Germania anno zero (Rossellini, 1948).

La filosofia serve a sbarazzarsi dei morti? La filosofia della tragedia. Dostoevskij e Nietzsche di Šestov gira ossessivamente attorno a questa domanda: l’impensato della filosofia. Nel farlo, pur facendo professione di anti-accademismo, inaugura o, comunque, segna alcune delle più proficue linee di ricerca del pensiero del Novecento. In primo luogo, quella che ha individuato nel pensiero tragico di Dostoevskij e Nietzsche il contraccolpo al logos della modernità, al razionalismo che da Cartesio e Spinoza fino a Kant e Hegel ha cercato la liberazione nella comprensione della Legge che regola l’universo (della Natura, della Storia). In questa sempre più raffinata e articolata reductio ad unum, la sofferenza del singolo è già sempre giustificata, è il passato da rimuovere, è il momento necessario all’articolazione della Necessità della Legge (teoretica o morale). Šestov, attraverso il pensiero tragico, cerca di riarticolare l’autocomprensione che la filosofia propone di sé, sia nelle sue declinazioni idealiste che in quelle materialiste, come progresso verso una liberazione che coincideva con la piena affermazione di una ragione articolata nella forma di norma, di universalità, di negazione del gratuito. Per Šestov, al contrario, il razionalismo moderno è piuttosto la caduta che segna la sottomissione alla coscienza comune, all’omnitudine, alla negazione dello scandalo della propria mortalità.

Dostoevskij è da Šestov liberato dalle letture sociali della critica russa (Belinskij, Michajlovskij) o da quelle di stampo teocratico (Solov’ëv) che lo stesso scrittore aveva mostrato di condividere, in nome di un richiamo al tragico, che non è, come sarà per altri importanti interpreti (Berdjaev, Ivanov) una forma raffinata di dialettica tra sofferenza e redenzione. Per Šestov il tragico dostoevskijano coincide con l’uomo del sottosuolo: è l’urlo di sofferenza, che prosegue indefinitivamente, senza alcuna forma di catarsi. Secondo questa lettura, i grandi romanzi dostoevskiani non sono come vorrebbe Bachtin il polifonico coro di idee, «la comunità di anime non fuse tra di loro», ma un tentativo fallito di dare risposte a quell’urlo di sofferenza; soltanto pochi momenti (i monologhi di Ippolit e di Kirillov nell’Idiota e nei Demoni, i racconti Il sogno di un uomo ridicolo e La mite, La Leggenda del Grande Inquisitore ne I fratelli Karamazov) saranno in grado di riaffacciarsi alla vertigine di una libertà che coincide con il capriccio incarnato, l’inatteso, o ancor di più l’impossibile, il «2+2» che fa cinque, secondo la famosa formula dell’uomo del sottosuolo. A un Dostoevskij, privato di qualsiasi forma di consolazione politica o religiosa, corrisponde un Nietzsche il cui pensiero tragico non è identificato nella monografia giovanile, ancora satura di consolazioni metafisiche, di romantiche illusioni che cercavano, attraverso l’unità dionisiaca, la coincidenza tra sofferenza e piacere, ma in quello segnato dalla malattia, che, in modo incessante, demistifica ideali e valori morali. Il tragico in Šestov si configura come uno scetticismo radicale, come un urlo d’orrore che si ribella alla coincidenza tra Bene e Legge, che segna la tradizione del pensiero occidentale dai tempi di Platone. Il cristianesimo apocalittico di Dostoevskij e il nichilismo di Nietzsche sono state le formule con le quali il pensiero del Novecento ha perlopiù cercato di risolvere-neutralizzare l’enigma di un pensiero vivente che, nell’ottica di Šestov, nascondeva quell’urlo d’orrore dietro la composizione di romanzi o trattati. Come nel caso di ogni lettura estrema, anche di questa interpretazione di Nietzsche e Dostoevskij se ne può sottolineare la parzialità, le imprecisioni filologiche, la sovrapposizione spesso arbitraria tra opera e vita; o piuttosto la capacità di illuminare zone poco frequentate, che si sono rivelate quanto mai proficue nella storia ermeneutica di questi due autori, dalle Memorie dal sottosuolo al Nietzsche “moralista” dei frammenti più tardi, prima che edizioni critiche e studi filologici confermassero tali intuizioni.

Šestov pubblica La filosofia della tragedia a puntate nel 1901 sulla rivista di Djagilev, Le Monde de l’art, quindi in volume nel 1903 a San Pietroburgo. Pur intrattenendo rapporti con molti dei protagonisti del Rinascimento religioso russo, Berdjaev in particolare, rimane figura appartata, non interessato, come invece molti di questi esuli, al recupero della tradizione ortodossa o a qualche forma di idealismo religioso anti-hegeliano (e perciò anti-marxista), come antidoto alla “malattia” del bolscevismo. Come loro, dopo la Rivoluzione d’Ottobre, trascorrerà in esilio la seconda parte della sua vita, a Parigi. Tutti i suoi scritti insistono sui temi de La filosofia della tragedia, anche se lo scetticismo radicale di questa opera giovanile, di evidente impostazione nicciana, sarà superata in opere come Sulla bilancia di Giobbe (1929), in nome di un misticismo che non è obbedienza a un Deus-Esse, ma interrogazione perpetua, abbandono dell’evidenza come criterio di verità. Pur impegnandosi in un’attività universitaria ed editoriale negli anni Venti e Trenta, che lo vedrà dialogare proficuamente con Husserl, avrà soltanto un allievo riconosciuto, Benjamin Fondane, il cui carteggio con il filosofo russo è stato recentemente tradotto da Luca Orlandini, che ha curato per Nino Aragno editore anche questa nuova edizione de La filosofia della tragedia, proponendosi, tra l’altro, di rimediare ad alcuni refusi ed errori concettuali che caratterizzavano la pur meritoria traduzione di Lo Gatto, oramai risalente al 1950.

La ricezione nella cultura italiana è stata perlopiù di carattere accademico, soprattutto legata alla lezione di Augusto del Noce o di Pareyson e del suo esistenzialismo tragico, mentre in Francia, pur conoscendo molti estimatori (Bataille, Malraux, Cioran), è stato soprattutto Camus a rendere ampiamente noto il nome di Šestov, riconoscendolo tra gli ispiratori de Il Mito di Sisifo e della filosofia dell’assurdo, che trovava nella rivolta metafisica il suo perno. A distanza d’anni, non è però più l’impegno politico che tale rivolta metafisica può suggerire l’aspetto più attuale di Šestov. È semmai Lévinas e la sua decostruzione dell’ontologia occidentale a proporre una delle riprese più proficue, anche se non esplicite, del pensatore russo. Lévinas, in una recensione di Kierkegaard et la philosophie existentielle (1939) individuava difatti nello scetticismo radicale di Šestov il timbro anti-idolatrico della tradizione ebraica; timbro, aggiungiamo noi, teso a una salvezza impossibile, in quanto ogni norma, ogni possibile, ogni reductio ad unum, la renderebbe incapace di ricordare i morti, di rompere il corso uniforme del tempo. Eccoci tornati allora al problema de La filosofia della tragedia, quello di una filosofia che si proponga di farsi memoria della sofferenza inutile, mai giustificabile in nome della Ragione (della Storia, della Natura, di Dio) che la trasfigura in nome di una felicità futura. All’urlo dell’uomo del sottosuolo risponde un pensiero come quello di Lévinas che intende abbandonare l’ontologia monista di derivazione greca, che intende abbandonare Atene, e che cerca, nella sorpresa dell’apparire del volto dell’Altro, la porta stretta per pensare Gerusalemme, l’altrimenti che essere. L’urlo dal sottosuolo, che Šestov prolunga nei suoi scritti, si riverbera perciò nell’impegno memoriale della micro-storia di Ginzburg, nell’antropologia di Girard che intende sciogliere il nesso tra colpevolezza del capro espiatorio e redenzione della comunità, per svelare l’innocenza della vittima sacrificale. Si riverbera in quella scrittura che non vuole sbarazzarsi dei morti, che non vuole offrire catarsi. E il cinema moderno, a distanza di decenni da quest’opera inaugurale del Novecento, ne ha dato molti esempi, dall’urlo strozzato in gola di Edmund che si suicida al termine di Germania anno zero al rantolo muto di Mouchette che si lascia inghiottire dalle acque nel film omonimo di Bresson, dalle lacrime della Rosetta dei fratelli Dardenne al movimento interminabile dei treni in Shoah di Lanzmann. Tragedie senza catarsi.

Riferimenti bibliografici
Lev Šestov, La filosofia della tragedia. Dostoevskij e Nietzsche, cura e traduzione di Luca Orlandini, Nino Aragno Editore, Torino 2017.
Albert Camus, Il mito di Sisifo. Saggio sull’assurdo, traduzione di Attilio Borelli, Bompiani, Milano 2001.
Benjamin Fondane, In dialogo con Lev Šestov. Conversazioni e carteggio, cura e traduzione di Luca Orlandini, Nino Aragno Editore, Torino 2017.
Emmanuel Lévinas, Altrimenti che essere o al di là dell’essenza, introduzione di Silvano Petrosino, Jaca Book, Milano, 1983.
Lev Šestov, Sulla bilancia di Giobbe. Peregrinazioni attraverso le anime, traduzione di Alberto Pescetto, Adelphi, Milano 1991.
Alessio Scarlato, L’immagine di Cristo, le parole del romanzo. Dostoevskij e la filosofia russa, Mimesis, Milano 2006.

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