Il corso di Gilles Deleuze sulla pittura si è svolto all’Università di Vincennes durante il secondo semestre dell’anno accademico 1980-1981. Esso fa seguito a una lezione sulla filosofia di Spinoza tenutasi nel primo semestre dello stesso anno e precede la lunga sequenza di lezioni sul cinema che occuperà Deleuze dal 1981 al 1985 (dal 1981 al 1983 sull’immagine-movimento e dal 1983 al 1985 sull’immagine-tempo). Come di consueto, un corso per il filosofo era inseparabile dalla stesura di un libro, e quella che dedicò alla pittura preannunciava la sua monografia su Francis Bacon, Francis Bacon. Logica della sensazione, che uscì in libreria nell’autunno del 1981. Questo volume sulla pittura ha anticipato altre trascrizioni di lezioni tenute da Deleuze nel corso della sua carriera all’Università di Paris 8. Les éditions de Minuit hanno lanciato un appello sul loro sito web per raccogliere, oltre a quelli già esistenti, questi preziosi archivi sonori in vista della loro pubblicazione. Come è noto, le lezioni venivano registrate dagli studenti con registratori a nastro per catturare la voce del filosofo. Questi dispositivi tecnici, ormai obsoleti, popolavano il tavolo dove Deleuze era solito parlare, in una sala certamente troppo piccola per le dimensioni del pubblico che veniva ad ascoltarlo.

La prima caratteristica singolare di questo corso sulla pittura è che Deleuze chiarisce fin dall’inizio che non mostrerà alcuna riproduzione dei dipinti che commenterà: né quelli di Bacon, né quelli dei numerosi pittori che discuterà nel corso del semestre (da Van Gogh a Nicolas de Staël, da Mondrian a Pollock, passando per Rauschenberg e Seurat). Deleuze è categorico su questo punto: «Quello che non voglio fare è mostrarvi delle riproduzioni, perché poi non avete nemmeno voglia di parlare. Ci diciamo: oh sì, cosa possiamo dire? Allora farò appello alla vostra memoria». Questo commento introduttivo fa eco alla prefazione che apre L’immagine-movimento, dove la deliberata assenza di immagini nel testo è giustificata nel modo seguente: «Non offriamo alcuna riproduzione che illustri il nostro testo, perché il nostro testo vorrebbe essere un’illustrazione di grandi film di cui ognuno di noi serba più o meno il ricordo, l’emozione o la percezione». In altre parole, la scrittura filosofica tende a suscitare il ricordo delle opere d’arte attraverso il lavoro del concetto, poiché ogni concetto è carico dell’emozione che un quadro o un film ha suscitato, che si tratta a sua volta di rendere sensibile attraverso le parole.

Ma c’è di più, perché il rifiuto di mostrare immagini durante una lezione getta contemporaneamente luce sul rapporto con il sapere che è in gioco nella pratica didattica di Deleuze: una pratica orale, a tentoni, soggetta a numerosi bivi e talvolta anche a temporanee impasse. «Facciamo progressi lenti», dichiara spesso Deleuze, ad esempio nel difficile trattamento del “punto grigio” di Paul Klee. In questo caso, il grigio oscilla tra “caos” e “matrice”, e tra l’uno e l’altro impone il problema del “ritmo della pittura” e di un “inizio del mondo” sulla tela. Il problema di una temporalità nascente che si sprigiona dallo spazio pittorico è impressionante e delicato, e richiede ogni precauzione di analisi. E i risultati non sono mai immediati: «Cominciamo a intravedere questa sintesi del tempo che è presente» in Klee, ma altrimenti già in Cézanne, e ancor prima in Turner. Sia che il libro salga o scenda lungo la storia della pittura, c’è una progressione nell’esame delle opere che di fatto segue il processo di elaborazione dei concetti di Deleuze. In tutte le pagine compaiono concetti di pittura – lo «spazio egiziano» e le sue sopravvivenze, il «codice della pittura astratta», la «forza dell’appiattimento nel sonno» di Bacon – a cui seguirà, negli anni successivi, un’importante invenzione di concetti cinematografici nei corsi su L’immagine-movimento e L’immagine-tempo.

In entrambi i casi, è l’atto di creazione che stiamo seguendo e quasi mimando, nel movimento di fabbricazione concettuale in cui consistono essenzialmente le lezioni di Deleuze. Se i libri espongono i concetti che il filosofo estrae immanentemente dalle immagini, i corsi ne propongono la genesi. Questa esigenza genetica ne incontra a sua volta un’altra, quella che genera il “fatto pittorico”, a volte al prezzo di prove estenuanti. Lo dimostrano gli “occhi arrossati” dei pittori, che rimandano alla conquista di una zona piatta di colore, di un tipo di luce, o anche di una dimensione tattile propriamente visiva, e talvolta tutti insieme, come nel caso di Cézanne: «Gli occhi di Cézanne sono tutti rossi. Non vedo più nulla. Ma questo non significa che non possa fare nulla. Fare senza vedere. La liberazione della mano (…) è la rivolta della mano, la mano stufa di seguire l’occhio. Ha il suo grande momento di indipendenza». E questa rivolta è legata a un’altra, ancora più profonda, che provoca un «collasso delle coordinate visive» su cui si basano di solito i nostri modi di vedere o sentire, pensare o ricordare.

Deleuze dedica lunghi passaggi del suo corso a questo “crollo”, esplorando come il suo attraversamento costituisca la condizione per la conquista di un colorismo o luminismo mai visto prima in pittura. Ciò che dobbiamo superare è la “condizione pre-pittorica”, ovvero l’intero mondo dei cliché in cui nasciamo, viviamo e persino moriamo. Che cos’è un cliché? «Anche se non si vedono, ci sono. Questi tipi di ectoplasmi, dove sono? Nella testa, nel cuore, sono ovunque, nella stanza, sono lì. È incredibile, sono come fantasmi». Come sappiamo, Logica della sensazione contiene pagine ispirate su questa lotta inesplicabile degli artisti. La lezione sulla pittura vi pone ancora più enfasi, avviando una riflessione sui cliché dell’immagine che sarà ripresa nel saggio sul cinema. Diversi momenti scandiscono la dimostrazione di Deleuze. Il primo è un avvertimento: i cliché sono radicati e la semplice intenzione di liberarsene non è sufficiente. Il secondo è la conoscenza che dobbiamo avere dei cliché per poterli rovesciare, conoscenza che è a sua volta inseparabile dai modi in cui vengono fatti circolare su larga scala. Dobbiamo tenere traccia di questi cliché visivi, che sono «come bestie che [si precipitano] sulla tela prima che il pittore abbia preso il pennello». È una «catastrofe», scrive Deleuze letteralmente: la catastrofe di un eccesso di cliché che rende improbabile il mito della tela bianca.

Il terzo momento ne consegue e consiste nell’affrontare questo caos-catastrofe per ottenere il “collasso” delle nostre abitudini visive. Per farlo, occorre la massima sobrietà unita alla massima perseveranza: «Dovremo annegare tutto questo», dice Deleuze, «impedire tutto questo, uccidere tutto questo, impedire tutti questi pericoli che già gravano sulla tela in virtù della sua condizione pre-pittorica». Da qui l’invocazione di una “eliminazione fantastica”, una “purificazione fantastica”. Deleuze talvolta omogeneizza il contenuto di quello che chiama il “dominio delle immagini”, cioè “l’immagine fotografica, l’immagine cinematografica, l’immagine televisiva”, senza distinguerle realmente. Il dittico sul cinema darà sostanza espressiva a ciascuna di queste immagini. Il fatto è che i passaggi sui cliché del corso di pittura e della monografia su Bacon mettono in moto tutta una strategia di distruzione-invenzione che ritroveremo in Cinema 1 e Cinema 2, con un problema persistente che si potrebbe riassumere così: come estrarre da un’immagine-cliché un’immagine che non sia più un cliché? Un problema persistente, che è più che mai nostro.

In effetti, questo è uno dei tratti distintivi dei corsi di Deleuze: le esplosioni di pensiero che scatenano da un viaggio serpeggiante attraverso la storia della pittura attingono non solo al presente del suo sviluppo filosofico, ma anche alle forze inquietanti di un futuro più o meno minaccioso (e più che meno). È in questo senso che viene in mente il nome di Kafka, e una lettera a Max Brod citata da Deleuze risuona intimamente con la nostra storia contemporanea. Per Kafka, «ciò che conta alla fine non è ciò che è visibile, ma individuare le potenze diaboliche del futuro che stanno già bussando alla porta, che, in un certo senso, sono già lì, ma non sono visibili. Prendiamo, ad esempio, il fascismo, gli stati di tortura, tutto questo… C’è qualcosa di visibile, ma c’è qualcosa che supera ogni visibilità». Si rivela opportuno, allora, provare vedere ciò che si trova al di là di questo eccesso molto reale, questa presenza non visibile disseminata nei tormenti del nostro tempo. Per Deleuze, la grande pittura, e quella di Bacon in particolare, deve allenare il nostro sguardo a sperimentare l'”orribile spettacolo” di queste potenze ostili e vicine. Se il cliché non prende il sopravvento in fretta, allora c’è speranza e «questi poteri [si] trasformeranno»: una sorta di rovesciamento del «fascismo e tutto il resto». «È strano, tutto questo», ammette Deleuze prima di studiare le figure contorte di Bacon. Ma questa confessione è anche un invito a sperimentare, alla fine, una «specie di immensa consolazione vitale», una consolazione che fa intravedere, grazie alla pittura, la possibilità di una vita non fascista.

Gilles Deleuze, Sur la peinture: Cours mai-juin 1981, Les Editions de Minuit, Paris 2023.

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