Il teatro di Shakespeare ha giocato un ruolo importante nella storia dell’opera: prima in forma indiretta, attraverso la mediazione del neoclassicismo francese, poi come modello diretto di una poetica romantica che ricercava la varietà di stili e la potenza emotiva (lo chiarisce un saggio di Fabio Vittorini). In particolare, Shakespeare è stato una presenza costante e quasi ossessiva nell’universo di Giuseppe Verdi, che ha alimentato il suo ideale drammaturgico della parola scenica. Per inaugurare la stagione 2021/2022, che segna – si spera – il ritorno allo spettacolo dal vivo, tre teatri lirici italiani hanno scelto opere tratte da tragedie di Shakespeare, permettendo un confronto fra due capolavori di Verdi, e una novità composta per l’occasione da Giorgio Battistelli. Per chi scrive vedere i tre spettacoli in presenza, dopo tante visioni in streaming, è stata una forte emozione; si tratta di tre allestimenti di grande qualità, che meritano di essere analizzati in parallelo.
Il San Carlo di Napoli ha scelto il capolavoro della maturità di Verdi, quell’Otello composto dopo la lunga crisi creativa rievocata dal bel romanzo di Franz Werfel, frutto di una collaborazione stretta con Arrigo Boito. Della regia di Mario Martone ha già scritto con grande efficacia su queste colonne Bruno Roberti, sottolineandone la potenza cinematografica e la centralità del tema del miraggio. Vorrei solo ricordare che la figura di Otello ha scandito momenti importanti nella ricerca di Martone, autore squisitamente intermediale: nel 1982, nel pieno del passaggio dal mediateatro della nuova spettacolarità al recupero della drammaturgia, mette in scena, nello spazio labirintico del Castel Sant’Elmo di Napoli, un Otello di Verdi totalmente riscritto da Peter Gordon, con una contaminazione fra rock, jazz, e musica etnica; nello spettacolo spiccava una Desdemona sensuale e atipica, mentre il finale di amore e morte era giocato fra Otello e Jago (Alessandro Serpieri ha valorizzato la dinamica maschile latentemente omoerotica come fulcro della tragedia shakespeariana). Nel 2009 Martone mette in scena direttamente l’Otello di Verdi all’Opera di Tokyo, ambientandolo interamente in una Venezia scomposta in spazi multipli, mentre nel primo film della sua trilogia sull’Ottocento, Noi credevamo (2010), un brano orchestrale tratto dalla vicenda interiore di Otello scandisce vari momenti di un film corale sul Risorgimento tradito, ricco anche di citazioni iconografiche dall’Ottocento italiano.
Nello spettacolo del 2021 il nodo cruciale è lo sguardo maschile sul corpo della donna: il tema dunque del femminicidio. Desdemona viene dis-angelicata (anche grazie alla straordinaria forza scenica e vocale di Maria Agresta), mentre il finale romantico è abilmente decostruito: il corpo della protagonista viene portato via dal personale militare dell’accampamento in cui è ambientata la regia, e il monologo finale è così cantato da Otello in solitudine totale (la stessa solitudine iper-tragica in cui Martone ha gettato Violetta nel film-opera della Traviata, 2021), separato dal mondo da un muro di lamiera che è un leitmotiv dello spettacolo. È il monologo allucinato di un nevrotico, splendidamente impersonato da un Jonas Kaufmann privo dell’enfasi di altre prove (l’edizione diretta da Pappano), e potenziato dalla tagliente sottigliezza della direzione di Michele Mariotti.
Alla sua quarta inaugurazione scaligera, e nel pieno di una iperproduttività non sempre convincente, Davide Livermore realizza uno dei suoi allestimenti più riusciti, grazie a una consonanza fra la visionarietà sublime del Macbeth e la sua poetica tecnologica e distopica. Come sempre i video di D-Wok moltiplicano lo spazio, creando effetti onirici che ricordano Inception (Nolan, 2010), e imbastendo una complessa dialettica fra gli esterni metropolitani e gli interni modellati sugli anni venti (come anche i magnifici costumi di Gianluca Falaschi). Il fulcro di questa mobilità incessante e vertiginosa è un ascensore: simbolo polivalente che visualizza l’ascesa al potere della coppia protagonista, ma anche la gabbia oppressiva del destino (a cui si aggrappa disperato Macbeth).
La dimensione soprannaturale, che produce in Verdi una sorta di sublime grottesco, è trascritta sugli schermi e nei moduli dell’immaginario contemporaneo: il primo piano del volto di Banco giganteggia minaccioso nella scena del banchetto, mentre le streghe hanno una femminilità sofisticata e inquietante. Anche in questo caso lo spettacolo si alimenta della sinergia fra parte visiva e parte performativa: Luca Salsi conferma, oltre alle impressionanti doti canore, le sue qualità di attore tragico in grado di scavare a fondo nella drammaturgia della psiche, mentre Anna Netrebko dà vita a una Lady che oscilla fra diva hollywoodiana e signora della criminalità internazionale. Di grande impatto la scena della follia, in cui la protagonista cammina sull’orlo di un muro, sovrastata da un gruppo scultoreo di grande bellezza, esplicitando così il suicidio solo adombrato da Shakespeare: un momento in cui potenza vocale e qualità attoriale sono fuse alla perfezione.
Il Macbeth è una tragedia basata sull’empatia negativa, in cui i personaggi positivi non hanno grande spessore, mentre è assente la dinamica amorosa, in modo anomalo rispetto all’estetica del melodramma. Nell’edizione della Scala la figura del tenore, Macduff, brilla di luce insolita grazie alla bravura eccezionale di Francesco Meli; quanto alla dinamica della coppia, l’eros, già assente nella tragedia di Shakespeare, è sostituito da una sessualità rapida e nevrotica, consumata in ascensore. Questa edizione, come quella sempre diretta da Chailly con la regia di Emma Dante (2017), segue la seconda versione dell’opera, che termina con un coro di liberazione dall’oppressore, ma ingloba anche il primo finale, la morte in scena del protagonista, soluzione più empatica e tragica. La fusione delle due versioni (che si trovava già in un altro mitico Macbeth scaligero, quello diretto da Abbado, 1979) trova una realizzazione efficace ancora una volta grazie all’interazione fra la spettralità dei video e la plasticità della performance.
La scelta dell’Opera di Roma è stata sicuramente coraggiosa: inaugurare con un’opera contemporanea, affidata a un musicista con grande esperienza nel teatro musicale, e capace di una forza comunicativa insolita nella musica contemporanea. Il Julius Caesar di Giorgio Battistelli, su libretto di Ian Burton, fa parte di una trilogia che ha già visto la creazione di Richard III (2007) e che si concluderà con un testo particolarmente arduo, il Pericles, toccando così le tre fasi della produzione shakespeariana, e alcuni dei suoi vertici nell’analisi spietata dell’insensatezza del potere. Anche in questo caso, come nell’opera precedente, Burton ha sfoltito l’opulenza figurale del testo di Shakespeare, mentre la musica di Battistelli ne ha scandito gli snodi drammaturgici con una serie di figurazioni ritmiche. Il regista Robert Carsen ha scelto un’ambientazione contemporanea di essenzialità geometrica, che allude a un’eternità dei meccanismi del potere. La tragedia storica di Shakespeare più ricca di memorie teatrali e cinematografiche (da Mankiewicz ai Taviani) assume così una nuova configurazione stilizzata e straniata, fortemente focalizzata sull’assassinio di Cesare come atto sostanzialmente vacuo.
Snobbate dai musicologi, che vorrebbero una fantomatica fedeltà all’originale, trascurate dai teatrologi, troppo impegnati su altri fronti, le regie d’opera si confermano invece, in questo trittico di spettacoli inaugurali tratti da Shakespeare, un campo con enormi potenzialità simboliche: un momento in cui la cultura contemporanea affronta, rivive e trasforma grandi temi e grandi testi del passato, in una sinergia intermediale che è anche autorialità condivisa: autentica opera d’arte totale.
Riferimenti bibliografici
A. Serpieri, L’eros negato, Liguori, Napoli 2003.
F. Vittorini, Shakespeare e il melodramma romantico, La nuova Italia, Firenze 2000.
Otello. Regia: Mario Martone; scene: Margherita Palli; direzione: Michele Mariotti; musica: Giuseppe Verdi, libretto: Arrigo Boito; orchestra e coro: Teatro di San Carlo; maestro del coro: José Luis Basso; costumi: Ortensia De Francesco; luci: Pasquale Mari; video: Alessandro Papa; interpreti: Jonas Kaufmann, Yusif Eyvazov, Igor Golovatenko, Alessandro Liberatore, Matteo Mezzaro, Emanuele Cordaro, Biagio Pizzuti, Francesco Esposito, Maria Agresta, Manuela Custer; origine: Italia; durata: 180′; anno: 2021.
Macbeth. Regia: Davide Livermore; scene: Giò Forma; direzione: Riccardo Chailly; costumi: Gianluca Falaschi; video: D-Wok; luci: Antonio Castro; coreografia: Daniel Ezralow; interpreti: Luca Salsi, Ildar Adbrazakov, Anna Netrebko, Ekaterina Semenchuk, Chiara Isotton, Francesco Meli, Iván Ayón Rivas, Andrea Pellegrini, Leonardo Galeazzi, Alberto Rota, Guillermo Bussolini; durata: 190′; anno: 2021.
Julius Cesar. Regia: Robert Carsen; scene: Radu Boruzescu; direzione: Daniele Gatti; musica: Giorgio Battistelli; libretto: Ian Burton; orchestra e coro: Teatro dell’Opera di Roma; maestro del coro: Roberto Gabbiani; costumi: Luis F. Carvalho; luci: Robert Carsen, Peter Van Praet; interpreti: Clive Bayley, Elliot Madore, Julian Hubbard, Dominic Sedgwich, Michael J. Scott, Hugo Ymas, Ruxandra Donose, Alexander Sprague, Christopher Lemmings, Christopher Gillett, Allen Boxer, Scott Wilde, Alessio Verna; durata: 155′; anno: 2021.