«Simmel ritrovato» è il sottotitolo della Introduzione a Stile moderno. Saggi di estetica sociale, antologia curata da Barbara Carnevali e Andrea Pinotti. L’aggettivo proustiano è indicativo della scelta dei testi e della proposta, insieme di metodo e di merito, dei curatori. Per richiamare la fine di Il tempo ritrovato, direi che i testi selezionati e, in alcuni casi, presentati al lettore italiano per la prima volta — in assoluto, come La favola del colore, del 1904, scoperto nel 2002 — con varianti e aggiunte delle varie redazioni — come, tra gli altri, Filosofia della Moda e Psicologia del flirt —, sono «come giganti immersi negli anni», appartengano cioè ai momenti storici in cui hanno visto la luce e ai quali altre storie sono venute poi ad aggiungersi.
Fuori di metafora, le pagine simmeliane non sono solo restituite nel loro divenire testuale, ma anche nel loro divenire ermeneutico, ovvero nella storia, articolata e talvolta artificiosa, della loro ricezione. I testi dello Simmel “ritrovato” dal lettore sono come reperti archeologici: non restituiti identici a come erano, ma ricoperti dagli strati di terreno da cui sono stati estratti e ripuliti e senza i quali non sarebbero stati conservati e neppure ci sarebbero giunti. Come scriveva Benjamin in un frammento del 1932, pubblicato postumo con il titolo Scavare e ricordare, la cosa più importante è «indicare nel terreno odierno esattamente il luogo in cui era conservato l’antico» (Benjamin 2012, p. 363) e, per Carnevali e Pinotti, è rivelare nella scena culturale contemporanea il posto e il ruolo di Simmel, è mostrare la sua attualità e la sua storicità.
Benjamin usa una analogia che illustra bene i saggi brevi antologizzati nel volume einaudiano: sono come «gioielli in abiti sobri» (ibidem). E su monili e altri ornamenti mondani possiamo ora rileggere delle pagine finissime ed esemplari dell’«estetica sociale trascendentale» di Simmel (Simmel 2020, p. IX), ben messa in luce dai curatori. Non riducibile ai temi e agli strumenti della sociologia classica, essa è una e trina: è studio tanto delle «qualità sensibili dei fenomeni sociali», quanto delle «forme da cui essi sono configurati» (ivi, p. VI-VII), è cioè insieme filosofia della percezione e dell’a-priori sensibile — e storico — che condiziona l’esperienza, anch’essa sempre storica, ed è filosofia dell’arte e dell’artistico o, meglio, dell’artificazione e dell’estetizzazione, ovvero si occupa sia di opere d’arte, sia di pratiche socio-culturali quotidiane come la moda, la toeletta, le feste o il flirtare, e di quelli che chiameremmo oggetti di design, come un vaso, una sedia, una porta o un accessorio.
Proprio come in Benjamin, anche i saggi brevi di Simmel riproposti da Carnevali e Pinotti non hanno allora tanto e solo un valore intrinseco, contingente o di servizio, per di più offuscato dalle loro interpretazioni talvolta modeste o inadatte come può esserlo un accostamento pacchiano, ma hanno piuttosto un valore relazionale, un valore trans-disciplinare insomma. Si pensi alla brillantezza e all’«alone radioattivo» (ivi, p. 100) del gioiello — la metafora è reinterpretazione del motivo del magnetismo e del vincolo estetico e mimetico del sociale, da Platone a Tarde: tale irradiazione di un valore e di un prestigio che vanno oltre il contesto pratico e il luogo in cui viene mostrato da chi lo indossa, può essere comparato alla luminosità e all’influenza dello stile epistemologico della scrittura micrologica simmeliana, che va al di là del genere e dell’ordine del discorso di riferimento, filosofico e sociologico, e mette in relazione oggetti, strumenti e saperi distanti.
Tuttavia, il “saggismo” di Simmel è stato spesso frainteso e criticato. L'”impressionismo” quasi elzeviristico e non specialistico della sua scrittura è stato additato negativamente da Lukács e Adorno, ma anche da Benjamin e Bloch, e malgrado tutto è restato, magari cambiato di segno, nelle letture contemporanee. Esemplari in questo senso David Frisby e gli interventi nella rivista “Theory, Culture & Society” di Mike Featherstone e Scott Lash, propensi a privilegiare non tanto la tragedia della cultura e il conflitto tra filosofia della vita e reificazione nel tardo Simmel, quanto la frammentazione e la derealizzazione, viste però in chiave post-moderna, quasi come compimento emancipatorio in una estetizzazione diffusa.
I curatori, invece, giustamente ribadiscono il modernismo bifronte di Simmel. Da un lato, goethianamente, per dirlo con le sue parole (Saggi di cultura filosofica, Simmel 1911, p. 8 ss), è sempre «più fedele e più arrendevole ai sintomi delle cose stesse» e, in maniera complementare alla filosofia come «considerazione pensante degli oggetti» (Hegel) e «ritorno alle cose stesse» (Husserl), si rifiuta di rompere definitivamente con «l’approfondimento che muove dalla superficie della vita», nella sua concretezza materiale e storica e con la sua colorazione singolare, e con «il discoprimento dello strato ideale che è sempre sotteso a tutti i suoi fenomeni» sensibili e sociali. Dall’altro, si oppone a fare del linguaggio e dell’arte l’unica forma di vita, insieme epifanica e compensativa, perfino sostitutiva della povertà dell’esperienza moderna.
Dimidiato tra diagnosi del disagio del proprio tempo – incarnato dal blasé, insensibile per la troppa «intensificazione della vita nervosa» (Simmel 2020, p. 403) e la «decolorazione» (Entfärbung) del mondo (ivi, p. 408), descritto già alla fine della Filosofia del denaro — e desiderio di una sfera autonoma, compiuta e individuale di senso — di cui l’opera d’arte resta il modello e l’ideale, tale modernismo si manifesta anche nelle predilezioni e nelle incomprensioni della filosofia dell’arte simmeliana. Si pensi, sul tema del volto e il ritratto, al sempre amato Rembrandt, al recupero della caricatura e alla svalutazione delle forme sfigurate dell’Espressionismo (ivi, pp. 133, 179), irrispettose del principio regolativo e formale, quasi lessinghiano, dell’azione reciproca degli elementi della composizione, e alla liquidazione della fotografia come mera copia meccanica (ivi, p. 174).
Davvero figlia del suo tempo, l’estetica modernista di Simmel, grazie a una storicizzazione del trascendentale e delle condizioni formali e antropologiche dell’esperienza sensibile, ormai materiali e molteplici, è più sobria o, con un’espressione riferita a Kant, più «modesta»: è innanzitutto una estesiologia, intesa come studio delle dinamiche e delle relazioni percettive con l’ambiente e i fenomeni. Di tali relazioni, le leggi formali sono la reciprocità (Wechselwirkung), la limitazione (Begrenzung) e la fissazione (Fixierung), e le esemplarità sono molteplici e complesse ed è grazie alle analisi delle loro stratificate relazioni di senso che estesiologia ed estetica sociale si articolano e confermano reciprocamente, in una circolarità epistemologica e metodologica virtuosa. Non a caso, a sottolineare la distanza dagli studi simmeliani degli ultimi trent’anni, concentrati sul conflitto tra l’intuizione della vita e la vita delle forme culturali, la prima sezione dell’antologia è intitolata «Aisthesis e forme» e raccoglie studi fondativi come Estetica sociologica, Sociologia dello spazio, Sociologia dei sensi, Psicologia dell’ornamento e Il problema dello stile.
Nell’estetica sociale di Simmel, è fondamentale la funzione del limite, inteso come ciò che permette l’interrelazione tra interno ed esterno, identità e alterità, psichico e organico, corpo proprio e ambiente, oggetto d’uso o artistico, manufatto e artefatto, monumento e natura, dunque sensibile e ideale, visibile e invisibile, individuale e prototipo, economico ed estetico, e così via. Tale funzione non è intrinseca e sostanziale, e non è sempre materiale e topologica. È di volta in volta svolta da una cornice, un quadro o un proscenio teatrale, o dall’attore, medio per dire così tridimensionale e in movimento tra arte ed extra-artistico. O da un confine — «non un fatto spaziale con ripercussioni sociologiche, ma un fatto sociologico che assume una forma spaziale» (ivi, p. 41). “Limite” è anche l’ansa di una brocca, una porta, un ponte, una lettera, una rovina, una vetrina di un negozio o un’esposizione di opere d’arte e oggetti industriali, un ornamento e un accessorio, un abito. O, sempre in sintonia con Goethe, un volto, un ritratto, o una caricatura.
Tale funzione di limite non è però impersonificata soltanto da «oggetti relazionali» (ivi, p. IX) — o «oggetti teorici», come li chiamano i curatori con dicitura presa in prestito alla semiotica pittorica di Marin e Damisch —, insomma da cose e dispositivi spaziali che fanno da supporti materiali di una agency sensibile e di un aesthetic labour che producono atmosfere con effetti sociali ed economici. “Limite” è anche atto performativo realizzato da maniere di essere e comportarsi degli individui, «esseri differenziali» (ivi, p. 403) portatori di eccesso ed eccentricità – un Übertreiben antropologico (ivi, p. 342) – impegnati in condotte culturali e in processi di soggettivizzazione e stilizzazione in habitus sociali. Da questo punto vista, è con queste pagine di Simmel che possono ancora dialogare gli studi contemporanei sull’Everyday Aesthetics e l’estetica dell’esistenza di stampo foucaultiano.
Per averne un’idea, si pensi al flirt, paradigma della fenomenologia ancipite del mostrare nascondendo, come nel segreto, nella discrezione, nel pudore e nella vergona, e in altri fenomeni non delimitabili alla sola cultura femminile, cui Simmel ha dedicato molta attenzione, e oggi, nell’epoca della cultura della privacy e dei social media, della sorveglianza e della trasparenza, davvero attuali. Oppure si risenta il cattivo odore del sudore di un nostro vicino, e si coglierà subito l’olfatto come senso morale e sociale – descritto in sintonia con Nietzsche (ivi, p. 96 ss) —, di cui, per fare un solo esempio, Parasite mostra tutta l’importanza nelle relazioni mimetiche tra individui lontani per censo e ceto — tema brillantemente affrontato altrove dalla Carnevali (Le apparenze sociali, 2012), tra Simmel e Girard.
Si pensi, finalmente, allo stile, inteso come «forma a-apriori dell’individuazione» (ivi, p. XIV) e come condizione di possibilità e forma sensibile di un’esistenza. Uno “stile” non è sempre esibito in maniera esplicita – come accade per un artefatto artistico, un abito o un accessorio alla moda, per un luogo pubblico o privato, o un paesaggio (ivi, p. 337) –, ma anche dato tacitamente per implicito e in comune — come succede nelle forme estetiche e ludiche di socievolezza mondana, kantianamente fini a stesse e affini all’opera d’arte e al gioco (ivi, p. 264 ss). Se Simmel descriveva le buone maniere dei salotti dell’Ancien Régime, oggi, suggeriscono i curatori, avrebbe prestato attenzione alla cosiddetta “netiquette” e alla contemporanea «Geselligkeit mediatica» dei social (ivi, p. 196). Condizioni e forme, appunto, dello stile di vita del nostro tempo.
Ritorniamo allora al titolo dell’antologia: Stile moderno. Saggi di estetica sociale. La formula, volutamente ambigua nell’aggettivazione, insieme soggettiva e oggettiva, indica allo stesso tempo lo “stile Simmel”, la maniera del suo fare filosofia ed estetica sociale, e lo stile del suo oggetto, le forme in cui la modernità si manifesta ai sensi e all’esperienza e a partire dalle quali si offre al senso e all’intelligibilità. Entrambi, ancora possono offrirci materiali e strumenti preziosi — come dei gioielli ritrovati — per la comprensione del nostro presente.
Riferimenti bibliografici
W. Benjamin, «Scavare e ricordare» (1932), trad. it. di Emanuela Boccagni, in Aura e choc. Saggi sulla teoria dei media, a cura di Andrea Pinotti e Antonio Somaini, Einaudi,Torino 2012.
B. Carnevali, Le apparenze sociali. Una filosofia del prestigio, Il Mulino, Bologna 2012.
G. Simmel, Stile moderno. Saggi di estetica sociale, a cura di B. Carnevali e A. Pinotti, Einaudi, Torino 2020.