di GIANLUCA SOLLA
Sulla vocazione politica della filosofia di Donatella Di Cesare.
Alcune settimane fa, in occasione del Global Strike for Future, girava in rete un video in cui una folla variopinta, composta inizialmente da ragazzi e poi da persone di tutte le generazioni, cantava una sorta di inno alla Terra sulla melodia di Bella Ciao. Trovata pubblicitaria, espediente furbesco di un nuovo green marketing, astuzia della più scaltra società dello spettacolo o effimero exploit senza alcuna persistenza politica: i commenti sono stati i più vari e non sempre lusinghieri, ma non è questo a interessarci ora. Il dettaglio che ha colpito molti di coloro che hanno visto il filmato era che l’inno iniziasse con le parole We need to wake up: è necessario che ci svegliamo. I giornali hanno subito titolato: i ragazzi danno la sveglia al pianeta, ponendo l’accento proprio su questo elemento del risveglio.
Ci penso leggendo il nuovo libro di Donatella Di Cesare Sulla vocazione politica della filosofia, dove il lettore incontra l’affermazione «la veglia è il tratto della filosofia, ciò che la distingue». Devo confessare che leggo da sempre i libri con un’inguaribile partigianeria, riuscendo a seguire lungo il filo della lettura soprattutto le cose che sento più affini. Così se il libro ha diverse anime e soprattutto due grandi riferimenti novecenteschi, Martin Heidegger e Walter Benjamin, mi pare che l’idea della filosofia come occasione di risveglio (tema benjaminiano per eccellenza) risulti particolarmente attuale per un confronto con le urgenze del nostro tempo. Valorizzerò pertanto questo lato, rispetto ai tanti spunti di ispirazione che il libro di Di Cesare offre al lettore.
Assistiamo oggi all’emergere di una neolingua che, nelle più diverse forme, con i suoi «gerghi omologanti, i crittogrammi tribali, l’ipocrita antiretorica del blog», ha finito con il distruggere lo spazio della discussione pubblica. A colpi di parole d’ordine, che sono di una mutezza assordante, questo spazio è stato lentamente eroso, tanto da haters più o meno dilettanti, quanto da politici sempre disposti, in mancanza di meglio, a fomentare le paure e l’odio come occasione di auto-affermazione personale. Dentro un mondo che il libro qualifica come “immanenza satura” ovvero come quel «presente asfittico di un mondo che, poggiando sulla credenza nell’indenne, ha preteso di immunizzarsi dal “fuori”», il lessico del risveglio si lega all’idea di un evento che, irrompendo sulla scena congelata del nostro tempo, interrompe la continuità oppressiva, dentro la quale il sogno del capitalismo scorre ininterrottamente. Questo compito dell’interruzione e del risveglio non può essere ovviamente assolto dalla sola filosofia. Il compito è di tutte e tutti coloro non vogliano vivere nel “torpore inquietato da spettri” tipico del nostro tempo.
Se occorre richiamare al risveglio, è perché il nostro presente è il tempo di un’umanità sospesa in una notte, le cui tenebre onnipresenti e incombenti trovano nella narcolessia del consumismo la figura a loro complementare. Se Benjamin aveva visto giusto, fra capitalismo e il “sonno affollato di sogni” esiste un legame tanto più stretto, quanto più questo sonno porta alla “riattivazione delle forze mitiche”, su cui il dominio finanziario si basa. Da qui le celebri pagine di Benjamin sullo shock e sulla necessità di un “momento esplosivo” per provocare un risveglio, la cui unica alternativa è altrimenti il soccombere alla potenza onirica del mercato. Eppure la domanda resta: quale spazio è capace di operare il risveglio, nella dimensione del nostro mondo, se gli shock del mondo spettacolare producono sempre di nuovo un’ulteriore chiusura immunitaria? Come Gianni Carchia aveva visto a suo tempo, per Benjamin il congedo dal sogno non può essere segnato dalla violenza. Questa produrrebbe tutt’al più un falso congedo. Occorre invece un’astuzia che è tanto più preziosa, quanto più difficili sono le situazioni in cui si trova ad operare.
Qui si gioca la finezza del libro perché evidentemente non basta opporre alla notte del presente la potenza di un risveglio luminoso, rischiarato per esempio dalla luce della ragione. Avvertiamo sin troppo bene come in questa figura prometeica dell’Illuminismo sia in fondo un prolungamento angosciato della paura del notturno e come sia quindi figlia e ostaggio di quella stessa paura. Nell’epoca della sicurezza pubblica, invocata a ogni piè sospinto come risoluzione di tutti i mali, ciò di cui noi soffriamo è anche una forma di “narcosi di luce”, un’illuminazione continua, ventiquattro ore su ventiquattro, assunta come “misura preventiva” contro un’apocalissi sempre incombente, a cui finisce inevitabilmente per assomigliare. Ritrovo questa narcosi, per esempio, nel carosello di quelle spiegazioni apparentemente auto-evidenti e illuminanti, che non necessitano di dibattito e che dunque ci assolvono dall’obbligo del pensiero. Sono spiegazioni di questo tipo che oggi affollano il nostro spazio pubblico, o meglio ciò che ne resta.
È questo il punto in cui il libro di Di Cesare si avvicina di più alla sensibilità novecentesca – penso, per esempio, a certe descrizioni di Parigi da parte di Céline nel Viaggio – che ha visto la città come “città elettrica”. Se i suoi abitanti difficilmente si risvegliano dal sogno del capitalismo, vivono dall’altro lato in un’insonnia cronica. Dicevo che la finezza del libro sta nel non opporre il risveglio alla notte come sua pura e semplice interruzione. La necessità della veglia si accompagna alla necessità di tenere insieme risveglio e sogno, di non disgiungerli. Questo evidentemente non significa farne una sintesi, né imporre un terzo termine, esterno e trascendente. Piuttosto si tratterà di trovare il punto in cui i due termini si co-appartengono, senza escludersi e senza identificarsi. Si tratta di trovare la possibilità di tenere insieme veglia e sonno nella loro distinzione.
Se non c’è possibilità di contrapporre l’ordine del giorno e l’ordine della notte, se non in forza di una violenza, è necessario far valere una doppia esigenza: da un lato di non cedere alle tenebre, dall’altro di non rinunciare alla potenza notturna. Come Benjamin ha mostrato in alcune pagine magistrali, è nell’ora del risveglio che troviamo le tracce per chiamare in vita un’altra visione. Del resto uno degli scrittori che Benjamin sentiva più affini, Marcel Proust, ha posto l’accento sul momento in cui la coscienza torna, il dormiveglia. Il valore delle soglie va mantenuto, non le si può né cancellare, né farne degli astratti, ma ingombranti confini. La soglia non è mai l’interruzione, ma semmai il passo a vuoto, il vuoto che il passo deve compiere perché ci sia passaggio. Scrive Di Cesare: «Il limite tra sonno e veglia non deve essere consumato. Il pericolo è votarsi a un universo onirico, crogiolandosi nei sogni. Il risveglio, però, non è quello prodotto dalla ragione, complice il mito virulento del progresso».
Se il risveglio non deve cancellare il sogno, è perché non si pone più nella catena del naturale susseguirsi di sonno e veglia, ma diventa l’atto inaugurale di una nuova visione. Cosa vede questa visione? Vede il “crepuscolo” ovvero la “rovina” della città. Vede le masse di sconfitti che sono il paesaggio del nostro presente, ma che sono regolarmente espunti dall’orizzonte della politica, che tutt’al più se ne serve in termini strettamente strumentali. Eppure quegli stessi sconfitti dalla storia sono da sempre i veri alleati della filosofia, come di ogni politica che viene. Il riscatto viene dalla capacità di stare in quell’Aperto di cui parlava Ernst Bloch, dalla capacità di restare dentro “quell’enigma immanente che non è stato ancora sciolto”, senza appellarsi a una politica che dovrebbe essere risolutiva delle difficoltà. Abitare quel fuori-luogo, di cui la filosofia ha consuetudine, dato che è sempre stato il suo unico luogo, anche dentro la città, vuol dire far valere l’esigenza di “quell’altrove che non c’è ancora”: l’esigenza di un’utopia.
È da qui che può scaturire lo spazio dell’inventiva, di un’altra chiaroveggenza, di una visione inedita. Questa visione riguarda lo stesso passato, che non è benjaminianamente mai ciò che è stato – ciò che è irrimediabilmente trascorso, finito –, ma ciò che ancora e sempre diviene. Ciò che non smette di divenire. È necessaria una visione di questo tipo per restituire il passato all’apertura cui appartiene. Per restituirlo al tempo della sua leggibilità. Questo motivo – insieme alle altre parti del libro – disegna un altro lessico della politica, che non è quello dello Stato e della sua sovranità, ma nemmeno quello dei diritti e della stessa democrazia (che poi devono necessariamente appellarsi a un potere che li garantisca). È piuttosto il lessico di una politica che nasce dal basso, dall’incontro delle singolarità nello spazio pubblico. Questo lessico anarchistico (più che anarchico) risponde all’esigenza per cui «in un’epoca in cui lo Stato, minato nella sua sovranità, cerca di controllare e saturare ogni spazio politico, è necessario volgere lo sguardo non solo all’esterno dei confini, ma anche all’interno del suo territorio, nei luoghi e nei tempi interstiziali che si aprono. Poiché la politica è una domanda di giustizia, occorrerà articolare un anarchismo della responsabilità».
Se il risveglio è quella modalità con cui gli uomini e le donne si appropriano di quella cosa assolutamente prossima e insieme radicalmente inappropriabile che è la loro vita, allora una politica a venire è definita dall’insieme della pratiche – molte già esistenti e in atto, altre tutte da inventare – che permettano di reinventare la vita come vita umana.
Riferimenti bibliografici
D. Di Cesare, Sulla vocazione politica della filosofia, Bollati Boringhieri, Torino 2018.