Quando si entra in teatro per prendere posto, si notano i lembi del sipario di velluto rosso che ricoprono una forma umana come fossero un lenzuolo. E in effetti lentamente proprio come un lenzuolo quei lembi vengono sollevati dalle mani in una sorta di risveglio, mentre si apre il sipario scoprendo un uomo adagiato su un canapè, in canotta e pantaloncini. Intanto si illumina l’interno delabrè di un salotto altoborghese: poltrone Luigi Filippo napoletano, una consolle, un lampadario di Murano di vetro azzurro, un quadro con cornice dorata che raffigura una marina, un pianoforte, spartiti musicali, tappeti persiani.
Questa la silente, assorta, ouverture di Stanza con compositore, donne, strumenti musicali, ragazzo, testo inedito per il teatro di Fabrizia Ramondino (che insieme a Anna Maria Ortese e ad Elsa Morante costituisce la triade luminosa e intensa delle grandi scrittrici del nostro Novecento), messo in scena al Teatro San Ferdinando per il Teatro di Napoli da Mario Martone, con la collaborazione di Ippolita Di Majo. La frequentazione e lo scambio creativo tra Martone e Ramondino risale al periodo del suo film d’esordio Morte di un matematico napoletano (1992), quando il regista propone alla scrittrice di scrivere con lui la sceneggiatura di quel film dedicato all’ultima settimana di vita prima di suicidarsi del geniale matematico Renato Caccioppoli. In quel periodo la Ramondino si appassiona alla scrittura drammaturgica attraverso cui filtra e radica un riflesso autobiografico cesellato in una lingua fluida, complessa, ricca di echi e di sonorità, pregna di immaginazione e di assonanze a volte lievi e a volte violente, versificata con cadenze dolci, apodittiche e caustiche insieme.
Così per Terremoto con madre e figlia che nel 1993, a un anno dal suo primo film, Martone mette in scena, così per Villino bifamiliare allestito da Arturo Cirillo nel 2022 sempre per il Teatro di Napoli, e così per questo Stanza con compositore, donne, strumenti musicali, ragazzo, che si inserisce in un ciclo di messinscene che il direttore dello Stabile napoletano, Roberto Andò, ha deciso di dedicare agli inediti drammaturgici della Ramondino.
In apertura del testo la scrittrice napoletana dà una indicazione significativa: «Luogo: Un fatiscente salotto napoletano. Tempo: Il compositore dà il tempo». Infatti quell’uomo che si risveglia in quell’interno è il compositore del titolo. L’uomo sul canapè stringe nel pugno una bacchetta da direttore d’orchestra ma questo suo presentarsi come tale rivolto al pubblico («Mai ho composto seguendo un motivo conduttore […] Associazioni invece regolano i nessi musicali / Libertà compositiva») ha in tutta evidenza delle implicazioni insieme metateatrali e metapsichiche: come se con una sorta di “bacchetta magica” facesse apparire, estraesse dalla sua mente, i personaggi di un suo intimo ‘teatro della memoria”.
Un “teatro familiare” (dentro cui come in uno specchio oscuro la Ramondino evoca e metaforizza il suo stesso groviglio autobiografico). E quei personaggi sono lì in scena, già seduti, pronti a prender vita e movenza e parola come in una “sonata di spettri”. Le figure familiari coincidono con la “famiglia” degli strumenti. A ciascuno di loro il compositore attribuisce la forma e la voce di uno strumento musicale: la madre è il violino, la madre della figlia è la viola, la figlia è il violoncello, il ragazzo è il contrabbasso, e li introduce, li presenta agli spettatori ai quali si rivolge in continui “a parte”, facendo rimbalzare la sua parola riflessiva sui dialoghi che intrattiene con i personaggi. Prende avvio così una orchestrazione di voci che si incarnano in un teatro della mente, interagendo con una sorta di flusso di coscienza del compositore, il quale interloquisce con quelle presenze che affiorano dai suoi pensieri, dai suoi ricordi e si attualizzano sulla scena.
Martone e Di Majo compongono e scompongono questo monologo-dialogo disponendolo come fosse una partitura tutta condotta sulla musicalità recitativa che da metafora mentale prende corpo nella carne viva delle attrici e degli attori e si interseca in uno spazio insieme concreto e fantasmatico. Gli incontri con le figure familiari diventano un corpo a corpo dialogico secondo una linea di “forma sonata”, di un concertato che si snoda cadenzato da tre interludi corrispondenti ai tre atti, in forma di chiusura-apertura del sipario (che diventa così una specie di corrispettivo delle intermittenze di memoria, della reverie del compositore).
Ogni volta che si passa da un movimento all’altro, proprio come nell’esecuzione dello spartito di un quartetto o di un trio dove v’è un silenzio tra la fine di una parte e l’attacco di un’altra, qui, quasi a invertire le funzioni di parola e musica, entra in campo un segno musicale, una pausa sonora (la melodia struggente di una canzone napoletana, un pezzo per pianoforte predisposto come un susseguirsi di attacchi). Così come dice a un certo punto il compositore: “Il nostro mondo è appena l’accenno di un attacco musicale o di nervi”, ogni incontro sopravviene come un “ritorno del rimosso” che squarcia il mondo di rapporti tormentati, conflittuali che ha intessuto la vita di quell’uomo. È stupefacente l’aderenza a quel parlare della e nella propria mente e insieme a quell’ingaggiare un dialogo sferzante, ironico, sofferto, talvolta venato di amarezza e di dolce tristezza, talvolta oscurato da soprassalti di dolore, con le figure che prendono corpo dalla memoria, con cui un attore supremo come Lino Musella dà letteralmente voce e gesto tutt’assieme, facendo risuonare una eco interiore nella sonorità musicale del suo timbro vocale, come estratta dal profondo dei suoi nervi.
Le voci degli strumenti si susseguono incarnate da un formidabile ensemble attoriale che si va declinando via via intorno alla performatività conferita rispettivamente: alla madre invadente e fatua, “Voce di soprano la più acuta delle voci femminili” (giocata da una Iaia Forte autoironica nella sua gestualità tutta riversata negli atteggiamenti vanesi e nelle pose affettate, negli acuti allusivi); alla madre della figlia come invasa da una malinconia cupa, “Voce di contralto la più grave delle voci femminili” (una Tania Garribba che gioca con i toni di uno sfumato rimpianto); alle apparizioni lievi e danzanti della figlia, “Voce di mezzo soprano […] Strumento sensuale corposo colorato incline a un canto ora leggero e di agilità ora melodicamente appassionato”, e del suo ragazzo, “Voce di baritono intermedia tra tenore e basso sonorità rotonda drammatica grave rauca asciutta” (affidati ai giovanissimi India Santella e Matteo De Luca, che giocano il loro irrompere sulla scena del ricordo con indifesa spontaneità e naturale sensualità, sintetizzate dai passi di un tango innamorato pervaso di innocente erotismo, cui li ha addestrati una attrice-danzatrice come Anna Redi).
Alla tessitura delle voci e degli spazi, al fluire monologante di una solitudine circondata dai fantasmi di una vita, al ritmo dialogico di questa sorta di “gruppo di famiglia in un interno”, la regia conferisce una attenzione estrema, un disegno cesellato, lavorando sulle dissonanze e le consonanze di un’orchestrazione attorica puntuale e precisa e sul lento depositarsi di segni spaziali. Lo spazio è concepito come una sorta di “camera d’ascolto”, l’estroflessione, affastellata di suppellettili e mobilia, di un luogo spiritico che via via si va svuotando, ogni volta che quegli spettri della memoria svaniscono dopo aver suonato in duetto-duello con il compositore, sostituiti dalle sagome lignee (disegnate da Ernesto Tatafiore) dello strumento musicale che era stato loro attribuito.
Tocca alla figura di un “factotum” (un sornione Totò Onnis) sgombrare quello spazio portando via mobile per mobile fino al lampadario: è il movimento dello svanire, del cancellare dai ricordi a poco a poco quelle parole scambiate con i personaggi interiori in un marivaudage che sostituisce alla sottigliezza ragionante una disperazione amara. La Chamber Music si espande mentre si sgretola e viene in mente l’incipit dei versi giovanili di James Joyce (cui un Martone giovanissimo si era ispirato per una delle sue prime performance che aveva appunto il titolo joyciano di Musica da camera, 1978 ):
Archi fra i cieli e le terre/Fanno musiche miti;/Archi dove il fiume scorre/Tra i salici riuniti/Musica va lungo il fiume/Dove s’aggira l’Amore,/Sui capelli le foglie brune,/Sul mantello un pallido fiore/Tutto leggero suonando,/Col capo alla musica intento,/Le dita vanno vagando/Lungo uno strumento (Joyce 2022, p.3).
Questo ripercorrere a passo di musica le cadenze animiche di un “ritorno del rimosso”, in un incessante dialogo mentale che trascorre con il tocco ora assorto ora furente delle dita sulla tastiera di un pianoforte, non può non ricordare le immagini, cadenzate dal Notturno op. 15 n. 2 di Chopin, in quel Morte di un matematico napoletano scritto da Martone con la Ramondino. Così come analogo all’atteggiamento del ritrarsi dalla vita del matematico Caccioppoli risulta quella decisione finale del compositore di non dirigere più il tempo, di non dare più l’attacco alla “sonata di fantasmi” della sua memoria, al risucchio dei ricordi : «Se si imprigiona l’uomo non si imprigiona la musica. Suono e sono solo per voi cari amici. Solo per voi sono e sòno (Inizia a dirigere. Improvvisamente getta la bacchetta in terra) Non suono per questi maiali. Per questi maiali non sono».
Eppure è proprio il riattivare quella singolarità immanente che è la vita, una vita, fatta di carne e voce, a dischiudere in scena un interieur affettivo e doloroso, riversato nell’acutezza sofferta del suo acido e dolce riflettere, e riflettersi, nello specchio della musica della vita, a far risonare quelle note che provengono come da un’altra stanza: la camera della memoria.
Riferimenti bibliografici
J. Joyce, Musica da camera, Castelvecchi, Roma 2022.
Stanza con compositore, donne, strumenti musicali, ragazzo di Fabrizia Ramondino. Adattamento e regia: Mario Martone, in collaborazione con Ippolita Di Majo; scene: Mario Martone; costumi: Ortensia De Francesco; contributi di: Ernesto Tatafiore (strumenti musicali), Pasquale Scialò (sinfonia degli attacchi), Anna Redi (tango); luci: Cesare Accetta; interpreti: Lino Musella, Iaia Forte, Tania Garribba, Totò Onnis, India Santella, Matteo De Luca; produzione: Teatro di Napoli – Teatro Nazionale; durata: 70′; anno: 2023.
Fotografia di Mario Spada.