C’è stato un tempo, non troppo lontano, in cui la frontiera ultima dell’immaginazione umana non stava sopra la nostra testa, ma sotto i nostri piedi. Nell’800, il sottosuolo terrestre diventa il fulcro più innovativo delle scoperte scientifiche e delle fantasie energetiche, nonché delle finzioni narrative che si fanno carico di dare un senso a un mondo che promette grandi rivoluzioni. Per un breve, intenso momento, non era dunque la Luna a rappresentare l’ignoto spazio profondo – dove recuperare il senno perso, atterrare maldestramente accecandole un occhio, o compiere un grande passo per l’umanità – ma la parte invisibile del nostro pianeta.

Subsurface, l’ultimo libro di Karen Pinkus, affronta il sottosuolo come fecondo e ampiamente inesplorato luogo di potenzialità, in termini propriamente agambeniani, sviluppando ulteriormente il suo singolare e riconoscibile approccio teorico già rintracciabile in Alchemical Mercury. A Theory of Ambivalence e Carburanti. Dizionario per un pianeta in crisi. Strutturato in cinque capitoli che richiamano tanto le operazioni di sfruttamento di quanto si trova sotto la superficie terrestre quanto le implicazioni profonde del rapporto individuale con il testo letterario, il volume elegge Jules Verne a figura guida in questo viaggio dentro luoghi ignoti e misteriosi. Un viaggio che ci conduce nelle profondità dello spazio e del tempo per riemergere infine – quasi dantescamente – sulla superficie del presente, scrutando l’orizzonte che si stende davanti a noi.

Questo lavoro prosegue e anzi fa compiere un salto ulteriore al discorso sviluppato da alcuni anni da Pinkus, presentandola come una delle pensatrici più originali all’interno del vasto filone in continua espansione delle Environmental Humanities. Nel libro, l’attenzione ai processi dell’immaginazione (letteraria, soprattutto) relativa alla nostra concezione dei combustibili, dei carburanti e in generale di tutta la materia destinata alla produzione di energia entra in un dialogo più stretto con una prospettiva geologica che pone l’accento sull’ineludibile sostrato materiale di ogni espressione culturale. Anzi, Pinkus si spinge a dire che anche quando la dialettica tra superfice e profondità viene usata in termini metaforici, in relazione alle pratiche di lettura e all’interpretazione dei testi, questa «non può essere pensata al di fuori della geologia», in quanto «integrata in una relazione con la terra che non può essere mutata: anche se si indugia sulla superficie proprio perché si crede che offra abbastanza, si rischia di lasciarsi sfuggire ciò che accade di sotto» (Pinkus 2023, p. 137).

È proprio nell’800 che letteratura e geologia trovano una prima, fondamentale sovrapposizione; è qui infatti che conoscenza scientifica – con tutti i risvolti narrativi implicati – e attività estrattiva si concentrano sul sottosuolo, dando vita alla nostra condizione di dipendenza dalle risorse sotterranee che oggi pone una seria ipoteca sul futuro dell’umanità sulla superficie terrestre. Ma il XIX secolo è anche il momento di una grande rivoluzione nelle forme e tradizioni letterarie occidentali che, come nota Pinkus attraverso il lavoro di Peter Brooks, devono trovare nuovi principi di legittimazione delle proprie trame (plot) dopo l’affievolirsi del sacro a seguito del processo di secolarizzazione. Il sottosuolo – e la conoscenza scientifica che si stava producendo attorno a esso – ha costituito uno di questi principii, non tanto come luogo di ambientazione delle vicende, quanto piuttosto come giacimento di materiali capaci di alimentare l’immaginazione narrativa, come nel caso eclatante del carbone nel romanzo vittoriano.

Ma se questi materiali sono diventati improvvisamente di uso quotidiano, la loro presenza rimane confinata nell’implicito delle pieghe del racconto: muoversi tra superficie e sottosuolo del testo diventa allora un potente gesto metodologico di riconsiderazione dell’immaginario costruito all’alba della nostra epoca per portare a emersione (il lessico non riesce a sfuggire alla contiguità geologica) il rimosso e l’invisibile dell’origine del presente. Per questo, immergersi nelle profondità della Terra attraverso la mediazione letteraria del passato significa a un certo punto incontrare la concretezza del contemporaneo: quella che si dispiega davanti ai nostri occhi è infatti un’archeologia dell’idea di futuro, ma al tempo stesso un’archeologia del rapporto con i combustibili fossili.

Non deve dunque stupire che il testo costruisca una geografia bizzarra attraverso un montaggio che si muove liberamente nello spazio e nel tempo: dall’Islanda del 1864 possiamo allora ritrovarci nell’Ohio del 2018 o nel Nepal del 2019, salvo risprofondare nel sottosuolo a partire da un varco scozzese della seconda metà dell’Ottocento. Così come non deve stupire che l’immaginazione romanzesca sia posta a stretto contatto con quella dei memorandum aziendali, che descrivono scenari plausibili per un futuro più o meno distante senza l’onere della prova: in effetti, quest’ultimi sono «letteratura che è riuscita finalmente a sbarazzarsi della fastidiosa ambiguità» esprimendo «il desiderio di pura narrazione senza la confusione del linguaggio» (ivi, p. 181).

Affrontare il sottosuolo diventa insomma un’occasione per mettere in una prospettiva più ampia un dualismo, quello tra quanto sta sopra e quanto sta sotto il suolo terrestre, che ha attraversato tutta la nostra cultura sebbene in termini molto meno espliciti ed elaborati rispetto ad altre dicotomie fondative. Eppure, esordisce in apertura Pinkus citando Nigel Clark, «la fondazione di una divisione strutturale tra l’interno fuso e la crosta soleggiata e mite può essere vista come il primo e più importante gesto di divisione binaria della Terra, la primordiale “differenziazione operazionale” del pianeta» (ivi, p. 1). Oggi più che mai quanto avviene sotto la superficie terrestre sta infatti diventando il centro delle dinamiche globali, il luogo dove trovare il sostentamento del presente – tra minerali rari e carburanti in via di estinzione – e immaginare un futuro più rassicurante rispetto alla crisi climatica in corso.

Il sottosuolo è dunque un luogo emblematico per la nostra immaginazione, che tuttavia continua a mantenere uno statuto incerto. Risalire indietro nel tempo ci permette allora di confrontarci con altre visioni di questo mondo speculare al nostro, mondo interamente segnato dalla potenzialità, che recentemente stiamo provando a piegare ancora una volta in meri termini utilitaristici. Lungi dall’essere un posto inospitale, governato dalla materia inorganica, il sottosuolo nei racconti di Verne è infatti un luogo ricco di vita, pronto ad accogliere la vita del “sovrasuolo”; tutto il contrario di un luogo svuotato che oggi vorremmo riempire per utilizzarlo come deposito di stoccaggio di quanto non sappiamo trattare qui sulla superficie, che non vogliamo più vedere o respirare, come la CO2 in eccesso.

L’approccio di Pinkus, e in generale delle Environmental Humanities, traccia qui una direzione di metodo che definisce i profili di un gesto critico quantomai necessario: più che proporre soluzioni, si tratta infatti di identificare il problema nella sua complessità. Per farlo, però, non basta più rinchiudersi dentro la sfera della “humanities” – per quanto estesa questa possa essere – ma occorre costruire intrecci con i campi scientifici e tecnologici, che a loro volta (come del resto testimoniano le classifiche librarie di questi ultimi anni) fanno ricorso sempre più ampio agli strumenti della narrazione per raccontare e raccontarsi. Nel caso di Subsurfaces, il dialogo tra letteratura del passato e soluzioni ingegneristiche del presente si rivela alquanto interessante proprio perché entrambe ruotano attorno a una preoccupazione comune: immaginare – ciascuna con i propri mezzi – un futuro diverso.

Ma per rivelarsi ancor più proficuo, il sottosuolo deve restare uno spazio del possibile, un luogo di potenzialità narrativa virtualmente illimitata, non costretto dal vincolo energetico della sua infrastrutturazione e del suo sfruttamento a fini industriali: «Finché questo spazio rimane fluido e aperto a differenti possibili futuri, finché è non-colonizzato e non-colonizzabile, c’è una speranza di genere retorico, del genere che deve essere mantenuto perché un certo tipo di scrittura possa continuare» (ivi, p. 175). Nelle storie del sottosuolo il tempo collassa e la narrazione brulica in direzioni inattese: attraverso questo sguardo anacronistico, l’immagine della modernità si presenta a rovescio, facendo del mondo sotto la superficie un punto di vista privilegiato per interrogarsi sui destini del contemporaneo.

Karen Pinkus, Subsurface, University of Minnesota Press, Minneapolis 2023.

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