Entrati nella prima stanza, ci accomodiamo a una scrivania: davanti ai nostri occhi, un vecchio computer ancora funzionante; il programma in uso è ‘Tulpa”, e ci invita a iniziare l’esperienza. Il dispositivo ci pone delle domande, pare voler empatizzare con noi, conoscerci profondamente. Non senza indugio, leggiamo i quesiti che scorrono sul desktop e con l’ausilio di una tastiera iniziamo a rispondervi: come descriveresti la stanza in cui ti sei svegliato questa mattina? Com’era la cameretta della tua infanzia? Quale momento del tuo passato vorresti rivivere? Qual è il tuo più grande rimpianto? Al termine del colloquio, il vecchio telefono posto sulla scrivania squilla improvvisamente: dobbiamo spostarci nella prossima stanza. Veniamo fatti accomodare su una poltroncina e invitati a indossare un visore di ultima generazione, con la promessa che un’intelligenza artificiale darà vita (e voce) a quanto le abbiamo confessato in precedenza. Lentamente, i mondi che popolano la nostra memoria si materializzano davanti ai nostri occhi, mentre una voce femminile rielabora, in forma poetica, ciò che le abbiamo scritto. Al termine del viaggio in questi ambienti virtuali ed effimeri, ci viene consegnato un report prodotto da un antiquato fax: un piccolo souvenir da conservare per ricordarci di ricordare, per ricordarci di narrare. Il passato è una storia che raccontiamo a noi stessi.

L’installazione Tulpamancer (Marc Da Costa, Matthew Niederhauser, USA), straordinario benché inquietante impiego terapeutico dell’intelligenza artificiale, è l’opera che consente di ampliare il campo di visione sui progetti di Extended Reality presentati durante l’edizione 2023 di Venice Immersive. Tra i ventotto progetti presentati in concorso (ma anche tra i Best of Immersive), è forte e vibrante la presenza del passato quale fil rouge che attraversa le storie in cui ci si immerge sull’Isola del Lazzaretto Vecchio.

Si pensa sovente alla realtà virtuale come un mezzo per dischiudere mondi lontani, sconosciuti, realtà futuribili, distopie segrete: ma tra i corridoi dell’Immersive Island non c’è niente di più desiderato che scardinare i minuscoli meccanismi che regolano la macchina dei ricordi, della memoria collettiva e individuale, delle tradizioni che tremano sull’orlo dell’oblio come il piccolo spirito che nasce e muore nella ciotola Raku che teniamo tra le mani durante l’esperienza Sen (Keisuke Itoh, Giappone).

La tensione verso il futuro che pare propria dell’Extended Reality collide con una paradossale (in apparenza) propensione verso il passato, di cui l’installazione Jim Henson’s The Storyteller: The Seven Ravens (Félix Lajeunesse, Paul Raphaël, USA, Canada) risulta l’esempio più indubbio. Con l’ausilio del Magic Leap 2, l’esperienza è il risultato del connubio tra i contemporanei audiolibri e gli artigianali “Pop-up Book”: sfogliando un libro assolutamente concreto, consegnatoci all’inizio dell’esperienza, comprendiamo fin da subito che esso non è un volume qualsiasi, bensì un book-tracker sulle cui pagine vedremo manifestarsi i diversi “capitoli” della fiaba popolare I sette corvi. Simile, nonostante non sussiste la componente di concretezza, è l’esperienza Pixel Ripped 1978 presentata fuori concorso: un “gioco-nel-gioco” in cui vestiamo i panni di un videogiocatore dedito alla fruizione di devices che attingono alla contemporanea e dilagante retro-mania; anche l’esperienza interattiva/rompicapo Wallace & Gromit in the Grand Getaway (Finbar Hawkins, Bram Ttwheam, UK, Francia) lavora su queste corde.

Fra i corridoi dell’Immersive Island, fra le diverse postazioni custodite entro leggerissime tende nivee, affiora un passato condiviso che si materializza all’interno di head-mounted displays di ultima generazione, in esperienze nelle quali il monito “remember” risuona con vigore: Letters from Drancy (Darren Emerson, Mary Matheson, Charlotte Mikkelborg, USA, UK), Tales of the March (Stefano Casertano, Germania, Italia) e Human Violins – Prelude (Ioana Mischie, Romania, Francia) rievocano il Grande Trauma dell’Olocausto; First Day (Valeriy Korshunov, Ucraina) ambisce al racconto del primo giorno del conflitto in Ucraina; Remember this place: 31°20’45’’N 34°46’46’’E (Patricia Echeverria Liras, Palestina, Qatar, Spagna) narra il doloroso ricordo della casa natìa delle donne beduine; Comfortless (Gina Kim, Corea del Sud, USA) esplora, attraverso spazi e suoni, la condizione delle “US military comfort women”, donne sudcoreane assoldate dal 1969 per dar “conforto” ai soldati americani in Corea. È, dunque, anche il passato delle minoranze, territorio esplorato sia in Queer Utopia: Act I Cruising (Lui Avallos, Portogallo, Brasile) – focalizzato sull’affermazione del protagonista quale membro della comunità queer – sia in Aufwind (Florian Siebert, Germania), sontuoso affresco delle prime donne aviatrici della storia.

Dalle macrostorie alle microstorie: nei progetti immersivi, il passato è – soprattutto – una terra intima e segreta: Perennials (Zoe Roellin, USA) è un’esperienza che indaga il rapporto del protagonista col padre attraverso la rievocazione di alcuni momenti significativi; Finalmente Eu (Marcio Sal, Brasile) premette a una storia di gioiosa affermazione individuale l’innegabile peso specifico delle reminiscenze infantili, così si afferma in Syuhasuu (Ellie Omiya, Giappone), un colorato racconto di formazione. The Imaginary Friend (Steye Hallema, Paesi Bassi, Belgio) non è solo una delle opere più sorprendenti di questa edizione, ma anche una delicata riflessione sull’elaborazione del lutto e sulle conseguenze sull’equilibrio emotivo di un bambino di otto anni.

La lucida riflessione sull’importanza del passato individuale e del ricordo risuona nel racconto vincitore del Premio per la Realizzazione Venice Immersive. In Empereur (Marion Burger, Ilan Cohen, Francia, Germania) viene narrata la degenerazione di un uomo affetto da afasia attraverso il punto di vista della figlia: fra le corde di questa esperienza pregna di poesia, il contatto col genitore è possibile solo attraverso i ricordi che affiorano nel corso della narrazione: il passato si palesa come una porta sull’interiorità di un uomo che lentamente perde la possibilità di autoaffermarsi nel mondo.

Sull’isola dei sogni virtuali in cui ci è concesso di viaggiare da un mondo all’altro, la linea temporale si flette e si tende verso un passato che si vuole – e si deve – ricordare: è un desiderio, quello che sortisce dalle diverse visioni, non così distante da una delle promesse dell’annunciato Apple Vision Pro, ossia la possibilità di immergerci nelle fotografie, nel passato che intendiamo narrare a noi stessi. Riavvolgere, riannodare, rivivere: “il passato è una storia che raccontiamo a noi stessi” asserisce l’assistente vocale Samantha in Her (2012) di Spike Jonze. Fra le pieghe delle storie individuali e collettive alle quali vien data voce sull’Immersive Island, lo scardinamento della temporalità rivela, infine, la transitorietà della specie umana nella grande casa comune. Nell’installazione Songs for a Passerby (Celine Daemen, Olanda), passato, presente e futuro si mescolano nell’anti-sinfonia di una grande città, nella quale noi spettatori effimeri ci osserviamo muoverci fra le eteree onde del passato che, presto o tardi, diventerà una storia da narrare a noi stessi.

Share