Mi stupiva l’insistenza, la testardaggine degli uomini,
volevo sapere da dove venivano e in quale luogo
dell’oceano o della terraferma ce n’erano tanti,
e se la loro cupidigia si sarebbe mai saziata.
Luis Sepúlveda
L’epidemia del Coronavirus ha portato via con sé, lo scorso 16 aprile, lo scrittore cileno Luis Sepúlveda. Se esiste forse un solo aspetto che lui avrebbe apprezzato di questo stravolgimento, è la tregua che per un momento ha concesso agli animali. Il mondo in questi giorni somiglia infatti a uno zoo rovesciato: noi nelle gabbie delle nostre case e gli animali là fuori in libertà. Per una volta smettiamo di cacciare, uccidere, torturare. Al contrario siamo noi le vittime, minacciate da un mostro invisibile.
Ma qual è la grande differenza tra il comportamento degli esseri umani e degli animali in questo rovesciamento? Che se noi ci siamo trasformati in prede loro non sono diventati carnefici. È ciò che Starbuck vuole far comprendere al capitano Achab, cercando di convincerlo a desistere nella caccia: «Guarda! Moby Dick non ti cerca. Sei tu, tu che insensato cerchi lei» (Melville 2007, p. 635).
Quest’innocenza della balena di fronte alla sete di vendetta di Achab è uno dei temi centrali delle storie raccontate da Sepúlveda, in cui gli animali hanno grande rispetto per l’uomo, lo osservano con curiosità e attenzione e ne notano le stranezze. Ciò che non riescono a comprendere però è l’assurdità delle sue azioni feroci, che Sepúlveda ha la grande intuizione di far raccontare direttamente a chi le subisce. Solo così infatti, sovvertendo il nostro punto di osservazione, possiamo veramente comprendere di cosa siamo capaci.
Ripartire dallo sguardo animale non soltanto può essere fondamentale per comprendere fin dove si è spinta la nostra crudeltà ma anche per cogliere il tema della nudità dell’uomo. È questa una delle lezioni di Derrida sulla questione dell’animalità. Di fronte alla gatta che lo guarda mentre lui è nudo, egli racconta di aver provato un forte senso di vergogna e di disagio nel sentirsi osservato. Da cosa deriva quell’imbarazzo dunque? Dal fatto di essere nudo come una bestia, che lo è senza neppure saperlo. È qui che Derrida coglie la differenza tra l’uomo e l’animale. Quest’ultimo, per Derrida, non essendo cosciente della propria nudità, non sarebbe neppure nudo: «L’animale sarebbe in situazione di non nudità in quanto nudo e l’uomo in situazione di nudità dal momento che non è più nudo. Ecco una differenza, un tempo o un contrattempo tra due nudità senza nudità» (Derrida 2006, p. 40).
Per Derrida dunque bisogna partire dallo sguardo dell’animale per comprendere la sua alterità. E forse è proprio dalla dimenticanza dell’animale come Altro che deriva la spregiudicatezza nell’uomo, che lo porta ad uccidere e torturare. Ripartire dallo sguardo animale significa anche riscoprire quel senso di vergogna, senza il quale siamo molto più bestiali dell’animale stesso. Questo sguardo ci viene restituito dalla scrittura di Sepúlveda in tutta la sua intensità, soprattutto nel suo ultimo lavoro: Storia di una balena bianca raccontata da lei stessa.
Un giorno, nuotando in mare aperto, un capodoglio, figlio dei fiordi e delle isole, vide due navi scontrarsi e non comprese l’assurdità di quella scena:
Mi sembrò molto strano il comportamento degli uomini in questo loro incontro con il mare. La minuscola sardina non attacca un’altra sardina, la lenta tartaruga non attacca un’altra tartaruga, il vorace pescecane non attacca un altro pescecane. A quanto pare gli uomini sono l’unica specie che attacca i propri simili, e non mi piacque questa cosa che imparai da loro (Sepúlveda 2018, pos. 153).
Questa però non è la sola lezione che la balena bianca è costretta ad apprendere, osservando gli uomini. La sua incredulità cresce tanto più aumenta la loro ostinazione a uccidere. Ben presto diviene lei stessa vittima della loro follia e scopre che il fine di quella caccia non è neppure la sua carne ma l’olio del suo intestino, che arde illuminando le case: «Non ci ammazzavano per la nostra specie; lo facevano perché gli uomini temono il buio e noi balene possediamo la luce che li libera dalle tenebre» (ivi, pos. 201). Come possiamo sentirci confortati da una luce che ha un’origine così oscura come la morte?
Nelle storie che Sepúlveda dedica agli animali, accanto a gruppi di uomini pronti ad uccidere, ce ne sono altri, così diversi, che non sembrano neppure appartenere alla stessa specie. In questa storia dedicata alla balena bianca incontriamo i lafkenche, popolazione indigena che un tempo abitava l’Isla Mocha, in Cile. Lafkenche significa gente di mare. Secondo un’antica leggenda, che nel libro viene raccontata dall’anziano capodoglio, tra i lafkenche e le balene c’è un patto, che risale ai tempi antichi del mare. Le balene sono grandi e forti mentre i lafkenche sono fragili, ma solamente loro conoscono la rotta per arrivare nel luogo in cui ci si riunisce prima di iniziare il grande viaggio, ovvero prima di morire. Così, quando un lafkenche muore, una delle quattro balene vecchie, che vivono tra la costa e l’isola di Mocha, lo condurrà lì. I lafkenche prendono dalla riva il necessario per vivere e ringraziano la generosità del mare, celebrando un rito antico. Hanno un rispetto profondo per la natura. Di tutt’altra sostanza sono fatti invece i balenieri, che appartengono alla specie di uomini venuti dal mondo dell’ingratitudine e dell’avidità.
Sepúlveda, come lui stesso ha raccontato, con questa storia ha voluto dare voce alla grande assente in Moby Dick, che compare solo alla fine di quest’opera monumentale: la balena bianca. Per tutto il romanzo viviamo nell’attesa di incontrarla e siamo contagiati dal desiderio di vendetta del capitano Achab. La balena bianca somiglia più a un’idea che a un animale, tanto è il tempo dedicato alla sua ricerca. È sempre l’occhio degli uomini a guidarci in questa folle caccia. Sepúlveda allora rovescia la narrazione, dando voce all’animale inseguito.
Cesare Pavese, a cui si deve la prima traduzione italiana di Moby Dick, soprannomina Melville il “baleniere letterato”, poiché ha vissuto prima le avventure reali e il primitivo e solo dopo è entrato nel mondo della cultura e del pensiero. Il suo capolavoro è esattamente la fusione di queste due esperienze, poiché è intessuto di riferimenti biblici e culturali e allo stesso tempo mantiene vivo il contatto con la natura, con il mare e lo spirito di avventura. Sempre Pavese ci invita a leggere quest’opera tenendo a mente la Bibbia. Solo così si vedrà come quello che potrebbe parere un curioso romanzo d’avventure si svelerà un vero e proprio poema sacro. Questo è evidente dal primo estratto di citazione: «E Dio creò grandi balene», fino all’epilogo di Giobbe: «E io solo sono scampato a raccontarvela». Il riferimento a Moby Dick nel libro di Sepúlveda è chiarissimo, tanto che la balena racconta di essere stata battezzata dai balenieri Mocha Dick per la difficoltà che hanno tutti nel catturarla.
Da dove nasce in Sepúlveda l’idea di raccontare questa storia? Come sempre, da un desiderio di sensibilizzazione all’ambiente. Le sue non sono mai semplicemente storie di animali. Sono sempre testimonianza di un mondo in cui il rapporto pacifico tra uomo e natura è stato sovvertito. Questo racconto per esempio è ispirato a un episodio, che avvenne nel 2014 a Puerto Montt, in Cile, dove venne ritrovata la carcassa di una balena bianca morta. Il racconto nel libro infatti comincia proprio a partire da questo momento.
Il rispetto degli animali verso gli umani e la loro capacità di distinguere chi sono gli amici e i nemici emerge con forza già dalle prime pagine della celebre Storia di una gabbianella e del gatto che le insegnò a volare, che denuncia ancora una volta i comportamenti scellerati degli uomini, in questo caso i petrolieri. Certo, tutti ricordiamo soprattutto il cartone La gabbianella e il gatto (D’Alò, 1998), a cui tra l’altro Sepúlveda partecipò, prestando la voce alla figura del poeta. Nel libro però l’ingiustizia della morte della gabbiana si avverte con più forza, soprattutto perché, ancora una volta, come nel caso della balena, è a lei che viene affidato il racconto. Sono sempre le vittime a parlare. Infilando la testa sott’acqua per acchiappare un’aringa, la gabbiana si ritrova immersa in una macchia di petrolio. Mentre aspetta la fine fatale, Kengah maledice gli umani ma poi riflette e si corregge: «Ma non tutti. Non devo essere ingiusta» (Sepúlveda 1996, p. 23).
Oltre alle petroliere infatti, a volte aveva visto avvicinarsi delle piccole imbarcazioni, che impedivano ai petrolieri di svuotare le cisterne. Disgraziatamente però quelle barche ornate dai colori dell’arcobaleno non sempre arrivavano in tempo per evitare l’avvelenamento dei mari, ciononostante Kengah non smette di essere riconoscente verso quelle persone. Ecco allora un altro carattere che gli uomini hanno da invidiare agli animali: il senso di gratitudine verso chi ha fatto loro del bene e soprattutto una memoria più forte nel ricordarlo. Sepúlveda non solo è sempre stato dalla parte degli animali attraverso la letteratura ma anche nella vita. C’era anche lui su quelle imbarcazioni, che impedivano di dare la caccia alle balene e di inquinare i mari. Kengah allora, prima di morire, avrebbe sicuramente pensato anche a lui. Nel 1982, quando Greenpeace bloccò il porto di Yokohama per impedire l’uscita della flotta baleniera giapponese, Sepúlveda trascorse con i suoi compagni quasi due mesi in acqua. Alla fine, quella battaglia fu vinta. La flotta infatti non lasciò il porto e nel 1984 la Commissione baleniera internazionale dichiarò la moratoria della caccia alle balene.
Certamente il suo attivismo a difesa dell’ambiente con Greenpeace ha una visibilità e un potere d’azione più immediato di quello portato avanti attraverso la letteratura. Ma la grandezza del suo impegno consiste proprio in questo, nell’aver messo contemporaneamente a disposizione il suo talento creativo e il suo tempo, partecipando alle varie missioni. Scegliendo di sensibilizzare i bambini al rispetto degli animali e alla difesa degli ambienti, lo scrittore cileno ha dimostrato di credere fermamente nel fatto che, come lui stesso ha affermato, se c’è una coscienza forte la lotta può essere vincente. Oltre a nutrire speranze nelle nuove generazioni, Sepúlveda dimostra di avere una grande fiducia nella forza e nel potere della natura di rigenerarsi. Quando Kengah atterra sul balcone del gatto Zorba, trova ancora la forza di deporre un uovo. Nella morte imminente crea la vita. Se gli uomini sono ostinati nella loro brama di distruzione, gli animali al contrario cercano di salvaguardare un equilibrio.
Le storie che Sepúlveda dedica agli animali, oltre a sensibilizzare ai temi ecologici, educano a valori come l’amicizia e la diversità. È questo certamente il caso di Storia di una lumaca che scoprì l’importanza della lentezza. L’idea di scriverla è nata dal desiderio dello scrittore di rispondere a una domanda del nipote che, nel vedere una lumaca, gli chiese perché fosse così lenta. Sul momento non seppe cosa dirgli e gli promise che con il tempo gli avrebbe risposto. Questo libro è la prova che la promessa è stata mantenuta. La lumaca nella sua lentezza ha una maggiore disponibilità nel guardare e capire le cose, rispetto a chi si muove velocemente. È una metafora del mondo moderno, che va a una velocità vertiginosa, senza capire il senso di quello che accade. Anche in questo caso il mondo animale si presenta come il modello ideale da osservare per riscoprire un altro modo di vivere. Dalle storie di Sepúlveda inoltre emerge ancora un altro aspetto sulla superiorità degli animali rispetto agli uomini: un senso del sacro più forte del nostro e un’obbedienza alle leggi della natura che noi abbiamo dimenticato.
Riferimenti bibliografici
J. Derrida, L’animale che dunque sono, Jaca Book, Milano 2006.
H. Melville, Moby Dick, Feltrinelli, Milano 2007 (prima traduzione italiana a cura di C. Pavese, Adelphi, Milano 1941).
C. Pavese, La letteratura americana e altri saggi, Einaudi, Torino, 1990.
L. Sepúlveda, Storia di una gabbianella e del gatto che le insegnò a volare, Salani, Firenze, 1996.
Id., Storia di una lumaca che imparò l’importanza della lentezza, Guanda, Milano, 2013.
Id., Storia di una balena bianca raccontata da lei stessa, Guanda, Milano, 2018.