccia del mondo altro a penetrare il tessuto delle immagini, quanto le conseguenze che la relazione instaurata tra morti e ragazzi soli faranno scaturire.
L’horror, nella visione dei fratelli Philippou diventa teen, ma si abbandonano i toni troppo adulti, o le spiegazioni volte a giustificare con la logica del “mondo dei grandi” il passato di quella mano, portando l’oggetto a diventare un richiamo per sentire finalmente qualcosa. Con la conseguenza che, anche le dinamiche classiche all’interno del genere, diventino abbozzate, decostruite e, molto spesso, disattese. Come l’apprestarsi spettatoriale di riconoscere nel corpo di Mia, il topos della final girl che accompagna le storie dell’orrore contemporanee, individuando l’eroina destinata a non soccombere; ma è lo stesso personaggio, nella sua costruzione diegetica, a non averne l’intenzione.
Nell’armonioso ma stridente susseguirsi degli eventi, la messa in scena diventa pop, il montaggio partecipativo e palpitante, mentre le sequenze più inquietanti si adattano al trasparente linguaggio social. E, come nella diegesi filmica, anche nel mondo reale degli spettatori la challenge messa in scena viene accettata. Il successo del film si concretizza con il passa parola, con centinaia di video su TikTok che riprendono una parte della colonna sonora in una sequenza, probabilmente, già cult. In una visione che non condanna, non punta il dito, limitandosi solo ad osservare una catena di colpe mal riconosciute, assegnate solo in parte, eppure assolutamente chiare.
Catena di colpe a cui si aggiunge la censura che, a seguito del primo weekend d’uscita in Italia, viene estesa ai minori di 18 anni per la violenza esplicita ed insistente che il film mostra. Causando una visione frammentata, a metà, che non accetta la completezza dell’opera in sé. Limitando le possibilità di fruizione di un prodotto in cui, la violenza, il brivido, la paura, diventano sentinelle del mondo spietato degli adulti – anche di quelli trapassati – in cui i protagonisti si apprestano ad entrare. Eppure la sfida, nonostante porti a conseguenze inquietanti ma prolifere per il genere horror, inizia – e finisce – con una stretta di mano, un contatto. Una vicinanza questa che Mia, Jade, Riley, ed ogni singolo personaggio mostrato, si vedono negati pur abitando negli spazi “sicuri” del mondo conosciuto. E, come ci suggerisce il titolo, ad un richiamo sussurrato quando si ha paura, alla flebile luce di una candela: parla con me.
Riferimenti bibliografici
J. Clover, Her Body, Himself: Gender in the slasher film, University of California Press, Berkeley 1987.
G. Gili, Il piacere della violenza. Esposizione televisiva, gratificazioni del pubblico e pratiche di fruizione, in Studi di sociologia, a. 43, f. 2, Università Cattolica del Sacro Cuore, Milano 2005.
Talk to Me. Regia: Danny e Michael Philippou; sceneggiatura: Danny e Michael Philippou; fotografia: Aaron McLisky; montaggio: Geoff Lamb; musiche: Cornel Wilczek; interpreti: Sophie Wilde, Alexandra Jensen, Joe Bird, Miranda Otto; produzione: Causeway Films, Bankside Films, Talk to Me Holdings; distribuzione: Maslow Entertainment, Umbrella Entertainment; origine: Australia; durata: 95’; anno: 2022.