Era il 2019 quando accadde qualcosa che forse in pochi aspettavano, ma molti speravano: dopo sette anni, l’Oscar al Miglior Film d’Animazione venne attribuito ad un lungometraggio non uscito dagli Studios di Burbank o di Emeryville. Ma, in realtà, non servono statuette o nomination per riconoscere come lo Spider Man impersonato da Miles Morales rappresenti il cambiamento, l’evoluzione attrazionale che l’animazione digitale insegue e anela dai suoi primordi.
Spider-Man: Across the Spider-Verse, secondo capitolo del multiverso prodotto da Sony Pictures Animation in collaborazione con Marvel Entertainment, pone l’accento sulla definizione di attrazione e spettacolo visivo, accelerazione particellare di narrazione e visione, in cui la scelta di utilizzare l’animazione ibrida che mescola tecnologia computerizzata con la ruvidezza del tratto tradizionale riconvertono la fruizione in un costante assemblaggio emozionale e semantico.
Miles Morales, divenuto Spider Man accidentalmente dopo essere stato morso da un ragno radioattivo proveniente da Terra-42, inizia a padroneggiare i suoi poteri e a contribuire all’ordine della città, combattendo però con la sfida più grande per un ragazzo della sua età: l’adolescenza e l’affermazione di se stesso. Parallelamente, il “Canone” del multiverso è insidiato dagli sconvolgimenti che minano la stabilità di un ordine preimposto e sempre ricorrente, in cui Miles è uno degli agenti principali: non sarebbe mai dovuto diventare Spider Man.
Se il primo capitolo era caratterizzato da una costruzione funzionale alla rappresentazione di un film che coniugasse animazione e fumetto in forma ibrida, attraverso la pannellizzazione delle inquadrature o all’utilizzo del passo due (mantenere un singolo fotogramma al posto di due o tre, riducendone a 12 al secondo anziché i 24 canonici), Spider-Man: Across the Spider-Verse punta ad un’esplicita sovrastimolazione percettiva affidata al vertiginoso incedere della macchina da presa e al colore.
Le suggestioni visive suggerite dal continuo rimando cromo-sintattico ad appartenenze stilistiche e morfologiche differenti si legano indissolubilmente non solo alla moltitudine di registri narrativi, ma soprattutto all’ontologia del linguaggio dell’animazione: il cambiamento, la mutevolezza delle forme e delle estetiche. Il secondo capitolo della serie sullo Spider-Verse si configura dunque, da una certa prospettiva analitica, come manifestazione empirica di ciò che l’animazione ha voluto da sempre rincorrere, fin dalle sue origini filmiche.
La Fantasmagorie (1908) di Émile Cohl nasce come impeto propulsivo al movimento, all’evoluzione costante di forme e e simboli, che da tale avvicendarsi dànno origine a nuovi segni e significati, sintomo di una stratificazione plurima di immagini in grado di conferire vita propria a soggetti e oggetti inanimati. Così anche lo sconfinamento in multiversi simbiotici, accumunati dai destini narrativi, si manifesta come possibilità del mezzo cinematografico di creare un panorama di ibridazioni sintattiche, linguistiche, tecniche e tecnologiche: l’animazione, in una tale configurazione, si appropria di registri linguistici affini ma mai omogenei, intessendo un caleidoscopio di elementi visuali che stimolano lo spettatore e lo assorbono in un vortice di suggestioni estetiche imperniate sulla matericità del colore e della forma filmica.
La tecnica dell’animazione ibrida è sintomatica di una volontà decostruttiva e al contempo generativa di qualcosa di potenzialmente infinito, tanto che «da tale continua frammentazione di linguaggi, stili e contenuti deriva una tendenza alla fusione, alla sovrapposizione e, infine, alla sparizione dei generi tradizionali per lasciare il posto alla nascita di un unico, onnicomprensivo meta-genere» (Maio, Uva 2003, p.19). Il compositing diventa, dunque, la chiave di volta per dischiudere il senso ultimo della narrazione e ciò che riesce a far corrispondere l’intima complessità del reale con la stratificazione materica dei livelli testuali ed estetici: elementi dal vero che si fondono con quelli pittorici, multiversi paralleli che si contaminano a vicenda, differenti manifestazioni dello stesso eroe accumunati da poteri e destini, ma divergenti nella conformazione visiva, caratteriale, razziale e di genere.
Il Canone, nemico del libero arbitrio e status quo narratologico attraverso il quale i multiversi si manifestano continuamente ed indifferentemente, può essere inteso sia nella concezione hollywoodiana classica come insieme di regole a cui il cinema deve conformarsi, sia come critica metanarrativa da combattere se si vuole creare il rinnovamento narratologico a cui i protagonisti di Spider-Man: Across the Spider-Verse anelano. La costruzione formale sembra convergere verso quest’ultima, se si considerano fattori determinanti a livello metaforico come la narrazione complessa e multiprospettica e soprattutto la tecnica dell’animazione ibrida attraverso cui lo spettatore è continuamente stimolato, trasformando addirittura la sua posizionalità e la sua staticità fruitiva in una diversa contestualizzazione immersiva, in cui il colore è padrone e veicolo principale.
Le gradazioni cromatiche sono la consistenza materica dell’inquadratura, denso collante che racchiude l’essenza dell’immagine e trascina i protagonisti attraverso i mondi paralleli. Il colore funge da metafora per indicare l’astratto e il mescolamento di piani agli antipodi che si toccano solo a livello fenomenologico: una tavolozza informe che si amalgama, tutto ingloba e riscrive in modo differente. È l’elemento informe, che non può essere controllato neanche dagli animatori, ma solo dalle differenti versioni di Spider Man, che possono agire attivamente all’interno della storia e manipolare la materia narrativa e definire quella visuale.
Da tale punto di vista, la narrazione corale si esplicita come racconto plurimo che si definisce in corso d’opera attraverso momenti di stasi e di concitata azione, che permettono alla narrazione di equilibrarsi continuamente rendendo omogenea la diegesi, e tratteggiando profili soggettivi differenti: ogni Spider Man è caratterizzato da un’estetica differente, ognuno di loro racchiude vite e traumi affini, ma mai speculari.
Sconfinando da una dimensione all’altra, alla ricerca di un riconoscimento identitario negato dal suo essere eternamente personaggio secondario, Gwen Stacy è in questo secondo capitolo dello Spider-Verse centrale nel rincorrere e definire le possibilità che il gioco di contrasti visuali dischiude attraverso l’ibridazione delle forme. “In ogni universo Spider Man si innamora di Gwen Stacy, e ogni volta va a finire male”: ribadire ininterrottamente il dogma della reiterazione delle forme narrative e farlo attraverso la bocca della co-protagonista diventa finalmente sintomo di disgregazione e presa di coscienza della fallibilità della linearità ferrea dell’intreccio.
Spider Woman è colei che avvia il processo diegetico del film – è lei la prima a comparire nella primissima inquadratura – e definisce l’inizio dell’incursione di Miles Morales nella catena di cambiamenti alla struttura narratologica degli universi. La voglia di affermazione delle proprie scelte e della propria libertà si scontrano con il bisogno di accettazione da parte del padre e dei suoi mentori. La ruvidezza palpabile degli sfondi che caratterizzano il mondo di Gwen e la disgregazione consequenziale dell’iconografia che circonda la protagonista è sintomatico della dissoluzione della sicurezza riguardo il proprio Io, la propria missione e la specifica posizionalità nel locus di appartenenza. Lo sconfinamento attraverso il multiverso è quindi il passo finale per riappropriarsi della definizione di eroina: l’accettazione dell’identità femminile è conseguente all’incontro con Miles Morales, e corrisponde inevitabilmente con l’esplicazione della nettezza visuale affidata alla definizione estetica imperniata sull’animazione ibrida che caratterizza Terra-1610. Miles rappresenta il punto di partenza per la definizione di Gwen, il perno identitario di cui necessita per definirsi come individuo cosciente delle proprie possibilità e della legittimità delle proprie scelte.
Mescolando registri stilistici e narrativi, coniugando l’animazione tradizionale con quella digitale attraverso l’implementazione delle forme estetiche in un’unica matrice sintattica, si definisce così la rappresentazione multiprospettica delle differenti incidenze identitarie, in cui gli Spider Man sono i tasselli della definizione di un multiverso da esplorare, costruire e riordinare, probabilmente andando “oltre” la concezione classica di animazione come semplice assemblaggio di fotogrammi.
Riferimenti bibliografici
B. Maio, C. Uva, L’estetica dell’ibrido. Il cinema contemporaneo tra reale e digitale, Bulzoni Editore, Roma 2003.
T. O’Hailey, Hybrid Animation: Integrating 2D and 3D Assets, Routledge, Londra 2014.
Spider-Man: Across the Spider-Verse. Regia: Joaquim Dos Santos, Kemp Powers, Justin K. Thompson; sceneggiatura: Phil Lord, Christopher Miller, David Callaham; montaggio: Mike Andrews; musiche: Daniel Pemberton; interpreti: Shameik Moore, Hailee Steinfeld, Jake Johnson, Oscar Isaac, Jason Schwartzman; produzione: Sony Pictures Animation, Columbia Pictures, Marvel Entertainment; distribuzione: Eagle Pictures; origine: Stati Uniti d’America; durata: 140’; anno: 2023.