“Sono tornata, mamma” sospira tra sé Suzume mentre attraversa i cancelli di quell’abitazione che fino a 12 anni prima poteva chiamare casa. Adesso, in seguito al triplo disastro del Tōhoku (terremoto, tsunami, esplosione nucleare di Fukushima) nelle lande desolate del nord-est del Giappone non restano che i detriti di un mondo perduto, in cui le rovine si elevano a simbolo e sintesi di ferite che trascendono il singolo evento di morte. Per la giovane ragazza dell’anime, infatti, attraversare quello spazio traumatico non comporta soltanto il ricongiungimento ideale con il rimosso, con quella parte di sé fin troppo a lungo repressa – e perciò tutta ancora da metabolizzare – ma delinea il punto terminale di un viaggio allegorico, che sublima nel cammino intra-dimensionale (e interinsulare) della protagonista le chiavi metaforiche per riscoprire – e quindi affrontare a livello di coscienza – i traumi di un’intera nazione.
In Suzume (2022), infatti, il cammino che spinge la protagonista a chiudere tutte le “porte” disseminate lungo l’arcipelago per evitare che il gargantuesco “worm” filtri nella quotidianità dei cittadini, devastandola con l’attivazione di terremoti incontrollati, sembra sempre suggerire un duplice livello semantico, che ha nella sovrapposizione di individuale e collettivo, personale e nazionale, le origini del suo procedimento simbolico (e narrativo). Non è un caso che il viaggio della giovane Suzume inizi e finisca proprio con una porta, la cui soglia è indice e metafora del percorso bidirezionale del (solamente suo?) cammino traumatico. Al punto che non appena vediamo la ragazza attraversare una cornice, ecco che il film di Shinkai compromette ontologicamente gli spazi, facendo coincidere sul medesimo piano (narrativo, estetico, semantico) due realtà dalla natura eminentemente contraria: quella interna/soggettiva, rivelatrice della dimensione interiore (e personale) del trauma; e quella esterna/collettiva, che alterna il movimento nello spazio della protagonista-orfana – e quindi il suo processo di elaborazione del lutto – all’emersione delle fratture sismiche/identitarie dell’arcipelago nipponico.
Le “porte” dislocate in tutti gli angoli del paese, dalle zone meridionali del Kyūshū ai centri politici dell’isola di Honshū fino alle lande settentrionali del Tōhoku, sono l’indice di una nazione che ospita nel suo grembo i sintomi della sua stessa distruzione. D’altronde il Giappone, una terra altamente sismica circondata interamente dalle spire diaboliche del Pacifico, ha alle sue spalle una lunghissima storia di implosioni e devastazioni territoriali – pensiamo, ad esempio, al Grande Terremoto del Kantō del 1923 o al disastro di Kobe del ’95 – che hanno portato i cittadini a convivere quotidianamente con le sorgenti del loro (possibile) annientamento, rendendo così sempre più sfocati i confini tra personale e collettivo, tra quel che appartiene alla dimensione sociale e ciò che invade la sfera individuale.
È per questo che il cammino intrapreso da Suzume per raggiungere la catarsi, e metabolizzare quell’assenza materna che le ritorna a livello di coscienza sotto forma di reminiscenza infantile, la porterà ad attraversare tutti gli angoli della nazione, le cui ferite risultano ormai sempre più sovrapposte alle cicatrici luttuose della ragazza. Ma come sempre accade in Shinkai, l’avventura della protagonista non è mai da intendere come un mero avanzamento nello spazio. Al contrario, il viaggio che dal Kyūshū la porta al luogo natio, e che disinnesca per lei la distanza (emozionale, fisica, immaginaria) dal nucleo originario del conflitto, è il contraltare di un percorso formativo dalla natura ancor più liberatoria ed edificante. Da individuare, come tipico del regista, nella purezza del sentimento romantico. È la “lontananza” da Souta, il giovane uomo predisposto a chiudere le “porte incantate” e tramutato all’inizio del racconto in uno sgabello a causa di una maledizione, che Suzume deve convertire in “prossimità”, per poter arrivare a sigillare anche l’ultimo, maledetto varco. E portare così a termine il percorso del lutto. Quello personale, come quello di matrice collettiva.
In piena continuità con La voce delle stelle (2002), Oltre le nuvole, il luogo promessoci (2004) o Viaggio verso Agartha (2011) anche in Suzume è la progressiva riduzione della distanza tra i due “innamorati” a condurre il mondo (in questo caso, il Giappone post-Fukushima) verso la salvazione, a cui segue il naturale ricongiungimento della ragazza con il Sé dimenticato – visibile qui nella figura “onirica” della Suzume-bambina – e la conseguente presa di coscienza del trauma. Una duplice linea semantica, quella perseguita dal film, che non a caso Shinkai fa confluire verso una singola, perturbante sigla: il “3.11”. Perché quei numeri scarabocchiati sulla pagina di un diario, che agli occhi di un occidentale possono voler dire tutto come niente, costituiscono in realtà per i giapponesi il simbolo di una ferita ancora aperta, impossibile da sanare per come ha lacerato i cuori (e le identità) di decine di migliaia di vittime. Quel maledetto 11 marzo del 2011, in cui uno tsunami da 14 metri ha travolto le coste del Tōhoku disseminando morte e distruzione, è per il popolo nipponico lo spartiacque socio-politico della nazione, e per Suzume il principio di una ferita che non è mai stata in grado di comprendere. Almeno fino a poco prima dell’incontro con l’amato Souta.
“Dove stai andando, Suzume?” le urla la cara zia Tamaki, mentre la nipote si appresta ad aprire l’ultima porta, quella ubicata – guarda caso – nelle lande desolate del Tōhoku. “Vado a vedere la persona che amo!” le risponde. Da quel momento Suzume non è più la stessa. La ragazza che qui ci presenta Shinkai è una persona in via di maturazione, che si sta progressivamente liberando della sua parte infantile – cioè dei tempi in cui era incapace di elaborare, se non addirittura di definire il senso di perdita – per mezzo del sentimento romantico. Ovvero di quell’estasi emotiva che nelle opere del regista giapponese travolge ogni struttura o soluzione grammaticale. Per poi arrivare a trascendere distanze e differenze. Fino a sovrapporre l’universo cosmico del Giappone con il (micro)cosmo interno dell’individuo.
E si ritorna così alla scena di partenza. Negli occhi ricolmi di lacrime con cui Suzume fissa le pagine cancellate del “3.11”, mentre udiamo in sottofondo le grida dei sopravvissuti al disastro, è possibile trovare tutto il senso del film. Non solo perché Shinkai suggella qui le memorie traumatiche in un unico spazio di rappresentazione. Ma per i modi in cui fa rivivere i conflitti universali – sia quelli che appartengono alla nazione, sia quelli che rimettono in discussione le fragilità dei singoli personaggi – in una dialettica organica e sempre interagente, che arriva a ripianare orizzonti, storie e vissuti, fino a sigillarli dietro le soglie di un (allegorico) portone.
“In fondo l’ho sempre saputo” dice Suzume nell’epilogo alla sé stessa del passato, prendendo finalmente coscienza dei trascorsi traumatici della sua infanzia. Perché solamente adesso, dopo aver viaggiato per tutto il Giappone e aver sanato le ferite aperte del Paese, può veramente riconciliarsi con gli eventi di quel giorno fatidico. E l’immagine di una chiave che gira nella serratura non lascia alcun dubbio a riguardo. Con la protagonista che è finalmente pronta a guardare oltre gli orizzonti del trauma, e a cercare di conseguenza il proprio posto nel mondo. “Bentornato” la sentiamo dire sul finale all’amato Souta. Eppure questa parola assume significato solamente se la leghiamo al percorso della ragazza. Allora a noi, giunti qui, non resta che contraccambiare il saluto, e aspettare che il tempo cancelli anche le ultime cicatrici. Okaeri, Suzume. Ora sì che sei a casa.
Suzume. Regia: Makoto Shinkai; sceneggiatura: Makoto Shinkai; interpreti: Nanoka Hara, Hokuto Matsumura, Eri Fukatsu, Shōta Sometani; produzione: Aniplex, East Japan Marketing & Communicatons Inc., Kadokawa, Lawson Entertainment; distribuzione: Warner Bros. Entertainment Italia; origine: Giappone; durata: 122′; anno: 2022.