«Riconosciamo a noi stesse la capacità di fare di questo attimo una modificazione totale della vita. Chi non è nella dialettica servo-padrone diventa cosciente e introduce nel mondo il Soggetto Imprevisto» (Lonzi 2023, p. 60). È questo «soggetto imprevisto» il tema di Sputiamo su Hegel, un soggetto che è imprevisto perché non esisteva, prima della sua comparsa, uno schema discorsivo e sociale che ne avesse già definito i caratteri. Sei donna, e allora sarai madre e moglie, sei uomo, e allora sarai marito e padre. Il soggetto imprevisto, invece, è imprevedibile, è una sorpresa, ogni volta è un’avventura. Per questo si deve (ancora) sputare su Hegel, perché la soggettività che ciascuno di noi deve costruire non può più essere definita dall’altro perché «la donna non va definita in rapporto all’uomo. Su questa coscienza si fondano tanto la nostra lotta quanto la nostra libertà» (ivi, p. 13).
Sputare su Hegel significa rifiutare la dialettica servo-padrone, ossia lo scontro mortale del servo con il padrone per prenderne il posto:
Non c’è dubbio che la liberazione della donna non può rientrare negli stessi schemi: sul piano donna-uomo non esiste una soluzione che elimini l’altro, quindi si vanifica il traguardo della presa del potere. La vanificazione del traguardo della presa del potere è l’elemento che distingue la lotta al sistema patriarcale come fase successiva e concomitante a quella dialettica del servo-padrone (ivi, p. 29).
Il soggetto imprevisto non vuole prendere il posto del patriarca, non vuole mettersi al suo posto, piuttosto «rappresenta l’abbandono della cultura della presa del potere» (ivi, p. 44). Il femminismo non sa che farsene del potere.
Per Carla Lonzi – e in questo il suo pensiero è oggi ancora più attuale che al tempo della prima uscita del libro, nel 1970 – non si tratta di chiedere per la donna le posizioni finora riservate agli uomini, ossia appunto prenderne il posto senza però rovesciare la logica di potere (il patriarcato) che si basa sulla sua sottomissione. Una donna generale manda a morire i soldati tanto quanto un generale uomo, così come una donna manager dirige un’azienda in base agli stessi meccanismi capitalistici che segue un uomo, così come una prima ministra come Margaret Thatcher governa esattamente come avrebbe governato un uomo. Il femminismo di Carla Lonzi non cerca il potere, perché «il femminismo è stato il primo momento politico di critica storica alla famiglia e alla società» (ivi, p. 16). Non si tratta di mettere la donna al posto dell’uomo, si tratta di immaginare un «soggetto imprevisto» che non ha più bisogno dello sguardo dell’altro per definire sé stesso. È in questo contesto che acquista tutto il suo valore liberatorio e creativo la pratica dell’autocoscienza come modo radicalmente alternativo di costruzione del «soggetto imprevisto»:
L’autocoscienza femminista differisce da ogni altra forma di autocoscienza, in particolare da quella proposta dalla psicoanalisi, perché riporta il problema della dipendenza personale all’interno della specie femminile come specie essa stessa dipendente. Accorgersi che ogni aggancio al mondo maschile è il vero ostacolo alla propria liberazione fa scattare la coscienza di sé tra donne, e la sorpresa di questa situazione rivela sconosciuti orizzonti alla loro espansione. È in questo passaggio che viene fuori la possibilità dell’azione creativa femminista: è nell’affermare se stessa, senza garantirsi la comprensione dell’uomo, che la donna raggiunge quello stadio di libertà che fa decadere il mito della coppia per quanto aveva di tensione verso un essere da cui dipende il proprio destino (ivi, p. 142).
Ma se nel 1970 questa pratica di costruzione collettiva di sé era una esclusiva pratica di donne per le donne, oggigiorno vale ancora così? E soprattutto, a che titolo un uomo – e qui si comincia a individuare un possibile movimento oltre Carla Lonzi – può affrontare questi temi? Un uomo, un maschio, ossia un rappresentante, che lo voglia o no, del potere patriarcale? «Non riconoscendosi nella cultura maschile, la donna le toglie l’illusione dell’universalità» (ivi, p. 19). È questo il punto decisivo, l’illusione della “universalità”. Non esiste l’uomo, esistono le donne e gli uomini. Ma questo non basta ancora per liberarsi dalla illusione della universalità. Se prima c’era un solo universale, ora ce ne sono due, la donna e l’uomo (che non può più pretendere per sé la condizione di uomo, appunto). È un cambiamento, è indubbio, ma è davvero così radicale?
«Quella tra donna e uomo è la differenza di base dell’umanità» (ivi, p. 23) scrive Carla Lonzi. Non è pericolosamente universalistica questa affermazione, da un lato le donne dall’altro gli uomini? Qui si tratta di usare fino in fondo il dispositivo liberatorio costruito da Carla Lonzi, anche se questo stesso dispositivo potrà essere usato per andare oltre il suo pensiero. Non assistiamo forse oggi ad un fiorire di identità creative che non si riconoscono più in questa “differenza di base”? Oppure pensiamo allo sviluppo, impensabile solo pochi decenni fa, delle tecnologie riproduttive, che sempre più stanno separando la riproduzione della specie dalla distinzione fra i sessi (è di poche settimane fa la notizia sconvolgente pubblicata su “Nature” che un gruppo di ricercatori del Weizmann Institute of Science di Israele è riuscito ad ottenere in laboratorio modelli di embrioni umani artificiali “completi”. Embrioni ottenuti a partire da cellule staminali, senza l’impiego di cellule uovo e spermatozoi).
Proviamo a leggere questi sviluppi attraverso il fondamentale concetto di «soggetto imprevisto»: «Il mondo dell’uguaglianza», scrive Lonzi, «è il mondo della sopraffazione legalizzata, dell’unidimensionale; il mondo della differenza è il mondo dove il terrorismo getta le armi e la sopraffazione cede al rispetto della varietà e della molteplicità della vita» (ivi, p. 23). Perché ricondurre a forza la “varietà” e “molteplicità della vita” entro solo due universali, donna e uomo?
Si tratta allora di provare a proseguire il percorso avviato da Carla Lonzi, un movimento in cui la diversità va costruita non a partire dallo sguardo dell’altro (e tantomeno dalla «differenza di base»), ma vada piuttosto affermata di per sé, in quanto pura differenza:
La donna non è in rapporto dialettico col mondo maschile. Le esigenze che essa viene chiarendo non implicano un’antitesi, ma un muoversi su un altro piano. Questo è il punto su cui più difficilmente arriveremo a essere capite, ma è essenziale che non manchiamo di insistervi (ivi, p. 54).
Proviamo a mettere al posto di «donna» il concetto di «soggetto imprevisto» da cui siamo partiti: il lavoro dell’autocoscienza collettiva permette a quel soggetto che non sa che cos’è proprio perché è imprevisto, di «muoversi su un altro piano». Il punto decisivo è che questo lavorio vale per la donna come per l’uomo (anche per chi scrive queste note, che per questo si è permesso di scrivere su Carla Lonzi), ma vale soprattutto per tutti gli innumerevoli soggetti imprevisti che non smettono di prendere la parola: «Questa è la posizione del differente che vuole operare un mutamento globale della civiltà che l’ha recluso» (ivi, p. 23).
La «posizione del differente», la posizione di chi non chiede di essere riconosciuto in quanto differente da, cioè rispetto ad una qualche norma sociale preesistente, bensì in quanto differente in sé. È allora la «posizione del differente» il tema di questo libro, una differenza non dialettica, ma affermata in modo positivo e appunto non differenziale. Ed è evidente che la «posizione del differente» può essere assunta da una donna, ma anche da un uomo, da chiunque voglia affermare la propria differenza. In questo senso il femminismo di Carla Lonzi assume un valore effettivamente universale, come dispositivo affermativo della differenza, di tutte le differenze. Per questa ragione «la donna afferma che la vita deve ancora iniziare per lei sul nostro pianeta. Vede dove l’uomo non vede più» (ivi, p. 57).
Ma che cosa vede la donna che l’uomo, cioè lo pseudo universale uomo, non riesce più a vedere? Vede che «la vita deve ancora iniziare per lei sul nostro pianeta», ma in realtà lo vede per tutte e tutti, e lo vede anche per il pianeta stesso, che una volta messo in questione il nesso patriarcato-potere non potrà più essere impunemente chiamato il “nostro” pianeta: «L’uomo ha cercato un senso della vita aldilà e contro la vita stessa; per la donna vita e senso della vita si sovrappongono continuamente» (ivi, p. 58-59).
Inteso in questo modo il femminismo è un dispositivo di pensiero che parte dal femminile non per costruire un nuovo universale, la donna, bensì per scegliere le pretese universalistiche delle identità costituite. Liberare il «soggetto imprevisto» dalla famiglia, dall’Edipo (il femminismo non può che essere critico di quella psicoanalisi che riporta tutto a mamma e papà), dal desiderio della «presa del potere».
Ma questo femminismo, infine, quanto si allontana da quello di Carla Lonzi? In realtà non se ne allontana affatto, perché se cade l’universale non rimane che la costruzione della propria libertà. Lo dice la stessa Carla Lonzi, nella Premessa del suo Diario di una femminista:
Avevo bisogno di tirare fuori tutto il mio dissenso sull’immagine in cui mi sentivo costretta a essere vista dagli altri: inespressa e felice di rappresentare qualcosa, non me stessa. Questo vanificava i miei sforzi di comunicare, cioè mi vanificava, mi impediva di esistere. Adesso esisto: questa certezza mi giustifica e mi conferisce quella libertà in cui ho creduto da sola e che ho trovato il mezzo di ottenere. Tutte le distinzioni, le categorie che esprimevano appunto il costituirsi della mia identità a partire dal dissenso - non vedevo altra via in quanto donna - non mi appartengono più: faccio ciò che voglio, questo è il contenuto che mi appare in ogni circostanza, non aderisco ad altro che a questo (1978, pp. 3-4).
Riferimenti bibliografici
C. Lonzi, Taci, anzi parla. Diario di una femminista, Scritti di rivolta femminile, 1978.
Carla Lonzi, Sputiamo su Hegel e altri scritti, La tartaruga, Milano 2023.