Qualche giorno fa, alcuni topi dispettosi hanno invaso il bagno dello street artist Banksy: nelle foto dell’“assalto” un topo è appeso allo specchio, un altro corre sulla carta igienica, un altro ancora fa schizzare il dentifricio sulla parete. La perfetta compenetrazione tra oggetti ordinari e gesto artistico – centrale nell’ultima operazione di Banksy – ci fa nuovamente riflettere sul momento che tutti stiamo vivendo e sulla natura degli spazi che condividiamo: se, da un lato, le foto sono state accolte con entusiasmo dalla rete, dall’altro è stato lo stesso artista a sottolineare (forse con ironia, forse no) la reazione di sua moglie che “odia quando lavora a casa”. Tuttavia, in questo caso, non è tanto importante concentrarsi sulla natura dell’opera, sulla sua ricezione, addirittura sulle dinamiche familiari oppure interrogarsi di nuovo sull’identità dell’artista, quanto soffermarsi sull’analisi di un innegabile e incontrovertibile fatto: lontani dal mondo di fuori, riproduciamo quel mondo all’interno delle nostre case.

Come scrive Roberto De Gaetano, il virus ci ha messi di fronte alla consapevolezza di essere radicalmente esposti al fuori, in quanto esseri umani: sottoposti a un processo di “spettacolarizzazione” della pandemia, nelle narrazioni la malattia viene sezionata, ingrandita, numerata, rappresentata. Ecco che – riprendendo l’analisi di Mauro Carbone – gli schermi diventano strumenti per “comunicare e proteggersi dal contatto umano”, perché permettono di fare una doppia esperienza, agendo sia come mediatori del mondo esterno nel mondo interno, sia come mediatori del mondo interno nel mondo esterno. In questo senso, gli schermi coprono non soltanto la necessità di sapere cosa succede fuori, ma anche di far sapere che cosa succede dentro, nello spazio privato e individuale. Dunque, che cosa sono diventate le nostre case?

C’è un aspetto su cui riflettere: alcuni ambienti privati sono diventati luoghi istituzionali. Limitando il raggio di analisi al caso delle università inaccessibili a studenti e docenti, vediamo quanto questa trasformazione abbia riguardato tutti gli attori normalmente coinvolti in quella pratica messa in atto dall’istruzione. Di fatto, venendo meno lo spazio comune, ogni partecipante – in quanto parte di un sistema istituzionalizzato – ha dovuto disporre del proprio spazio privato per mantenere attivo l’accesso al discorso. Accanto alla didattica a distanza, agli esami in remoto, alla discussione delle tesi senza applausi, è bello notare che non siano venute meno quelle attività formative di approfondimento in cui il normale ciclo delle lezioni si sospende per prendere respiro e ascoltare voci nuove.

Il 15 aprile oltre duecento persone si sono ritrovate in una stessa stanza dai confini borgesiani – poiché impossibile da pensare in termini architettonici e strutturali – per prendere parte al seminario online Viralità mediale. Immaginario e realtà al tempo del virus, a cura di Adriano D’Aloia, organizzato dal Dipartimento di Architettura e Disegno Industriale dell’Università della Campania “Luigi Vanvitelli”, con interventi di Ruggero Eugeni, Angela Maiello, Francesco Parisi, Marco Pedroni e Mario Tirino. Tre domande hanno stimolato le comunicazioni dell’intero panel: gli schermi ci mostrano o ci nascondono il mondo? Le reti ci connettono o ci separano? La tecnologia ci salva o ci condanna?

Se, come hanno anche ricordato Pierandrea Amato e Alessia Cervini, il collasso degli immaginari sociali era stato anticipato dalle narrazioni distopiche, nel suo intervento, Mario Tirino ha messo in luce quanto la narrazione tecnofobica in atto conduca a due esiti principali: la creazione di una coesione sociale determinata da un sentimento di panico verso il futuro; l’amplificazione di questo stesso sentimento, dovuta alla frammentazione mediatica attraverso cui l’esperienza del virus ci viene restituita. In questo senso, il crollo degli immaginari collettivi supera quanto lo spettatore ha già avuto modo di vedere in racconti seriali che precedono, ma non anticipano la situazione attuale. Attraverso questa prospettiva, anche la narrazione di Black Mirror – più volte richiamata per descrivere il modo in cui i nostri giorni scorrono ridisegnati dal Coronavirus – esemplifica il cortocircuito del pensiero di fronte alla diffusione pervasiva di tecnologie che, sfuggendo al controllo della collettività, generano una paranoia globale. Come superare questa incapacità che ci ancora alle immagini del presente, impedendo la creazione di un corredo immaginario comune e futuro? Quanto la premediazione ci aiuta effettivamente a contenere l’ansia, senza per questo alimentare la paranoia?

Nel secondo intervento, Angela Maiello compie un passo ulteriore, riflettendo sul fatto che la mediazione è un processo radicale che ci riguarda direttamente: siamo noi i vettori del virus, siamo noi il suo medium. Essere mediatori, in questo caso, non si riflette soltanto sul fatto che il contagio si ferma se ci fermiamo, ma anche sulla nostra “capacità divulgativa” (e affettiva) che ci mostra quanto evento e rappresentazione non siano più distinguibili l’uno dall’altra. In questa compenetrazione, Maiello parla di tre binomi complementari: il virale e il mediale; il biologico e il mediologico; il politico e il medico. In questo quadro, anche la nostra mano assume un valore ambivalente perché, da medium princeps per stabilire la connessione con l’altro, è diventata anch’essa uno strumento per contenere il mondo, trattenendo allo stesso tempo il dispositivo. E, se è vero che l’ambiente è sempre il risultato di una mediazione tecnica e tecnologica, lo sforzo che dovremo compiere è quello di immaginare uno spazio che possa sì contenere il virus, senza trattenere del tutto la nostra capacità mediale.

Si tratta, in fondo, di ripensare la nostra capacità di adattamento nell’ecomedia, come suggerisce – subito dopo – Francesco Parisi, di raggiungere un equilibrio fra noi e gli spazi che abitiamo, perseguendo una forma di reciprocità in cui il condizionamento è frutto di un attento processo egualitario. Tale riorganizzazione ambientale si renderà possibile soltanto laddove saremo in grado di modulare la nostra percezione del mondo, pur dovendo riconoscere che la nostra percezione sarà sempre relativa e parziale. Cosa abbiamo fatto per adeguare la nostra percezione al virus? Abbiamo creato un insieme di narrazioni entro le quali inquadrarlo, conferendogli un significato gestibile e manifesto attraverso il linguaggio. In questo modo, prosegue Parisi, il virus ha acquisito una sua visibilità e, in fondo, questo è l’unico modo che abbiamo per farci ragione di una situazione che non sappiamo dire altrimenti: animali difettivi perché incapaci di un adeguamento totale, monitoriamo il costrutto linguistico che noi stessi abbiamo formulato.

Ecco che, continua Marco Pedroni, sopraffatti dalla quantità delle narrazioni, non riusciamo più a trovare un ordine nella moltitudine dei discorsi che, naturalmente, si declinano in tre modi, risolvendosi in: una narrazione epidemiologica; una narrazione domestica; una narrazione utopica. Spinti da un codice linguistico che adotta metafore belliche funzionali alla descrizione della pandemia, siamo portati a leggere la realtà attraverso nuove categorie – l’eroe, il disertore, il comandante – e, troppo spesso, dimentichiamo che “la romanticizzazione della quarantena è un privilegio di classe”.

Nelle conclusioni, Ruggero Eugeni suggerisce di considerare quanto sia centrale il rapporto tra contagio e contatto: il virus diventa una parte del nostro corpo, abita dentro di noi, cambia il nostro modo di dire il mondo e di farne esperienza. Anche per questo, è necessario osservare con attenzione i meccanismi di sovranità che regolano la nostra vita oggi, cercando di preservare quel senso viscerale di incertezza che, allo stesso tempo, permette di difenderci dal rischio.

Dunque, che fare? Potremmo allenarci – tutti insieme – a prevedere lo scenario più drammatico, il più ampio e tragico orizzonte degli eventi che si sia mai potuto figurare nello storico degli immaginari collettivi. Potremmo continuare a raccontare ciò che non vedremo mai, se non come effetto sul nostro corpo. Potremmo puntare il dito contro chi si muove in maniera contraria alla norma imposta ma, poi, servirebbe davvero? Continueremo a fare tutto questo fino a quando, torneremo a guardarci da vicino, così tanto da non capire più che cos’è quell’insieme di pelle e sudore che contiene occhi, naso e bocca. Allora, la capacità di mediare il virus dell’essere umano sarà più una consapevolezza che un ricordo.

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