Quando questo articolo sarà pubblicato, si sarà già consumato l’evento mediale/seriale dell’anno, ovvero la messa in onda del primo episodio dell’ultima stagione di Game of Thrones, la serie che per eccellenza rappresenta la Second Golden Age della serialità televisiva. Da oltre dieci anni le serie tv si sono imposte, infatti, quale fenomeno audiovisivo contemporaneo dominante, sia da un punto di vista culturale che da un punto di vista produttivo. Rispetto alla profondità di incisione di questo fenomeno si possono scegliere due strade interpretative.

Come spesso accade dinanzi ai grandi segni di novità della cultura popolare e non solo, si può prediligere la strada metodologica del continuismo – le serie tv non aggiungono nulla a quanto già non faccia (e meglio) il cinema – oppure quella del discontinuismo, per cui si coglie nella diffusione mass-mediale delle serie tv un elemento di novità rispetto all’esperienza audiovisiva così come si era configurata almeno fino al secolo scorso. Naturalmente entrambe le posizioni colgono dei punti di verità, che si può provare a mettere in contatto proprio a partire dalla domanda che fa da filo conduttore a questo speciale: quale rapporto c’è tra il seriale e il reale? Ovvero quale rapporto c’è tra i racconti seriali che sempre più si configurano come delle narrazioni mitologiche a bassa intensità, per citare l’ultimo testo di Ortoleva, e il reale, inteso sia come l’accadere degli eventi in mezzo a cui noi sempre ci troviamo, che come una specifica forma di vita, generata dalle grandi trasformazioni, innanzitutto tecnologiche, che hanno segnato l’ultimo ventennio?

Come scrive Lusuardi, il tema è la ragione primaria per cui vi è un’adesione da parte dello spettatore alle serie tv, ma più in generale ad una storia, e in questo sicuramente c’è un tratto di intrinseca continuità tra le serie tv e le grandi forme narrative che le hanno precedute. Ciò che ci appassiona, dopotutto, non è il gioco spietato dei troni, quanto quella originaria battaglia tra il bene e il male, con le sue zone d’ombra e quelle incursioni nel vissuto dei personaggi che eccedono la logica del potere e della guerra. Ciò che accade, però, con Game of Thrones, e più in generale con tutti quei racconti capaci di influire nell’immaginario collettivo, di creare personaggi iconici, segnando un’epoca non soltanto televisiva (Breaking Bad, Mad Men o anche, in Italia, lo stesso Gomorra – La serie), è che questa modalità di adesione assume la forma di una prossimità molto forte tra lo spettatore e il racconto audiovisivo. Per dirla in termini ejzenštejniani, se da un lato il tema sollecita l’esperienza vissuta dello spettatore, è la rappresentazione e soprattutto la sua reiterazione, prolungata nel tempo e garantita dalla fecondità del tema stesso, a creare un rapporto di prossimità profonda tra lo spettatore e il racconto. La rappresentazione consiste, in altre parole, nelle regole che costruiscono il mondo narrativo entro cui quel tema viene sviluppato, conferendogli un’identità molto forte e connotando in modo iconico il tema stesso. Si crea, cioè, quella che Ejzenštejn definirebbe un’“immagine generalizzata”, che viene rinnovata ogni volta a partire dalle condizioni di possibilità (le regole del mondo narrativo) che la rappresentazione prevede.

Il caso di Game of Thrones, di nuovo, è paradigmatico e autoesplicativo: l’ambientazione fantasy già di per sé riesce a connotare in modo molto forte quell’universo narrativo, che però non può essere ridotto semplicemente alla marca di genere. La rappresentazione di quel mondo, che ha un nome, Westeros, e che nella realtà non esiste, si costruisce poco a poco, episodio dopo episodio, attraverso la continua riproposizione di singole tessere (dalla lingua alle ambientazioni, dalle musiche ai costumi), in cui, però, riecheggia già vivida l’immagine di un mosaico che sta allo spettatore ricostruire. Un altro esempio che l’attualità ci porta a chiamare in causa è Gomorra – La serie, che è un esempio forse anche più interessante dal momento che si tratta di una città reale (Napoli e il suo entroterra) e di vicende notoriamente accadute e restituite dalla cronaca. Anche in questo caso il genere di appartenenza delle serie non basta a decodificarne il mondo narrativo, che viene restituito attraverso una dettagliata rappresentazione che si compone di molti elementi.

La specificità delle serie risiede, dunque, in questa reiterazione, in questo continuo rinnovamento del tema attraverso le regole della sua rappresentazione, quale principio formale, esplicitato e riconosciuto. E la reiterazione della rappresentazione viene garantita sì dal tema stesso, ma anche dalle specifiche condizioni di fruizione del formato seriale. La lunga durata, associata ad una sempre maggiore autonomia della visione, conseguente all’affermazione del modello on-demand, fanno sì che il tempo della visione e il tempo del racconto si sovrappongano, creando un effetto di prossimità dello spettatore a quell’immagine-mondo, prossimità che per molti versi risulta inedita. È esattamente su questo terreno che si coglie una relazione strettissima che le serie tv intrattengono con l’esperienza tout-court, a prescindere dal tema specifico del racconto o dalla minore o maggiore aderenza ad un reale inteso come restituzione di fatti o eventi realmente accaduti. In questa peculiare forma di prossimità che diventa nell’era della partecipazione online una forma di appropriazione da parte dello spettatore, le serie tv, e in particolare quelle tessere di mondo-immagine di cui si compongono, diventano molto spesso strumenti per interpretare, leggere e riscrivere il reale, per ricostruire un senso di un’esperienza collettiva sempre più disgregata, liquida, tipica della nostra contemporaneità.

E qui tocchiamo un ultimo punto decisivo, che di nuovo segna una discontinuità con il cinema, e una forte aderenza delle serie tv al reale, inteso come la specifica forma di vita del nostro tempo. Sappiamo bene che la storia del cinema è costellata di immagini-mondo che hanno segnato in modo inequivocabile la nostra cultura; eppure quella capacità di agganciare il reale, associandovi una contro-immagine potente intorno alla quale si costituiscono vere e proprie comunità, oggi reali e virtuali (capacità che in tanti momenti il cinema ha espresso, pensiamo al dopoguerra italiano), oggi sembra essere prerogativa dei nuovi racconti seriali audiovisivi, in cui la reiterazione continua del tema attraverso il suo mondo narrativo riflette in modo inequivocabile ed efficace quel processo di riproducibilità e replicabilità dell’esperienza che si è inaugurata, seguendo Benjamin, proprio con la nascita del cinema. Le serie tv, con la loro lunga durata, a cui si accompagna un senso di potenziale interminabilità, segnano una discontinuità anche rispetto al concetto di opera e di autore, come dimostrano anche le condizioni creative e produttive da cui emergono nuove figure come quella dello showrunner e nuove prassi come il coinvolgimento di molteplici registi.

Che le serie tv siano l’occhio – e la mano, per restare al paradigma aptico che caratterizza la relazione contemporanea con le immagini – del XXI secolo? È una storia ancora tutta da scrivere che si evolve rapidamente, come dimostra il proliferare incontrollato di molteplici racconti ormai di breve durata. Da Netflix e dal modello produttivo-creativo che esso ha inaugurato, basato da un lato sulla singolarità della visione e dall’altro sulla profanazione degli interessi degli utenti/spettatori, prendono forma racconti ormai sempre molto brevi (spesso non si va oltre 2-3 stagioni) e spesso molto simili tra loro (pensiamo al tema dell’atipicità a cui solo Netflix ha dedicato diverse serie, pur molto interessanti, come Atypical e Sex Education). In queste nuove serie la dinamica tra tema e rappresentazione viene sbilanciata a favore del tema, con una progressiva perdita dell’iconicità del mondo narrativo e di quel processo di prossimità tra lo spettatore e il racconto. Forse si sta aprendo, o si è già aperta, una nuova fase della serialità: winter is coming?

Riferimenti bibliografici
W. Benjamin, L’opera d’arte nell’epoca della sua riproducibilità tecnica. Tre versioni, a cura di F. Desideri, Donzelli, Roma 2011. 
F. Casetti, L’occhio del Novecento. Cinema, esperienza, modernità, Bompiani, Milano 2005. 
S.M. Ejzenštejn, Teoria generale del montaggio, a cura di P. Montani, Marsilio, Venezia 1985
P. Ortoleva, Miti a bassa intensità. Racconti, media, vita quotidiana, Einaudi, Milano 2019.

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