この森にはまだトトロがいるのです
In questa foresta c’è ancora Totoro

Nelle prime scene di Il mio vicino Totoro vediamo un’automobile attraversare un paesaggio di campagna, è la famiglia Kusakabe che si sta trasferendo in una vecchia casa circondata dal verde e davanti alla quale sorge un imponente albero di canfora. In pochi minuti siamo già così visivamente immersi nel mondo e nel paesaggio del satoyama. La parola è formata dai due ideogrammi 里 “sato”, che indica villaggio, e 山 “yama”, montagna, ma che qui ha un valore più ampio per indicare anche foreste e colline. Il termine fra i suoi molti significati indica un modo di intendere il territorio come un mosaico di campi coltivati, laghetti, boschetti, rigagnoli e villaggi che, posti l’uno accanto all’altro, formano un arazzo dove cultura e “natura” si compenetrano (il termine “natura” va qui virgolettato, vedremo più avanti il perché). Si tratta quindi di un paesaggio “naturale” derivato dal lavoro secolare dell’uomo, dove cioè l’elemento umano e di modificazione del territorio si è sviluppato fianco a fianco a quello selvatico.

Il paesaggio del satoyama è spesso stato utilizzato anche nel mondo del cinema come sfondo su cui si svolge l’azione principale e anche come simbolo della vita di campagna o quella naturale in contrapposizione a quella urbana, specialmente quella sviluppatasi dagli anni sessanta del secolo scorso in poi. È in questo periodo infatti che l’accelerazione economica e di modernizzazione dell’arcipelago porta ad una forte urbanizzazione e ad una piuttosto netta contrapposizione fra vita di città e vita di campagna, anche se quest’ultima è essa stessa campo di modernizzazione a causa dell’avvento di un’agricoltura industriale mossa da grandi capitali.

Esistono moltissimi documentari e programmi televisivi giapponesi che indagano e spiegano questo fenomeno culturale e paesaggistico. Molti sono interessanti e cercano di soffermarsi sulle varie esperienze peculiari in singoli luoghi. Altri ancora spesso ricadono nel passatistico o in una esaltazione della campagna come luogo nostalgico e legato ad un tempo remoto da visitare nel tempo libero. Anche in animazione sono molti gli esempi in cui il paesaggio del satoyama è stato rappresentato, e due dei lavori più significativi provengono dallo Studio Ghibli. Il mio vicino Totoro, diretto da Hayao Miyazaki nel 1988 e Only Yesterday/Pioggia di ricordi di Isao Takahata, uscito nel 1991. Questi due lungometraggi sono un luogo privilegiato per riflettere sul significato di satoyama e tutte le implicazioni che ne derivano, non solo perché questo paesaggio natural-culturale è qui ampiamente rappresentato, ma soprattutto in quanto è anche una profonda esplorazione della filosofia su cui esso si fonda.

Prima di procedere, è necessario soffermarsi su un elemento linguistico che è molto importante per ragionare sul discorso che stiamo cercando di fare (tutto questo paragrafo è ispirato alle riflessioni sul tema fatte da Marcello Ghilardi, in particolare in occasione di “Accenti 2019” – Il Giappone spiegato con parole sue). “Natura” o “naturale” in giapponese si traducono con shizen, ciò che denota spontaneità e naturalezza, ciò che accade e si dà in maniera spontanea (più che natura come qualcosa di opposto all’artificiale), tanto che anche le opere d’arte e le cose fatte dall’uomo possono essere definite shizen, spontanee, naturali. Il termine denota anche «l’atteggiamento etico depurato da ogni pretesa di possesso soggettivo. Si impara a diventare naturali, non lo si è all’inizio» (Ghilardi). Solo in questo senso si può intendere il paesaggio del satoyama come naturale, cioè come un paesaggio dove, come abbiamo visto ed è anche esplicitamente dichiarato in una scena di Pioggia di ricordi da Toshio, l’agire umano e quello del regno vegetale e animale coesistono, raggiungendo, nel loro correlazionarsi, un alto livello di spontaneità.

Il mio vicino Totoro è tutto permeato da questo senso di spontaneità, una naturalezza “lavorata”, un po’ come il satoyama stesso, che si nasconde dietro lo stile “semplice” dei disegni, della caratterizzazione dei personaggi e della struttura narrativa. Miyazaki e collaboratori, lavorando per sottrazione, riescono quindi a realizzare un’opera non solo scritta espressamente per i più piccoli, ma anche concepita a partire da uno stato di stupore infantile, come accade nelle opere di alcuni dei più grandi pittori dell’epoca: Edo, Maruyama Ōkyo o Itō Jakuchū (si consiglia di vedere a questo proposito il documentario Edo Avant Garde di Linda Hoaglund). Il paesaggio del satoyama in cui tutto il lungometraggio è immerso — paesaggio fisico ma anche spirituale, non c’è in realtà distinzione — permette di aprire porte che sembravano prima chiuse e di esperire il senso panico della vita, di cui Totoro è il simbolo.

Un luogo che ospita il famoso spirito/animale e soprattutto degli occhi che sono ancora o di nuovo capaci di vedere Totoro, indicano, come recita la frase posta in apertura di questo scritto (usata in alcuni poster come richiamo per pubblicizzare attività di conservazione di certe zone boschive giapponesi), uno stato in cui natura e cultura si compenetrano l’un l’altra, perdendo le marcate distinzioni che siamo soliti attribuire loro. Non si tratta naturalmente di un mondo inventato da Miyazaki, ma di una concezione della vita filtrata dallo sguardo dell’artista giapponese, che molto deve alle pratiche rituali animistiche dello shintoismo (quelle vernacolari e pre-nazionalizzazione per intenderci) e della sua commistione con il buddismo tipica dell’arcipelago, ma anche all’influenza della poetica di Miyazawa Kenji a cui Miyazaki si è ispirato per la realizzazione del film (in particolare il racconto per bambini Donguri to yamaneko del 1924).

La protagonista di Pioggia di ricordi, Taeko, è una giovane di ventisette anni che abita e lavora a Tokyo, ma che un giorno decide di passare le sue vacanze a lavorare nelle campagne nella prefettura di Yamagata, al nord del Giappone. Questo viaggio dalla città alla campagna risveglia una parte del suo passato che si rianima e torna quasi vivo, il periodo di quando era bambina negli anni sessanta. Nel lungometraggio questo avviene quasi letteralmente in quanto il passato (1966) ed il presente (1982) della narrazione sono intrecciati quasi senza soluzione di continuità nel presente del film. Nella seconda parte del lungometraggio Taeko, arrivata a destinazione, lavora alla raccolta dei fiori di cartamo ed esperisce così in prima persona, contribuendovi, alla formazione del satoyama.

Questo doppio movimento, a ritroso nella memoria e di scoperta delle diverse possibilità che il presente offre, diviene per Taeko una rivelazione, dona cioè un senso più ampio alla sua vita che fino a quel momento sembrava quasi senza una direzione. Importante è notare come la scelta di Taeko ricada su una zona, la prefettura di Yamagata, con cui lei non ha nessuna connessione familiare diretta. Se è vero che il villaggio in cui si sta recando è il luogo dove abita la famiglia del fratello del cognato, è altrettanto vero che non si tratta di una riscoperta delle proprie radici personali. Non è un semplice ritornare al passato, al tempo dell’infanzia, anche se a prima vista potrebbe sembrare così. Ed il rischio di cadere in una facile nostalgia senza dubbio c’è lungo tutto il lungometraggio. Piuttosto, la scelta di Taeko è un modo di riconnettersi con l’esistente e dare un diverso senso all’abitare e all’essere nel mondo, connettendosi con l’arazzo polivocale che è la vita nel suo complesso.

Riferimenti bibliografici
M. Ghilardi, Accenti 2019 – “Il Giappone spiegato con parole sue”.
M. Kenji, Donguri to yamaneko
Gendai IROHA Shuppan 2020. 

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