Unsane (2018).

Mosaic: una storia di otto ore, sviluppata per una app (e poi per una serie televisiva per la HBO), basata su una molteplicità di punti di vista intorno al mistero dell’omicidio di una scrittrice per bambini; Unsane: un film girato con uno smartphone che racconta la storia di una giovane donna in carriera che si ritrova in un centro per malattie mentali ossessionata dall’immagine di uno stalker; La fortuna dei Logan: un film su una rapina, o meglio un colpo di un gruppo di losers della provincia americana che rubano l’incasso di un ippodromo. Ocean’s 8: una variazione sul tema della rapina, o meglio del colpo, effettuato questa volta da otto donne raffinate e scaltre.

Nel giro di poco più di un anno schermi di diversa natura e funzione sono stati attraversati da immagini diverse, con anzitutto un elemento in comune: la firma, per ognuno di essi, di Steven Soderbergh (i primi tre titoli come autore, la versione al femminile della saga di Ocean come produttore, mentre la regia è affidata a Gary Ross). Non si tratta di una ipertrofia autoriale, tanto più strana se proveniente da un regista che fino a poco tempo prima aveva dichiarato di voler lasciare il cinema e darsi alla pittura. C’è altro che si agita in questa iperattività realizzativa e produttiva.

Soderbergh è sempre stato uno sperimentatore: scorrendo la sua filmografia è difficile imbattersi in titoli che non siano, ognuno, tappe o momenti di percorsi sempre diversi, in cui modalità narrative, realizzative, tecnologiche o di formato si mostrano capaci di portare avanti sempre nuove sfide. Da questo punto di vista, il suo sguardo si pone come forma mobile, aperta, che recupera la dimensione narrativa classica del cinema e al tempo stesso le dinamiche libere e multiformi dell’immagine contemporanea.

Scrittura e apparenza. Intorno a questi due termini ruota la ricerca soderberghiana e anche ogni indagine sulla potenza del cinema. La scrittura come forma mai determinata, ma capace di estendersi, moltiplicarsi, ramificarsi. Mosaic nasce appunto come mistero della scrittura. Sia la app che la serie raccontano la stessa storia, con gli stessi personaggi: ma ciò che cambia è la modalità con cui lo spettatore (o il giocatore, potremmo dire) vi si immergono: nella app è possibile comporre un proprio montaggio di scene, di punti di vista dei vari personaggi, visionare documenti, lettere, foto, rivedere la narrazione dal punto di vista di questo o di quel personaggio. Tutto in funzione del mistero della morte di Olivia Lake. Nella serie HBO, ogni puntata, tradizionalmente, lavora a partire dal mistero della morte della scrittrice e si trasforma in un gioco di flashback strutturato dal montaggio. Si tratta allora di due narrazioni diverse? No, in effetti. Da una parte la funzione autoriale classica è affermata in entrambi i prodotti: Soderbergh decide tutto, controlla ogni funzione dei raccordi. Dall’altra il montaggio libero delle scene permesso dalla navigazione attraverso la app determina uno scarto, una possibilità diversa, fondata sul concetto di variazione sul tema, più che sulla creazione di nuove narrazioni.

La scrittura è affermata come potenza organizzativa, che sia essa sviluppata nell’ambito della serialità o nella forma contemporanea di quello che una volta si chiamava ipertesto, non importa: “È un universo immutabile. Sono io a scegliere quando far fare certe scelte, e come. Decido tutto io, tiro io i fili”, dichiara il regista di Atlanta. La domanda sorge allora immediata: cosa è Mosaic? Dove si pone, dentro o fuori la narrazione classica? La domanda è forse malposta, perché in realtà l’esperimento soderberghiano non è teso a porre una polarità che deve essere risolta, ma proprio ad affermarne la dinamica sempre attiva. Non si tratta di contrapporsi al “sistema”, ma di mostrare la potenza dei suoi elementi.

La scrittura si coniuga con la sua emergenza, con il suo emergere come immagine, in altre parole, con il suo apparire. Quella di apparenza è infatti una parola complessa, che gioca con il significato immediato di ciò che si palesa di fronte ai miei occhi e di ciò che si presenta come finzione, maschera, simulacro, inganno persino. È il tema profondo di tutto il cinema di Soderbergh (e in fondo di tutto il cinema tout court) che in questi ultimi titoli sembra portare verso nuove strade. La scrittura di Mosaic gioca non tanto sulla risoluzione del mistero della morte di Olivia Lake (che c’è, è prevista), quanto sulla possibilità di vedere ogni immagine, frase, personaggio come ambivalente, reale e non reale al contempo, sincero o bugiardo, trasparente e opaco.

Ed è in questa prospettiva che allora le tante immagini di Unsane giocano il loro ruolo: l’immagine fragile ed estemporanea dell’iPhone con cui è girato (o dei tanti cellulari che attraversano il film) e le immagini vere e/o false che la protagonista vede di fronte a sé. Il formato del film e lo sguardo di Sawyer entrano allora in una sorta di spirale dialettica: entrambi deboli, fragili e al tempo stesso capaci di costruire senso, narrazione, forme cinematografiche. L’apparenza, ancora una volta, si mostra in tutta la sua ambivalenza: lo sguardo della protagonista è al tempo stesso capace di organizzare il mondo secondo una logica coerente (per quanto infernale) e continuamente sull’orlo di spezzarsi in una miriade di frammenti privi di ogni contatto con il reale (come l’immagine digitale prodotta dallo smartphone).

Non stupisce quindi che la scrittura (assolutamente classica) dello heist, della rapina congegnata e perfetta sia ancora una volta un esempio di scrittura sempre pronta a rovesciarsi nel suo contrario, vale a dire nel puro simulacro della scrittura perfetta. Da Rapina a mano armata (1957) di Kubrick, passando per Le iene (1992) di Tarantino, il colpo grosso, collettivo e pensato sino al più piccolo dettaglio ha sempre affascinato il cinema, quasi ne intravedesse la potente metafora del film, in cui ogni elemento concorre al risultato finale. In una sorta di duologia parziale, Soderbergh ritorna sulla forma cinematografica della rapina, da una parte producendo Ocean’s 8, ulteriore variazione sul tema della rapina già esplorata dal regista americano nella saga di Ocean appunto, e realizzando La truffa dei Logan, in cui il taglio ironico e apparentemente libero della recitazione e della scrittura ne fa un potente film politico, in cui ogni personaggio ricorre in misura diversa all’inganno, fa dunque dell’apparenza lo strumento politico della propria emancipazione.

Scrittura e apparenza (entrambi ambivalenti) sono la coppia concettuale intorno a cui tra l’altro ruota da sempre, come abbiamo detto, il cinema di Soderbergh; e non è difficile riconoscere (ogni volta diversa) la loro presenza e funzione organizzativa del racconto e delle immagini, in titoli come The Knick (2014-2015), Contagion (2011), Magic Mike (2012) e, ancora più indietro, Full Frontal (2002), Delitti e segreti (1991) e finanche Sesso, bugie e videotape, il film d’esordio che incantò Wenders, presidente della giuria a Cannes nel 1989.

Ma questa dialettica non è semplicemente una marca autoriale, una coppia terminologica attraverso cui leggere in filigrana il cinema di Soderbergh come corpus organico; a ben vedere, in essa vibra una tendenza che attraversa oggi il cinema hollywoodiano (e off-hollywood) contemporaneo, in cui una serie di autori, in modo diverso, affrontano il problema della scrittura e dell’immagine non negandole, ma affermandone appunto la loro potenza ambivalente: da Richard Linklater (il cui straordinario A Skanner Darkly – Un oscuro scrutare è stato prodotto proprio da Soderbergh) a J.J. Abrams (che da sempre fa della pratica della riscrittura il proprio marchio di fabbrica), passando per alcuni dei film di Todd Haynes, così come per il nome feticcio di Lynch, o la forma ipertrofica di James Cameron, il cinema americano si smarca dalla classica distinzione tra cinema d’autore e cinema d’intrattenimento, tra il potere del nome proprio e quello della casa di produzione, mostrando figure mutanti, che si muovono dentro e fuori dal sistema produttivo mainstream, esplorandone le forme, sperimentandole, mostrando ancora una volta il loro potere, o meglio, la loro potenza.

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