di FELICE CIMATTI
Sole della coscienza. Poetica I di Édouard Glissant.
Bisogna essere stranieri per riuscire a vedere qualcosa, ma essere stranieri in un senso radicale, non in quello addomesticato del turista, anche quello che è consapevole di essere un turista (non ci sono più i turisti di una volta, immediati e sprovveduti, che invece di guardare il Colosseo ascoltano la guida che glielo descrive; ormai tutti sappiamo che non è di buon gusto essere un turista). Bisogna essere stranieri nel senso insopportabile di qualcuno che viene dall’altra parte del mondo, e viene esposto a qualcosa di affatto incomprensibile, cioè a qualcosa che non si sa in quale categoria collocare, ammesso che ne esista una. Naturalmente, non è necessario arrivare da una terra lontana ed esotica (com’è noto non esistono più posti del genere, ormai lo sanno anche i turisti, per l’appunto) per provare questo effetto di distanza, quasi di nausea. Occorre trovarsi in un luogo senza smettere, però, di essere anche altrove.
Essere stranieri a Chartres, ad esempio, non significa soltanto non capire quello che si sta vedendo, significa piuttosto sentire come questa estraneità si riverbera sul proprio stesso luogo d’origine, che è la Chartres di qualcun altro. È l’esperienza di Édouard Glissant (1928-2011), che dall’isola francese della Martinica è arrivato in Francia alla fine della Seconda guerra mondiale. L’esperienza di questo radicale non sentirsi a casa è raccontata nel Sole della coscienza. Poetica I (Meltemi, a cura di Giuseppe Sofo), libro uscito originariamente nel 1956. Che cosa vedono, gli occhi di un giovane uomo delle Antille, nella cattedrale di Chartres?
Vengo dalla Martinica (che è un’isola dell’arco caraibico) e vivo a Parigi, impegnato da otto anni in una soluzione francese: intendo dire che non lo sono più solo perché è stato stabilito così sulla prima pagina di un passaporto, né perché si dà il caso che mi abbiano insegnato questa lingua e questa cultura, ma piuttosto perché sento sempre più necessaria una realtà a cui non posso sottrarmi. […] Questa cultura francese, nella quale osservo in maniera alterna la misura più estrema, la preoccupazione più preziosa per l’ordine dell’arte, e all’opposto lo sregolamento senza limiti, la nuda rivelazione, mi offre il suo movimento così marittimo e così poco monotono. Ma sarei in grado di dire, nello specifico, che sento Racine, per esempio, o la Cattedrale di Chartres? Sensibile all’ondeggiamento, al mareggiare, posso fluttuare in un tale cavo dell’onda, sentirmi a mio agio o viverci per davvero? Lascio vagare il mio sguardo, da tutto questo tempo, su questi paesaggi della conoscenza francese. Non come il viaggiatore che dalla vista dei monumenti si aspetta solo che gli fornisca una ricevuta per la partenza, ma come colui che si abitua al dubbio del conoscere. […] E non posso già più negare questa evidenza, inscritta nello sforzo che mi appartiene e di cui è meglio dar conto in maniera figurata: ovvero che qui, attraverso un allargamento del tutto omogeneo e ragionevole, si impongono ai miei occhi, letteralmente, lo sguardo del figlio e la visione dello Straniero (Glissant 2022, pp. 11-12).
In che consiste, propriamente, “la visione dello Straniero”? La prima osservazione, per noi figli dell’ironia postmoderna ormai ovvia, è che in tutti noi c’è un divenire Édouard Glissant, cioè un movimento che ci porta fuori di noi, verso una Chartres che tanto ci affascina quanto, in realtà, ci rimane estranea. Non c’è bisogno di venire dalle Antille, per riuscire a vedere questa radicale estraneità che giace ostile nel fondo di ogni luogo. Quello che serve (e forse è un’esperienza che al poeta viene spontanea) è sentire l’incommensurabile sproporzione fra lo sguardo e la parola, la sproporzione che dà infatti il titolo alla prima parte – quella programmatica – di questa raccolta, “Dallo sguardo al linguaggio”. Non c’è esperienza senza questa sproporzione. Se c’è solo lo sguardo, infatti, come può essere quello di un piccione che viva fra le sue guglie, c’è solo la massiccia e ottusa massa di pietra di Chartres ma non c’è il suo racconto e il suo senso. Se c’è solo la sua rappresentazione, che sia in un libro di storia o in una guida turistica non fa differenza, non ci sono più lo sguardo, lo stupore e il fastidio per la sua ingombrante e assurda presenza. Occorre invece rimanere impantanati in questa sproporzione per fare esperienza di Chartres, come di qualsiasi altro luogo del mondo. La “visione dello Straniero”, allora, è quella di chi si stupisce della parola, e non riesce a capire come una parola possa contenere un oggetto immenso come la cattedrale di Chartres. Come la parola, e quindi quel vivente che prova ad appropriarsene proprio mediante quella evanescente parola, possa dire il mondo.
In questo senso la “visione dello Straniero”, propriamente, è prima di tutto quella del poeta – e della filosofia, che come dice Agamben in Che cos’è la filosofia, è «il tentativo di esporre e fare esperienza […] del puro fatto che si parli e che l’evento di parola accade al vivente nel luogo della voce, ma senza che nulla lo articoli a questo» (Agamben 2016, p. 45) – che si trova in bocca una parola che non fa presa sul mondo, che non può fare presa sul mondo, perché è soltanto una parola. Allo stesso tempo, però, abbiamo solo la parola per provare a capire che cosa possa essere quella cosa che ingombra presuntuosa e imponente il nostro sguardo. Divenire Édouard Glissant significa allora sentire la sproporzione fra quello che vediamo e quello che ne diciamo. Uno squilibrio che è facile sentire per chi viene dalle Antille, ma è uno squilibrio che c’è sempre, perché c’è sempre questo fondamentale disallineamento fra gli occhi e la lingua, fra lo sguardo e le parole, fra il mondo e il senso del mondo. L’esperienza non consiste in altro che nel sentire questa sproporzione. Nel momento in cui ci rendiamo conto di questa distanza veniamo tutti dalle Antille, siamo tutti stranieri. Ma essere stranieri non vuol dire essere impotenti, al contrario, è la nostra unica forza, dire il mondo, cioè provare a pensarlo. A sentircisi, da stranieri, a casa: «Ma tutta la forza diffusa del mondo è impotente al cospetto dell’Espressione, finché non si è concretamente sperimentata questa forza. Intendo dire che l’evento, questo trasporto da una riva all’altra attraverso cui si sperimenta questa forza, può essere espresso, pronto per l’offerta, solo attraverso e dopo il silenzio che lo segue. Verità notturna. Tutta la forza diffusa del mondo è impotente al cospetto dell’Espressione, se non hai nuotato da una riva all’altra e poi arricchito il tuo silenzio sul nuovo greto» (Glissant 2022, p. 31).
Da un lato c’è la potenza del mondo, c’è la massa quasi irridente della cattedrale di Chartres, dall’altra c’è la “visione dello Straniero”, che non può nulla contro quella forza (questo vuol dire essere straniero, non avere un luogo proprio, ossia un luogo che sia intrinsecamente dotato di senso); allo stesso tempo, però, lo straniero non può fare altro che cercare di dire quello che sta vedendo e che non comprende. Lo straniero, quindi, è chiunque si trovi in “questo trasporto da una riva all’altra”, fra lo sguardo e la parola. In questo senso lo straniero è indispensabile soprattutto per chi pensa di non essere uno straniero, per chi pensa di essere stabilmente a casa propria, in quella che chiama la “sua” terra. Solo lo straniero, infatti, vede quello che è evidente – Chartres è impensabile – un’impensabilità e invisibilità che chi vive a ridosso di Chartres non è in grado di sentire. Non è certo un caso che Glissant provenga dall’isola del vulcano La Pelée, la cui eruzione nel 1902 distrusse completamente la città di Saint Pierre: «L’uomo urla il suo vulcano, accumula lava su lava» (Glissant 2022, p. 41). Che si può fare, di fronte al vulcano, se non di accettarne la radicale estraneità? In effetti l’esperienza non può sorgere che di fronte a questo “Altro fondamentale” (ivi, p. 70), che non schiaccia il pensiero, al contrario, mette in movimento la capacità di vedere, e quindi di dire:
Perché siamo tutti riuniti su una sola riva. L’Atlantico che dobbiamo attraversare ora è la caotica tenebra generata dalle nostre stesse luci. Ed eccomi a gelare tra questi due oceani; il vero e immortale abisso del mare, da una parte, che mi esilia da me stesso (dalla mia realtà, dalle mie radici piantate nel suolo come altrettante forche della verità); e dall’altra parte, l’Onda enorme d’un altro luogo, parigina, che scorre fin qui. Sapere che questi due Leviatani si fondono in uno, che ciò che snatura l’essere è al contempo ciò che lo pone al cospetto della luce, che la verità non rinuncia mai a un legame molto concreto, che è della stessa misura di coloro che cercano, e che sarà lo stesso per coloro che oseranno trovare – questo è ciò che posso affermare di più generale, comune e definivo sull’Esperienza (ivi, p. 70).
È solo lo straniero, allora, che è in grado di vedere, perché lo straniero non dispone delle parole per dire quello che il mondo – Chartres, il vulcano, l’oceano – offre al suo sguardo disarmato. L’esperienza è la condizione dello straniero che si trova nello spazio inospitale che si stende fra occhi e parole. Contemporaneamente, però, questo stesso spazio è in realtà un luogo ricchissimo, pieno di parole e pensieri nuovi, parole e pensieri che solo uno straniero può immaginare. Ma perché lo straniero possa immaginarli occorre abbandonare per sempre il pregiudizio di chi crede che lo straniero – come la sua versione innocua, il turista – sia sempre l’altro, quello che viene dalle Antille: «Presenza e totale sovranità del mondo, in quanto spazio ormai offerto all’appetito, in quanto durata di cui bisogna supportare il pieno significato – a cui la mente non può più sottrarsi. L’esotismo è definitivamente morto» (Glissant 2022, p. 81). Se non ci sono più luoghi esotici allora ogni luogo è, per uno sguardo straniero, un luogo esotico (per questo fanno così tenerezza quelli che cercano l’esotico nelle foreste equatoriali o nei deserti; la loro mancanza di immaginazione li rende – se lo sapessero se ne vergognerebbero – gli ultimi veri turisti). È questa, in fondo, la lezione di Édouard Glissant, il pensiero è sempre straniero, quindi sgradevole, com’è sgradevole il modo in cui chi viene dalle Antille (tutti, una volta o l’altra, proveniamo dalle Antille) si avvicina ai “nostri” luoghi: «Il confronto dei paesaggi conferma quello delle culture, delle sensibilità: non come esaltazione di un Ignoto, ma come un modo di sbarazzarsi finalmente della propria pelle per conoscere la propria proiezione in un’altra luce, l’ombra di ciò che saremo. Il viaggio non è più premeditato, è necessario» (ivi, p. 81). L’unico viaggio necessario, allora, è quello dello sguardo, affinché diventi come strabico, e non riesca più a mettere a fuoco un solo oggetto. Uno sguardo dolce come quello di Édouard Glissant, uno sguardo infatti capace di vedere le due sponde dell’oceano, uno sguardo che non giudica, che non ha bisogno di emettere sentenze. “La visione dello Straniero”.
Riferimenti bibliografici
G. Agamben, Che cos’è la filosofia?, Quodlibet, Macerata 2016.
E. Glissant, Sole della coscienza. Poetica I, a cura di Giuseppe Sofo, Meltemi, Milano 2022.