Song to song

Chi ha provato in questi mesi a riassumere la trama di Song to Song (Malick, 2017) lo ha definito per lo più come un film su due triangoli amorosi che s’intersecano. Una rapida considerazione del sistema dei personaggi ci porta a correggere questa definizione: si dovrebbe parlare non genericamente di intersezione, ma di triangoli che hanno un vertice in comune. Questo nodo centrale si incarna nel personaggio di Faye (Rooney Mara), che ha una relazione con Cook (Michael Fassbender) e ne intreccia un’altra, poco dopo, con BV (Ryan Gosling), che a loro volta sono come i vettori di altre due triangolazioni, ciascuno agganciandosi a un terzo vertice, rispettivamente nei personaggi di Rhonda (Natalie Portman) e Amanda (Cate Blanchett). Ci sono altri personaggi, altre relazioni che intervengono a complicare questa figura: il film simula una struttura corale. D’altra parte, non è difficile riconoscere come questa struttura ordinata sia un dato inerente alla sola fabula che il film sul piano formale sconfessa radicalmente: Austin e la sua variegata scena musicale non sono per Malick quello che Nashville e la musica folk erano per Altman – nel film del 1975 –, quando una realtà ormai ridotta in frammenti era ancora tenuta insieme (sia pure in forma illusoria) dai cliché che era capace di secernere, non ultime le canzoni stesse.

Il film si apre su visioni di un buio e di una negatività assoluti: il ritratto di un mondo già in disfacimento, squassato dalle forze del disordine, che culmina nelle immagini di un happening di musica elettronica. Non esiste più alcun centro, a questo livello, ma solo un flusso indistinto, anonimo. A muoversi e, spesso, a smarrirsi in esso è proprio Faye, in una inquieta ricerca d’identità. “Chi sono io?”: la domanda che percorre tutto il Romanticismo, e che decreta l’impossibilità per il soggetto di determinare se stesso a fronte di un mondo che non è più in grado di decifrare, è fatta risuonare qui per l’ennesima volta. La potenza di un individuo pare definirsi ora proprio in base alla sua maggiore o minore capacità di abitare tale regime di indifferenza. In questo nessuno si mostra più abile di Cook, ricchissimo produttore discografico che attraversa situazioni e spazi eterogenei, ogni volta manipolandoli e divenendone padrone: l’evidente caratterizzazione mefistofelica di questo personaggio è l’ingresso principale al sottotesto goethiano che percorre tutto il film. Soltanto BV sembra in grado di sottrarsi all’impasse conoscitiva cui gli altri personaggi sembrano dover sottostare, facendo subentrare sin dall’inizio al dubbio epistemologico un momento propriamente etico e assertivo (“Dobbiamo cantare”, sono le prime parole che possiamo udire pronunciate dalla sua voce fuori campo). Ma è con l’entrata in scena di Rhonda, l’umile cameriera concupita da Cook, che il cerchio in qualche modo si chiude. Ed è a questo punto, si può dire, che Faust si trasforma ne Le affinità elettive, il tardo romanzo in cui Goethe faceva emergere, dalla dissoluzione dell’istituto del matrimonio e più in generale delle convenzioni sociali, le forze disgregatrici della natura, il loro inesauribile rigoglio.

Mai come in questo film Malick ha mostrato in atto le forze della decomposizione. È il trionfo dei falsi raccordi, dei movimenti aberranti della cinepresa, degli obiettivi a focale corta (e dei formati: al 35mm di Emmanuel Lubezki si alternano frequenti riprese effettuate con una GoPro). Sono gli operatori linguistici di una dissoluzione delle forme, mentre lo spazio e il tempo sono la materia di questo perenne disfacimento. L’idea stessa della morte è richiamata ossessivamente, in segni elementari, appena dissimulati. Al party iniziale nella villa di Cook, è nell’urna contenente le ceneri del dottore (un fantomatico personaggio di cui non sapremo nulla) che si trova posta a bordo piscina: come ogni anno, la festa è in suo onore. È poi nel teschio che BV disegna su un vetro con il rossetto di Faye, e nel gigantesco scheletro di cartone allestito per la celebrazione messicana del giorno dei morti. Soprattutto, si insinua da subito nel rapporto di Cook con Rhonda, proprio quando questo sembra assumere la forma di un idillio erotico, prefigurandone così l’epilogo luttuoso (lui la insegue indossando una maschera di caprone, confermando nel modo più plateale la propria natura demoniaca, mentre nel piano sonoro si ascoltano le cadenze isteriche della Danse macabre di Camille Saint-Saëns).

È tutto in caduta libera”, dice appunto Cook, esibendosi in una piroetta che sottolinea la sua impotenza a fronteggiare l’inesorabile precipitare di tutte le cose. L’insieme delle questioni sollevate dal film pare in effetti trovare una chiarificazione nel momento in cui venga pensato in relazione a un’idea di gravità. Il movimento ha perduto il proprio centro di gravitazione e per questo si è fatto aberrante, incapace di comporre un sistema di riferimenti nel quale sia possibile orientarsi. Ai personaggi non rimane che un unico centro di riferimento, quello – ineludibile – rappresentato dal proprio corpo, che li tiene inchiodati a terra. Ciò che li accomuna è appunto il bisogno di trascendere il peso di questa condizione (Weightless è stato per lungo tempo il titolo di lavorazione del film), anche se i tentativi messi in atto per sfuggirvi sono più o meno illusori, rispondendo unicamente alla necessità di un’estasi fisica temporanea: un volo in mongolfiera, il viaggio su un jet che compie una traiettoria parabolica (in cui è noto che l’assenza di gravità è soltanto un’illusione, prodotta dal fatto che sia i corpi che il mezzo che li trasporta sono entrambi, appunto, in caduta libera).

Più spesso, però, i personaggi cercano gli uni negli altri quel centro perduto, ciascuno tentando di fare di un altro il proprio centro di riferimento, e di definirsi in rapporto ad esso: si assiste dunque a quello strano moto di rivoluzione che i corpi, come altrettanti pianeti, compiono gli uni attorno agli altri, e che è fatto oggetto da parte di Malick di un’incessante ripresa, di un’inesausta rimodulazione espressiva. Di quella dimensione aerea alla quale essi tendevano, sopravvivono solo dei modesti correlativi oggettivi: gli uccelli di legno che, appesi a dei fili, sorvegliano un amplesso tra Faye e BV; l’uccellino in gabbia che divina il futuro e predice loro amore eterno; una piuma che BV trattiene fra le mani come un amuleto.

Con il suicidio di Rhonda, quando la morte irrompe nella vicenda (attualizzando quella virtualità che il film non aveva smesso fin lì di rinviarci), un ciclo può dirsi compiuto. La metamorfosi, preannunciata nell’immagine del serpente che cambia pelle e nell’allusione alla Fenice, può finalmente aver luogo. Ma, diversamente che in Goethe, non è l’eterno femminino che trae verso l’alto a salvarci. Bisogna anzi che Rhonda sia inghiottita dalla terra, e che lo sguardo si inabissi in un gorgo ribaltando la propria prospettiva, affinché si produca il miracolo di una palingenesi. Bisogna che l’insieme degli esistenti e degli eventi messi in scena finora (si è circa a tre quarti del film) precipiti in questo pertugio per potersi srotolare nuovamente, cambiato di segno.

Forze di morte e forze di vita si presentano infine ripartite in due metà distinte, manifestando una logica dell’essere che, per quanto misteriosa, mostra una sua perfezione. Le forze della decomposizione si convertono ora in forze di rigenerazione. All’interno di un fitto sistema di rime con l’inizio, Faye e BV potranno incontrarsi ancora una volta, come fosse la prima. È l’inizio di “un nuovo paradiso”. Non per questo i conflitti cesseranno: si è ancora e sempre sulla terra, dopotutto. È come dice Patti Smith, ricordando in un commovente racconto il marito defunto: “Abbiamo avuto una vita, è stata bellissima, è stata difficile”. Nulla di pacificato, dunque. Compare semmai, in questa parte finale, una nozione di semplicità del vivere, che a Malick viene forse dall’ultimo Heidegger (che a sua volta la ritrovava in Tolstoj) e che ha a che vedere con quell’idea di natura che, da sempre, è l’autentica posta in gioco del suo cinema.

Per Malick l’uomo è sempre a metà di qualcosa, sottoposto alla pressione di istanze contrapposte che rischiano costantemente di stritolarlo. Da un lato se ne osserva la prossimità al mondo naturale (vegetale e soprattutto animale), dall’altro lo si mostra continuamente a contatto con ambienti altamente antropizzati (tutto il repertorio del vestiario, del design e delle architetture ipermoderne che affollano il film). Il presente vivente degli individui, in Song to Song, è appunto questo limite interno, questo punto di scontro tra un passato ed un futuro assoluti: l’istante conserva questa duplicità, o questo esser sospeso tra un non-esser-più e un non-essere-ancora (e le minime variazioni luministiche, che quest’occhio sensibilissimo ad ogni passo ci riconsegna, costituiscono una delle risorse espressive più potenti del film, traducendo al massimo in forma sensibile questa fragilità e precarietà del tempo).

Non è un caso, allora, che un’opera che coglie l’uomo a metà tra la sua alba e il suo tramonto, esposto alle forze impetuose del tempo e della natura, si concluda con un elogio della forma umana (con esplicito riferimento al messaggio cristiano). Intonare la propria canzone, quel che ciascuno deve fare (come BV mostra di sapere bene fin dall’inizio), significa appunto questo: decidere della propria umanità, sia pure a partire da un fondo informe e indifferenziato. Accettando, al limite, che il proprio canto, accordandosi a quello degli altri, possa dissolversi in un canto superiore e impersonale, il clamore dell’essere o il canto della terra.

Riferimenti bibliografici
J.W. Goethe, Le affinità elettive, Marsilio, Venezia 1995.
M. Heidegger, Colloqui su un sentiero di campagna (1944-45), il melangolo, Genova 2007.

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