Già considerato archetipo del realismo ottocentesco (Balzac), e poi soprattutto del naturalismo, grazie all’immagine topica di un Petronio che perlustrava i bassifondi romani, il Satyricon ha trovato infine una piena consonanza con le poetiche del Novecento, che ne hanno valorizzato la forma aperta ed enciclopedica, l’ibridazione stilistica, e perfino l’incompiutezza e lo stato frammentario, che da accidenti storici si sono trasformati in motivo di attrazione. Petronio è diventato così uno degli ispiratori del neo-picaresco, che da America di Kafka e dal Viaggio al termine della notte di Céline si propaga fino al road movie e a tanta narrativa postmoderna.
Non sono mancate anche le riscritture dirette del Satyricon: Francis Scott Fitzgerald aveva intitolato Trimalchio la sua prima versione di The Great Gatsby, non solo per il tema dell’arricchimento volgare e ostentato, ma anche per l’atteggiamento scettico nei confronti della materia narrata che lo accomuna al romanziere latino. Una vera ondata di riprese dirette si ha nel secondo Novecento, in particolare nell’Italia degli anni sessanta, quando il Satyricon diventa un modello di sperimentalismo: basta pensare all’opera poliglotta di Bruno Maderna, capofila dell’avanguardia musicale (Satyricon, 1973), a cui si allude nello spettacolo di De Rosa a proposito dell’elenco vertiginoso dei beni finanziari di Trimalcione (non a caso in tedesco), o a un altro capofila di movimenti avanguardistici, a Edoardo Sanguineti, che, oltre ad aver tradotto liberamente il testo ne Il gioco del Satyricon (1969), lo ha reimpiegato fra i modelli del suo Capriccio italiano (1963); mentre un nemico delle neo-avanguardie come Pier Paolo Pasolini definisce il suo romanzo più sperimentale, rimasto incompiuto, Petrolio, «un Satyricon moderno».
Petronio è inoltre uno dei numi tutelari dello scrittore camp per eccellenza in Italia, Alberto Arbasino, che lo ha ripreso più volte in Fratelli d’Italia (soprattutto nella terza, monumentale versione del 1993), e in effetti il Satyricon può essere considerato un archetipo del riuso ironico della cultura di massa. La versione più famosa, il Fellini Satyricon (1969), contiene certo tratti tanto del neo-picaresco, quanto del camp, soprattutto nell’accentuazione della teatralità e dell’artificiosità (nel colore, nella recitazione, nella musica, nell’onirismo), ma per il resto punta su altri registri: sul simbolismo junghiano e sulla visione complessiva della decadenza dell’Impero romano.
Il concetto di decadenza è anche il punto di partenza di questo spettacolo. Andrea De Rosa ha un rapporto di lunga data con l’immaginario antico e le sue riscritture, soprattutto grazie a due spettacoli memorabili: l’Elettra di Hofmannsthal (2004), in cui il lavoro eccellente sul suono di Hubert Westkamper creava un’immersività onirica molto seducente; e le Baccanti di Euripide (premio UBU per la regia, 2017), che scandagliavano, con incredibile intensità espressiva, il tragico nel dionisismo contemporaneo e nella sua assenza di limiti (e si potrebbero ricordare anche l’Encomio di Elena di Gorgia e la Fedra di Seneca).
Passare dai riti dionisiaci e androgini, attualizzati in chiave rock, dell’ultima tragedia di Euripide al romanzo latino di Petronio non è stato certo un grande salto: anzi, lo si può considerare la continuazione della stessa ricerca espressiva. La messinscena di un testo frammentario, che copre solo una piccola parte di un insieme perduto, è un’impresa abbastanza delicata: De Rosa ha deciso perciò di affidare l’adattamento di Petronio a uno degli scrittori e sceneggiatori più attivi e più noti in Italia, Francesco Piccolo, che ha scelto come chiave di lettura la decadenza linguistica della società contemporanea, ispirandosi anche alle sue esperienze dirette di vita a Roma, come racconta nel programma di sala.
La bravura di Piccolo è indubbia, e anche la sua sintonia con tanti temi di Petronio, che scriveva in un linguaggio molto ibridato, mischiando sublime, grottesco ed osceno. Credo però che il suo adattamento sia l’elemento più debole dello spettacolo, e anche la ragione principale della sua scarsa riuscita. Tutto concentrato sulla festa mondana e sull’ossessione gastronomica che caratterizza la nostra epoca (la Gastromania di cui ha parlato Gianfranco Marrone in un bel pamphlet), il testo non regge un intero spettacolo, e risulta un po’ debole e scontato. Alla fine si ha troppo spesso la sensazione di trovarsi in una delle feste de La grande bellezza di Sorrentino.
Fra l’altro, proprio il genere linguistico del menù, che viene ripetutamente parodiato nello spettacolo con efficaci effetti comici (gli attori interrompono spesso i loro discorsi per elencare pietanze dai nomi sempre più improbabili, o lanciano esclamazioni corali su ingredienti alla moda come la curcuma o lo zenzero), è un genere in cui non si nota quell’impoverimento linguistico di cui si parla più volte nel programma di sala, come cifra del nostro contemporaneo. Il lessico gastronomico che impazza nelle trasmissioni televisive e nei ristoranti più o meno creativi potrà sembrare affettato, ricercato o stucchevole, ma certo è tutt’altro che povero.
La regia di De Rosa ha comunque una sua forza espressiva e una sua efficacia scenica. Soprattutto nell’incipit, che vede al centro tre ragazzi che si interrogano sul da farsi per la serata (allusione al triangolo omoerotico protagonista del romanzo di Petronio), e che ripetono meccanicamente frasi vuote, fra nonsense e teatro dell’assurdo. Anche quando la festa inizia, la ripetizione martellante degli stereotipi linguistici e dei gesti rituali (lo scambio di baci sulle guance) viene stilizzata nella danza e nel ritmo della musica. Al centro della scena tutta dorata (lo spettacolo è anche una riflessione sul Kitsch contemporaneo e sull’ostentazione) troneggia un water d’oro, chiara allusione all’opera di Maurizio Cattelan, circondato di corde nere. Dentro si staglia il Trimalcione di Antonello Iuorio con la sua esuberanza corporea: la sua recitazione sa intrecciare perfettamente il dialetto con le espressioni snob, l’origine popolare con la volgarità dell’arricchito.
Sfruttando la profondità della scena, sul limite del proscenio gli fa da contraltare sua moglie Fortunata, forse l’invenzione drammaturgica più felice di questo adattamento. Con il suo corpo nudo e diafano questo personaggio di ambientalista vegana un p0′ fondamentalista rappresenta un’altra fonte di stereotipi e di discorsi standardizzati del mondo contemporaneo, anche se la sua voce nel finale sembra suggerire un’apertura positiva sul futuro.
Il momento più bello e interessante dello spettacolo è senza dubbio il finale, con le prove del funerale di Trimalcione. Piccolo recupera anche il particolare del testamento di Eumolpo che prevede la clausola che il cadavere sia mangiato, particolare che nel nostro testo di Petronio ricorre nel finale un p0′ misterioso del Satyricon a proposito del poetastro Eumolpo e non nella Cena di Trimalcione, ma che si adatta benissimo a questo finale. È un momento di grande teatralità, grazie anche alle luci un p0′ oniriche di Pasquale Mari: come in Petronio e come in tanto immaginario barocco il vitalismo sfrenato (cibo, sesso, scatologia) si fonde con un senso di morte. La comicità tocca così nuclei antropologici primari, come ci hanno insegnato i saggi su carnevalesco di Bachtin, che danno molto spazio a Petronio e al romanzo latino.
Se lo spettacolo avesse saputo produrre questa potenza espressiva anche in altri momenti, avremmo avuto un altro grande Satyricon contemporaneo. Aver messo al centro invece il lamento sulla decadenza contemporanea, che era un tema usurato già ai tempi di Petronio (il quale si salva grazie al suo atteggiamento distaccato, mai moralista), ha creato invece un’occasione mancata.
Riferimenti bibliografici
M. Bachtin, Estetica e romanzo (1975), Einaudi, Torino 2002.
G. Marrone, Gastromania, Bompiani, Milano 2014.
*In anteprima e in copertina una foto di scena di Mario Spada. Fonte: Teatro Stabile Napoli.