Una prima tornata era stata a Parigi, al Jeu de Paume, tra l’ottobre dell’anno scorso e il gennaio 2017. Adesso è a Barcellona, al Museu Nacional d’Art de Catalunya (MNAC). Nei prossimi mesi sarà a Buenos Aires, poi a Città del Messico e a Montréal.
È la nuova mostra curata da Georges Didi-Huberman. Soulèvements, tradotta con Insurreccions (in catalano), Insurrecciones (in spagnolo) e Uprising (in inglese). Insurrezioni, in italiano, o forse, meglio, “sollevazioni” per palesare da subito – senza bisogno di ricorrere all’etimo insurrectio –onis, der. di insurgĕre “insorgere” – la dimensione al contempo fisica, emotiva e politica del fenomeno indagato dallo storico dell’arte e filosofo francese: il soffio d’aria, il vento che spinge in alto un sacco di plastica rosso, come nella fotografia Patriot (2002) di Dennis Adams che si trova nella prima stanza dell’esposizione; i gesti dei singoli e della moltitudine che convergono e divergono – “fanno un quarantotto” – come in un disegno preparatorio di Ramon Martí i Alsina per il quadro El gran dia de Girona (1863-1864); le manifestazioni di piazza “malgrado tutto”, come nella foto scattata nel 1984 da Alvaro Hoppe a Santiago del Cile, durante il regime di Pinochet.
Una mostra teorica e critica sulle forze e le forme che – in modo tanto improvviso quanto lungamente incubato – mettono a soqquadro regimi politici e visuali che sembravano naturalizzati nella routine della subalternità. Non una ricostruzione dell’iconografia della rivoluzione nella storia delle arti, ma un modo per esplorare l’apertura che caratterizza la “forma saggio”, fino a spingerla fuori dal libro, oltre il discorso scientifico: una questione, quest’ultima, analizzata da Didi-Huberman quantomeno a partire dai volumi della serie L’œil de l’histoire e direttamente sperimentata già con la grande esposizione Atlas ¿Como llevar el mundo a cuestas? (Atlas. Come portarsi il mondo sulle spalle?) realizzata nel 2010 al Reina Sofia di Madrid e con quelle successive al Fresnoys di Tourcoing (Histoires de fantômes pour grandes personnes, 2012) e al Palais de Tokyo (Nouvelles Histoires de fantômes, 2014).
A Barcellona come a Parigi, la mostra si struttura in cinque parti: Elementi (liberati); Gesti (intensi); Parole (esclamate); Conflitti (accesi); Desideri (indistruttibili). Cinque momenti che corrispondono a un possibile percorso narrativo e passionale all’interno della sollevazione. Molte opere presenti a Parigi si ritrovano a Barcellona, ma non tutte. D’altro canto – in conformità al criterio di apertura dell’essai e dell’Atlas – la mostra si arricchisce di fotografie e manifesti provenienti dal MNAC e da altre collezioni pubbliche e private. Documenti che testimoniano le tensioni, le tattiche, le retoriche della guerra civile. I gesti di cordoglio e di lotta che si incontrano e si intrecciano, come nella serie di fotografie del 1936 dedicate al funerale del rivoluzionario e anarchico Buenaventura Durruti. Le manifestazioni di piazza dei decenni successivi nei quali la Catalogna rivendicava llibertat, amnistia, estatut d’autonomia , come nel titolo della foto di Manel Amengol che fa da locandina alla mostra.
Oggi più che mai – in uno scenario tanto instabile quanto globale – sembra importante concepire forme di mobilitazione delle immagini su base storica e geografica al contempo. Era dunque importante rivederla e ripensarla a Barcellona, questa mostra, per vari motivi.
Barcellona da decenni considerata un laboratorio del multiculturalismo in area mediterranea. Città chiave del 15-M (meglio noto in Italia come movimento degli Indignados) che a partire dal 2011 ha influenzato le forme di protesta emerse su scala europea, creando nuovi gesti individuali e collettivi e sperimentando nuove modalità di partecipazione politica. Barcellona in cui una militante come Ada Colau, per anni impegnata in prima linea in manifestazioni e occupazioni contro gli sfratti, è diventata sindaca. Una città, Barcellona, che il 18 febbraio scorso è scesa in piazza per proporre l’idea di una politica dell’accoglienza come soluzione alla cosiddetta “crisi europea dei migranti”. Una città che, d’altra parte, costituisce il centro culturale, politico ed economico di una delle regioni più ricche del paese e nella quale trovano ampio spazio – e una vasta legittimazione politico-istituzionale – rivendicazioni indipendentiste e nazionaliste.
Didi-Huberman, con la sua mostra, evita di riferirsi alle immagini appena elencate: scongiura il rischio di deriva nell’“attualità” come quello della strumentalizzazione. Nella presentazione pubblica di Insurreccions gli è stato del resto chiesto di rendere conto del fatto di non aver inserito immagini del 15-M, così come a Parigi non aveva inserito riferimenti espliciti al movimento Nuit debout che ha preso forma nelle piazze francesi nel corso del 2016.
È vero, tali immagini mancano e, probabilmente, operazioni dello spessore teorico di questa mostra potrebbero assumersi il rischio di una maggiore apertura nei confronti dell’attualità, se non altro per sottrarsi fino in fondo all’idea di una presunta “neutralità” del discorso storico-artistico. In ogni caso – proprio in virtù della sua mobilità interna (il montaggio) ed esterna (il trasferimento della mostra da una città all’altra) – questo progetto espositivo può diventare una lente attraverso la quale tornare a osservare le immagini dell’attualità e riconsiderarle in modo problematico.
Da una Parigi ormai da quasi un anno e mezzo sotto “stato d’emergenza” a una Barcellona al tempo stesso dell’accoglienza, dei movimenti e del nazionalismo catalano, la mostra di Didi-Huberman può essere concepita come un prisma teorico attraverso il quale riflettere sul crinale che separa la “manifestazione di popolo” dal “populismo”, del quale continuamente si parla senza sottoporlo a un’indagine attenta. Uno strumento per riflettere sulla differenza tra le forze attive e creative che, a caro prezzo, danno vita a uno spazio di sperimentazione e quelle reattive che ne operano una cattura. Questioni solo poco tempo fa affrontate – beninteso con un senso della militanza ben più esplicito, ma in modo altrettanto lucido – da Wu Ming con il romanzo L’armata dei sonnambuli.
Nella concezione e realizzazione di Soulèvements-Insurreccions–Sollevazioni, il riferimento principale di Didi-Huberman resta senza dubbio Aby Warburg e l’idea di indagare le “forme del pathos” che continuamente si riproducono attraverso le arti e le immagini. Ma, nello sviluppo di questa mostra, il riferimento al lavoro di Jean-Luc Godard sembra essere ancora più presente di quanto già non lo fosse nelle precedenti esposizioni organizzate dallo storico e teorico dell’arte e delle quali alcuni articoli hanno saputo mettere in evidenza le implicazioni teoriche nonché i rimandi alla storia delle arti e del cinema.
Solo qualche mese fa, con la pubblicazione di Passés cités par JLG, Didi-Huberman ha dedicato pagine profondamente critiche ad alcune delle modalità di montaggio e rimontaggio della storia adottate da Godard nei suoi film. Ma nella specifica capacità espressa dal progetto Soulèvements di elaborare montaggi aperti che elaborano una geografia politica dell’immagine, non può non venire in mente il grande laboratorio godardiano delle Histoire(s) du cinéma (1988-1998) e, ancora di più, una sequenza di Film socialism (2010). Quella in cui Godard costruisce una costellazione di eventi, parole e gesti di resistenza attraverso il tempo e lo spazio: Egitto, Israele, Odessa, Grecia, Napoli, Barcellona.
Certo, per Godard l’opera filmica – il suo spazio di saggistica, il suo prisma teorico – è qualcosa di polemicamente situato nell’attualità del presente. Come notava Serge Daney – senza intento valutativo, in un articolo pubblicato in Cinema, televisione informazione – il montaggio di Godard non può fare a meno di qualcosa di “triviale”. Non un accidente, non un tratto passeggero, ma un elemento che contribuisce a definire la cifra specifica della militanza godardiana. Nel debito contratto dalla mostra e dal suo curatore nei confronti di Godard e della sua opera, si tratta di una differenza che resta e della quale sembra importante prendere atto.
La visita sta per concludersi. Per quanto mai “triviale”, il montaggio di Didi-Huberman si spinge fino a toccare la forma di “sollevazione” più drammatica e più mediaticamente visibile di questi ultimi anni. La più sconvolgentemente inavvertita. Proprio nell’ultima sala dalla mostra, si trova qualcosa che resta impresso nella memoria del visitatore e che lo accompagna ben oltre la porta di uscita del MNAC o del Jeu de Paume.
Sono le immagini del video di Maria Kourkouta realizzato a Idomeni il 14 marzo 2016 sulla frontiera greco-macedone: inquadratura fissa su un campo tagliato in due da uno stradello fangoso. Decine, centinaia di uomini, donne e bambini lo attraversano da destra a sinistra e da sinistra a destra. Indossano perlopiù abiti tecnici, stivali, scarpe da trekking. Spingono bagagli, passeggini, carrozzine. La memoria delle insurrezioni passate si apre sugli eventi e i gesti più drammatici del contemporaneo. Gesti – quelli dei migranti che attraversano i Balcani oppure il Canale di Sicilia – solo apparentemente privi di una carica politica e in sé portatori di specifiche rivendicazioni che necessitano di essere riconosciute affermate.
Se i saggi di Nicole Brenez, Judith Butler, Marie-José Mondzain, Antonio Negri e Jacques Rancière, pubblicati nel catalogo della mostra, offrono possibili percorsi per comprendere le implicazioni estetiche, etiche e politiche della “sollevazione”, la mostra ci invita a riflettere sull’energia di quel passo che attraversa l’inquadratura. È forse questo, in fondo, il senso della militanza del progetto espositivo internazionale Soulèvements-Insurreccions-Sollevazioni: combattere le forme di cinismo, chiusura, ostilità e razzismo che cercano ormai esplicitamente di imporsi nel discorso politico, fuori dall’Europa come in Europa; mettere in discussione un frame di azioni e passioni umanitarie alle quali siamo ormai completamente assuefatti.
Riferimenti bibliografici
S. Daney, Cinema, televisione, informazione, Edizioni e/o, Roma 1999.
G. Didi-Huberman, Passés cités par JLG. L’oeil de l’histoire, 5, Minuit, Paris 2015.
G. Didi-Huberman, Soulèvements, Gallimard, Paris 2016.