In apertura del suo Il contratto naturale Michel Serres pone l’immagine del Duello rusticano di Goya, descrivendo la scena in questa maniera: «A ogni movimento [dei duellanti], un buco viscoso li inghiotte, così si seppelliscono insieme poco a poco. […] L’abisso in cui si precipitano è qualcosa che i belligeranti non s’immaginano — noi invece, dall’esterno, lo vediamo benissimo» (Serres 2019, p. 9).
Vale la pena ricordare che l’immagine del duello rusticano come la conosciamo non è l’immagine del duello rusticano come è stata dipinta da Goya, originariamente con le gambe dei duellanti intatte. Il Duello si presenta oggi, piuttosto, come l’apparizione di una ferita all’interno della cornice dell’immagine, in cui una contingente cancellazione delle gambe dei protagonisti del quadro lascia emergere qualcosa di ben più mostruoso della schermaglia: la catastrofe. Attraverso un’immagine e poche righe di testo Serres riesce così a enunciare la posizione nella quale ciascuno di noi si trova di fronte alla catastrofe.
Duello rusticano ci pone di fronte a un’immagine estrema? Certo che no. Tuttavia siamo al cospetto di un sintomo che, come una ferita, segnala un punto d’esposizione nella carne viva. È allora dall’esposizione di questa carne che la domanda dalla quale prende avvio Sentire il grisou di Didi-Huberman (Orthotes 2021) ci sarà d’aiuto per immaginare l’inimmaginabile: «Come veder venire la catastrofe?» (Didi-Huberman 2021, p. 23). L’ingiunzione a immaginare l’inimmaginabile è un leitmotiv nella produzione di Didi-Huberman, una disposizione a non ubbidire al comando del negativo. Si pensi al celebre Immagini malgrado tutto (2003) il cui scopo è immaginare ciò che si è detto inimmaginabile per eccellenza: Auschwitz e i campi di sterminio. È qui che Didi-Huberman scrive che «Auschwitz è solo immaginabile» (Didi-Huberman 2005, p. 66) per ricordarci come, proprio in quanto l’esperienza diretta del campo è per noi contemporanei europei preclusa, dobbiamo almeno poter immaginare.
Il caso di Auschwitz è così paradigmatico: in quanto delle immagini sono state effettivamente prodotte in un certo tempo nel passato, si potrebbe supporre, immaginare diviene di fatto possibile. Come immaginare però la catastrofe a venire? Del futuro non possediamo alcuna immagine ed è lo stesso Didi-Huberman a ricordarlo:
L’infinita crudeltà delle catastrofi è che diventano visibili troppo tardi, quando ormai hanno avuto luogo. Le più visibili — le più evidenti, le più studiate, le più universali — le catastrofi insomma alle quali si fa spontaneamente ricorso per intendere che cos’è una catastrofe, sono catastrofi che furono, catastrofi del passato (Didi-Huberman 2021, p. 23).
Siamo così condannati ad avere una visione delle catastrofi del passato, imprigionati nell’impossibilità di cogliere in immagini il futuro. Il potere della negazione dell’immagine si fa qui sempre più pressante: una catastrofe si impone nel futuro e la sua vista ci è definitivamente preclusa.
Didi-Huberman però non vuole arrendersi di fronte alla linearità del tempo progressivo. Così Sentire il grisou diviene un saggio sull’anacronismo delle temporalità — temporalità che sono in grado di sopravvivere, attraverso un nuovo montaggio, per lasciar vedere quell’inimmaginabile futuro che, per ciò stesso, va immaginato. Arrovellato in un tempo normale, che passa da solo, generatore d’abitudini sedimentate, Didi-Huberman monta un tempo latente che segnala la crisi. Tuttavia, come mostrarla questa crisi? Il gas grisou — un gas inodore e incolore in grado, se concentrato, di provocare esplosioni nelle miniere — diviene metafora dell’emergenza che è necessario immaginare al fine di scongiurare la catastrofe sepolta. Non è un caso se Didi-Huberman decide di scegliere il cinema, operazione di montaggio per eccellenza, per presentare questa tensione interna al banale. Il riferimento che occupa buona parte di Sentire il grisou è La rabbia (1963) di Pasolini, un’opera di rimontaggio di materiale d’archivio in grado di mostrare una «verità inosservata» (ivi, p. 68) in un mare di immagini normali, spesso immonde e ottuse, dei telegiornali.
La rabbia ci permette così di comprendere in quale maniera trattare le immagini, con le sue «tre voci» (ivi. p. 81): una voce del potere, una voce porosa o critica e una voce in poesia. La voce del potere è la voce letterale delle immagini, ciò che è mostrato in quanto tale nella sua quotidianità ordinata. La voce critica è la voce contrappositiva, il negativo o lo smontaggio, che funziona da contrappunto politico esasperato a un immaginario esasperante. Infine la voce poetica è la voce di una bellezza impura e tumefatta, lacerata in se stessa, capace di «implicare il suo altro, che è il dolore più antico» (ivi, p. 105). Non è un caso, forse, se questa risonanza estrema tra cinema e poesia si è data. La poesia è infatti un’operazione testuale eccedente, che opera per composizioni ibride di parole e immagini patiche. Il cinema, rimando la poesia, è altrettanto impuro, sottoposto com’è a una «doppia origine», documentaria e fantastica, «più sottile di una semplice […] opposizione» (Dottorini 2018, p. 8). Un’immagine poetica, tuttavia, non è necessariamente un’immagine sublime, ma può essere anche un’irritazione che brucia nella stessa carne della storia. Didi-Huberman, per mezzo dell’opera pasoliniana, mostra tutta l’intensità dalla quale la rabbia poetica scaturisce, come volo d’uccello tra le pareti ottuse di una miniera sotterranea. È da qui che emerge la figura dell’arrabbiato — colui che non tollera d’accordarsi con l’abitudine in nessun sistema che sia stabilito. Una condizione che è quella dell’abgioia o «disperata vitalità» (Didi-Huberman 2021, p. 125), una modalità del sentire che è tanto poetica quanto filmica in Pasolini.
«Come veder venire la catastrofe?» diviene allora una domanda che collega direttamente temporalità che, pur essendo eterogenee, si incrociano e si ibridano a più riprese. È il montaggio a permetterci, in definitiva, di immaginare attraverso un nuovo uso di immagini che altrimenti sarebbero costrette alla semplice archiviazione documentaria. Come scrive Didi-Huberman: «In gioco è il destino di una politica della memoria: usi inventivi contro usi conformisti, usi liberatori contro usi coercitivi» (ivi, p. 135). In questa maniera il montaggio delle immagini permette un uso sopravvivente: di fronte alla morte come canone stabilito la potenza rigeneratrice emerge direttamente dalla ferita mortale. Affrontare la catastrofe sarà dunque prendere atto delle immagini di morte «per smontarle e quindi rimontare la vita stessa, instaurando così una forma di sopravvivenza» (ivi, p. 141). Si sopravvive, sembra suggerire Didi-Huberman, solamente a patto di liberare una rabbia fin troppo repressa, intollerante verso ogni forma di ingiustizia — in ogni luogo, in ogni tempo.
Riferimenti bibliografici
G. Didi-Huberman, Immagini malgrado tutto, Raffello Cortina, Milano 2005.
D. Dottorini, La passione del reale. Il documentario o la creazione del mondo, Mimesis, Milano-Udine 2018.
M. Serres, Il contratto naturale, Feltrinelli, Milano 2019.
Georges Didi-Huberman, Sentire il grisou, Orthotes, Napoli-Salerno 2021.