Chiunque abbia avuto modo di girare un video con un’apparecchiatura di basso livello sa quanto siano importanti i valori di ISO. E sa anche quanto possano rovinare l’immagine nel caso vengano abusati a dismisura; in special modo se tali registrazioni provengono da dispositivi mobili, dove spesso e volentieri gli automatismi preimpostati rendono le scene leggibili solo gonfiando il guadagno elettrico del sensore fotografico. Un esempio? Le riprese notturne. Il risultato finale è un eccesso di cosiddetto rumore: una grana che aleggia sopra l’immagine erodendone la qualità. Così, ogniqualvolta guardiamo una fotografia o una clip “sgranata”, l’abbassamento della risoluzione ci fa subito gridare all’amatorialità e alla dozzinalità.
Skinamarink fa paura. E fa paura nonostante sia stato girato a valori di ISO decisamente troppo alti per gli standard qualitativi dell’industria. O, forse, proprio a causa di questo errore apparente ci spaventa così tanto. Proprio perché sembra amatoriale; proprio perché assottiglia il divario che separa una produzione tecnicamente avanzata da un’immagine ottenibile nel quotidiano. Centomila ISO non favoriscono di certo il processo di empatia con i personaggi o con la storia, ma ci rendono familiare la forma del mezzo filmico. Skinamarink insegue l’artefatto dell’immagine per intercettare il modo in cui si è organizzata la percezione sensoriale dopo la nascita del digitale – volendo dirla con Benjamin.
Operazioni mediatiche di questo tipo non sono una novità. Nel 1999 The Blair Witch Project inaugura la stagione dei film in stile found footage creando un precedente che arriverà fino ai grandi successi di Rec e Paranormal Activity nel 2007. Tuttavia, a differenza di questi primi esperimenti – ancora acerbi se considerati in relazione agli imminenti sviluppi del medium digitale – la storia dei bambini protagonisti, Kevin e Kaylee, non si limita a manifestarsi attraverso una nuova tecnica di ripresa ma gioca attivamente con l’ontologia della registrazione fotografica per dare quella sensazione di presenza che solo una produzione amatoriale può dare.
Le considerazioni di Roland Barthes sulla semiosi fotografica suggeriscono un punto di partenza per comprendere meglio questo fenomeno: «Nella fotografia il rapporto fra i significati e i significanti non è di “trasformazione” ma di “registrazione”, […] il tipo di consapevolezza che la fotografia implica è infatti senza precedenti, dal momento che instaura non la consapevolezza dell’esserci di una cosa (che ogni copia potrebbe provocare) ma la consapevolezza del suo essere-stata-lì» (Barthes 1977, p. 44); un concetto che in un altro scritto altrettanto celebre denominerà «posa». Il paradosso contemporaneo sembrerebbe allora essere il seguente: più un’immagine perde qualità e più essa tenderà ad acquisire lo status di posa; più ci si allontana dalla fedeltà delle alte risoluzioni hollywoodiane e più l’immagine è in grado di elargire la sensazione che le cose registrate abbiano effettivamente presenziato davanti a una macchina da presa.
La povertà di una rappresentazione digitale ricorda implicitamente i prodotti consumer che, dopo la svolta informatica, inondano i nostri schermi, e ciò suggerisce una sensazione di realismo più ampia rispetto a un’immagine professionale, della quale non siamo sicuri al cento per cento se sia stata generata da un computer o da una vera registrazione. E allora si comprende meglio il motivo per cui un film dell’orrore dove a malapena si distinguono gli elementi del profilmico può generare tanta paura: l’essere-stato-lì, puro elemento formale, conferisce veridicità ai soggetti e alle azioni poiché tale forma è quella alla quale oggi siamo abituati ad attribuire il maggior valore di documento.
Kevin e Kaylee si svegliano e non trovano i genitori. Si aggirano per una casa buia vedendo levitare oggetti e scomparire porte, mentre l’inquadratura è gettata negli angoli dell’abitazione come fosse un ospite indesiderato al quale è precluso un inserimento integrale nella vicenda. Le azioni si consumano prevalentemente fuori campo e allo spettatore è concesso di percepirne soltanto gli effetti sugli oggetti, che diventano, curiosamente, dei particolari piani di ascolto, dei punti di reclusione prospettica nei quali la staticità materica sostituisce ogni tipo di rivelazione narrativa.
La massa informe di questi pixel in movimento – nuova forma informe – appartiene inconsapevolmente alla periferia delle immagini rappresentate numericamente. Chi si ricorda i risultati di ricerche con parole chiave come aliens, UFO, ghosts, demons, nella YouTube delle origini, sa quanto quei generi di riprese amatoriali assomiglino ai frame dell’opera prima di Ball; e se una volta potevano suscitare suggestione ma anche la risata, ora gli stessi espedienti, o, meglio, le stesse limitazioni, sono caratteristiche fondative di un nuovo modo di vedere.
La periferia in cui si colloca Skinamarink è la periferia visiva delle immagini povere teorizzate da Hito Steyerl, abitata da una popolazione «compressa, riprodotta, strappata, ibridata, ma anche copiata e incollata in altri canali di distribuzione. […] L’immagine povera è caricata in rete, scaricata, condivisa, riformattata e modificata. Trasforma la qualità in accessibilità, il valore espositivo in un culto, i film in clip, la contemplazione in distrazione» (Steyerl 2009). Naturalmente il caso di Skinamarink si accosta a questo universo con la veste dell’analogia, avendo un impianto ancora cinematografico. Ciononostante, il punto focale della questione è l’intenzione di lettura dello spettatore, che intravede in quella peculiare messa in scena – o, forse, dovremmo dire messa in posa – l’espulsione da «quel paradiso protetto che è stato una volta il cinema» (Ibidem).
Un leak in una delle piattaforme di streaming dove questo ammasso di bit andava esibendosi al pubblico ne ha permesso la pirateria e la diffusione su internet. Un gioco della sorte che non solo ne ha garantito un precoce successo ma che addirittura lo ha reso un culto delle sottoculture digitali, come aveva previsto e teorizzato la Steyerl quasi quindici anni prima. Un caso di distribuzione alternativa che, alla stregua dei filmini su camcorder, ha tratto la sua forza proprio da un’estetica alla portata di tutti. Un’estetica disturbata, rumorosa e decentrata; apparentemente lontana dai formalismi a cui il grande schermo ci ha abituati. Se, come si legge nel saggio sulle immagini povere, la bassa risoluzione alimenta la creazione di “legami visivi”, per riprendere le tesi di Dziga Vertov sulla riorganizzazione collettiva della percezione, allora Skinamarink rappresenta un’occasione esemplare per l’articolazione di un nuovo linguaggio comune.
Riferimenti bibliografici
R. Barthes, “Rethoric of the image”, in R. Barthes, Image Music Text, Fontana Press, Londra 1977 (traduzione mia).
H. Steyerl, In defense of the poor image, e-flux Journal, 2009 (traduzione mia).
Skinamarink. Regia: Kyle Edward Ball; sceneggiatura: Kyle Edward Ball; fotografia: Jamie McRae; montaggio: Kyle Edward Ball; interpreti: Lucas Paul, Dali Rose Tetreault, Ross Paul, Jaime Hill; produzione: Mutiny Pictures, ERO Picture Company; distribuzione: Plaion Pictures; origine: Canada; durata: 100′; anno: 2022.