Entrando, il pubblico trova sulla scena tutta bianca seduti in cerchio, gli attori, in candide vesti. Salmodiano una melodia di John Cage. C’è una scritta proiettata sul fondo: “Le persone che vedete in meditazione mirano a ottenere la levitazione dell’attore seduto al centro. Se il tentativo avrà successo, la rappresentazione si riterrà conclusa. In caso contrario, verrà rappresentato lo spettacolo Scene da Faust”.
Fedele al “prologo in teatro”, Tiezzi ci pone subito di fronte a ciò che Goethe, a proposito del Faust, definiva l’incommensurabile. Ed è una sfida al cielo tanto quella di Faust, quanto quella della “scommessa” che Mefistofele gioca con il Signore nel successivo “Prologo in cielo”. Faust si affida, dopo aver percorso la strada delle scienze, alla magia. Mefistofele, in questo senso, è un doppio di Faust, “una parte di quella forza / che vuole sempre il male / e compie sempre il bene”, l’ombra che è necessaria alla luce. Tutto lo spettacolo sembra affidarsi a questa dualità, a un doppio passo: la dicotomia connessa di forma e forza.
La levitazione che non avviene dà luogo a tale dialettica, che è quella di un’altra connessione doppia, tra dannazione e redenzione. È lo Spirito della Terra che invoca Faust ed è a questo spirito che dedica sia la dannazione che la redenzione: sollevarsi dal suolo, liberarsi della terra tramite le forze della terra. Ciò compie un destino che Goethe risolve, per intercessione dell’Eterno Femminino che ci trae in alto, nell’ascendere al cielo. Ma questo cielo, questa perfetta simmetria celeste, questa incommensurabilità redentiva, può realizzarsi solo nel succedersi della dannazione di Faust. Nel punto dove ogni misura viene meno e necessariamente qualcosa si spezza, nella tensione per dischiudere una forza senza misura in cui la forma si risolve e nasce.
Il teatro di Tiezzi, fin dagli inizi del Carrozzone e dei Magazzini Criminali, ha messo alla prova (come suggeriva il titolo di uno dei suoi spettacoli di quel periodo) il punto di rottura. Tiezzi ha provato il teatro procedendo per misurazione di scene, di spazi e per forzature dei corpi. I corpi in scena del teatro di Tiezzi sono sempre dei serbatoi di forze spinti fino alla soglia della disincarnazione, mediante un perseguire continuo la forma incarnativa. Insomma una sfida faustiana. Ciò spiega come l’incontro di Tiezzi con Faust sia connesso a un doppio: «Mi piace pensare a Mefistofele – scrive nelle note di regia rivolte non a caso Agli Attori – come a un doppio di Faust, il suo specchio, il suo inconscio: Mefistofele raddoppia concetti e idee di Faust, ma li devia, li ironizza, li deturpa» (Tiezzi 2020, p. 9). Ed è davanti a uno specchio che Faust incontra Mefistofele.
Lo spettacolo procede per scene che sono (come gli Screen di Gordon Craig) altrettanti schermi/specchi che assorbono e rimandano la luce, il trascolorare della luce, il riverbero delle ombre. Il grande spazio bianco è delimitato da sei soglie laterali e da una grande parete bianca di fondo. Una forma che è il rovescio di superficie del fondo folle della forza. E ogni volta il nitore formale e abbacinante dei movimenti, delle luci (mirabile il loro uso ad opera di Gianni Pollini), delle posture, è come spezzato dall’insinuarsi, fino al loro irrompere, delle forze. Forme e forze scaturite proprio dalla precisione nervosa degli attori (a cominciare da un Marco Foschi spleenetico Faust, e dalla Gretchen di Leda Kreider, la cui evanescenza composta si rompe in ricorrenti crolli nervosi che rimandano alle posture isteriche della Salpêtrière).
Questa sospensione, e insieme questa precipitazione, percorre lo spettacolo alludendo di continuo a un sollevarsi che resta invisibile, incommensurabile. Infatti nel “Prologo in cielo” gli arcangeli sono sospesi a testa in giù (come un’immagine cabalistica, di albero rovesciato), tenuti da ganci, con le cinture che mettono a prova di resistenza i loro corpi nudi e prefigurano il precipizio dai cieli di quegli angeli che (come Mefistofele) sono caduti sulla terra. Infatti le scene sono ricorrentemente solcate, nel predisporre gli spazi e gli oggetti, da figure racchiuse in una tuta antisettica che ne nasconde i corpi (simili alle figure fantascientifiche che percorrevano la foresta portoghese in Lo stato delle cose di Wenders). È come se il mondo fisico e biologico, ci dice Tiezzi, sia spinto a sfuggire, come in una camera di compensazione, traducendo in questa atmosfera visiva lo Streben goethiano, l’anelito, il punto in cui la forma irraggiungibile incontra la forza incommensurabile, e cioè il punto abissale del desiderio.
Come avviene per Don Giovanni questo punto che fa da leva per l’assalto al cielo è l’eros. E l’agente di questo desiderio, la parte di forza che vuole il male compiendo il bene, è Mefistofele. Il deviatore, l’obliquo ironico, l’ombra incappucciata e poi rivelata nella sua redingote, è l’espressione di questo punto di contatto tra forza e forma, colui che conduce nell’incommesurabile delle scene. Sandro Lombardi è magistrale nel modulare e misurare, e insieme smisurare, questo passo d’ombra. Non a caso qui, nella straordinaria cadenza di Lombardi, il richiamo è alla natura stessa dell’attore. Appare, Mefistofele, come un attore espressionista.
Il richiamo è ai grandi delle scene e degli schermi tedeschi, dall’Emil Jannings (che fu Faust per Murnau) al sinistro Conrad Veidt (che sempre per Murnau fu Satanas), fino al Mephisto (“Vada fuori attore!” come nella battuta del film di István Szabó) immaginato da Klaus Mann pensando al mitico Gustaf Gründgens (che aveva sposato la sorella, Erika Mann). Ed è un brano di Thomas Mann, del suo Doctor Faustus, che Tiezzi pone in esergo al libretto dello spettacolo (con la traduzione da Goethe di Michele Sinisi). Il brano in cui fa la sua comparsa, seduto nel buio sul divano a gambe incrociate, il diavolo stesso, come un mezzano, un lenone, “la voce articolata come quella d’un attore”.
Nella tersa procedura scenica di Tiezzi il richiamo espressionista è come messo tra virgolette, è un prelievo che risulta tanto più sinistro quanto più viene congelato. In questo senso stanno gli “intermezzi” visuali che sospendono, come una landa desolata sotto una lastra fotografica (facendo pensare a T.S. Eliot), l’azione, la inceneriscono sotto una grande lampada, sollevando il lembo di un mantello di feltro, afferrato dai denti di un cane lupo imbalsamato (e in uno di questi intermezzi la scritta al neon “Natura” rimanda a Joseph Beuys). In questo senso stanno le scimmie kubrickiane che saltellano nella cucina della strega, che qui diventa una camera operatoria, un gabinetto frankensteiniano. In questo senso sta il suggestivo lavoro vocale e i prelievi musicali (dal gregoriano, ai Lied romantici, alla musica espressionista), ad opera di Francesca della Monica.
Tutto avviene come “in vitro”, come in un esperimento in cui dal calibro della forza scaturisce una forma in sospensione, come in una provetta. Una filogenesi di Faust. La sua figura, raddoppiata ironicamente da Mefistofele, insorge ogni volta come sulla superficie rovesciata tra terra e cielo, come in un esperimento alchemico che induce la redenzione attraverso l’inabissamento. Faust è sempre sul punto di essere redento e dannato, eppure, nella contraddizione tra forma e forza, non lo può essere contemporaneamente, ma solo in una posizione ambigua, un “piano di immanenza”, direbbe Deleuze.
Ciò che dobbiamo focalizzare in un’opera tanto gigantesca e complessa come il Faust di Goethe è l’ambiguità. Goethe inserisce deliberatamente il suo Faust nella dialettica oscillatoria di una polarità: Dannazione-Redenzione. […] L’ambiguità del Faust […] è in tutta la forza del suo irresolubile domandare. […] Faust non può essere contemporaneamente perduto e salvato. E tuttavia solo questa contemporaneità fonda e spiega il mito di Faust e la sua proiezione nella storia dell’uomo. […] il dramma è immanente alla vocazione umana: non comporta né una iniziale pro-vocazione trans discendente, né una finale in-vocazione trans ascendente (Neher 1989, pp. 99-102).
La strada di questa filogenesi sembra indicata nello spettacolo con quello scoprirsi del grande quadro di Courbet L’origine del mondo. È la strada che si inoltra nella spalancata origine del sesso femminile. Soltanto nell’accesso all’eros, cui lo induce la sua ombra mefistofelica, e soltanto con la luce che si accende nella notte dell’eros, Faust può toccare con mano la sua intima, e palese, incommensurabilità. “Vieni, vieni!” dice Faust, “Là fuori” gli fa eco Margherita, “Libertà” risponde Faust, per concludere con un inizio: “È quasi l’alba ormai”. Ma questa incommensurabile scena della (impossibile-possibile) liberazione dal carcere è suggellata dalle parole della invocazione agli Angeli di Margherita: “Heinrich! Tu mi fai orrore”.
“Cela s’appelle l’aurore!” è la frase finale dell’Elettra di Giraudoux, come quella di Prénom Carmen di Godard, oltre che il titolo di un grande film di Buñuel. Appunto: l’orrore si pronuncia come l’aurora.
Riferimenti bibliografici
T. Mann, Doctor Faustus, Mondadori, Milano 2017.
A. Neher, Faust e il Golem, Sansoni, Firenze 1989.
F. Tiezzi, Scene da Faust, versione italiana da Goethe di M. Sinisi, L’obliquo, Brescia 2020.
*Le immagini presenti nell’articolo e in anteprima sono foto di scena di Luca Manfrini.
Scene da Faust. Testo: Johann Wolfgang Goethe; regia e drammaturgia: Federico Tiezzi; interpreti: Dario Battaglia, Alessandro Burzotta, Nicasio Catanese, Valentina Elia, Fonte Fantasia, Marco Foschi, Francesca Gabucci, Ivan Graziano, Leda Kreider, Sandro Lombardi, Luca Tanganelli, Lorenzo Terenzi; scene e costumi: Gregorio Zurla; luci: Gianni Pollini; regista assistente Giovanni Scandella; coreografie: Thierry Thieû Niang; canto: Francesca Della Monica. Durata: 1h 55’.