L’architettura è il gioco sapiente,
corretto magnifico dei volumi raggruppati
sotto la luce.
Le Corbusier
C’è la luce del Mediterraneo nelle opere di Santiago Calatrava, in particolare nelle architetture. Una luce cercata, catturata in una visione da impressionista contemporaneo, guidata e animata da un afflato futurista ed esaltata nella rilettura moderna dell’architettura gotica. La mostra Santiago Calatrava. Nella luce di Napoli ci restituisce la «spazialità atmosferica, acuita dall’inquieto macchinismo bio-fitomorfico e dal gioco della luce (sia naturale che artificiale), difficilmente confrontabile con l’esperienza comune dell’architettura contemporanea» (Polano 1996, p. 16).
Una formazione poliedrica quella di Calatrava, iniziata con gli studi d’arte poi dirottati sull’architettura per l’incontro casuale con Le Corbusier: l’acquisto di un libro dedicato agli aspetti artistici nell’opera dell’architetto francese fu determinante per il passaggio alla Facoltà di Architettura di Valencia. Passaggio che ha costituito l’inizio della continua ricerca di un filo che tenesse insieme discipline spesso convenzionalmente separate e definisse così la figura di artista-architetto-ingegnere surmoderno capace di valicare – per dirla con Davide Borrelli in Ironia senza limiti (1995) – la «cornice [che] è insieme l’effetto e il simbolo della modernità, intesa […] come epoca della “estetizzazione dell’arte”, ovvero come epoca in cui la bellezza cessa di essere un attributo della realtà ma diventa un prodotto della creazione estetica» (ivi, p. 10). La cornice della singola disciplina è stata incessantemente valicata, oltrepassata da ponti che, prima ancora di divenire oggetto dei suoi progetti, hanno rappresentato superamenti e connessioni di peculiarità disciplinari che hanno continuato a esistere e influenzarsi reciprocamente nella ricchissima e variegata produzione di Calatrava.
Terminati gli studi di architettura e l’approfondimento con un master in Urbanistica, l’attrazione per il rigore matematico lo ha portato a Zurigo a conseguire una seconda laurea in Ingegneria Civile; l’interesse per il movimento fisico ripetitivo lo ha spinto ad approfondire gli studi e a specializzarsi, sempre presso il Dipartimento di Architettura dell’ETH di Zurigo, con un dottorato conclusosi con la tesi Zur Falthbarkeit von Fachwerken sulla piegabilità delle strutture e, finalmente, ad aprire il primo studio professionale proprio nella città svizzera, prima di aggiungere le sedi di Parigi e Valencia. Un percorso di studi che racchiude in nuce il processo progettuale degli anni a venire.
Polano individua già nei quattro interventi realizzati per la scuola di Wohlen (1983-88) delle «soluzioni prototipiche di una organizzazione strutturale delle forme, rimeditate più volte […]. La foglia della nervata pensilina metallica d’ingresso è una tesa immagine della resistenza della forma, mentre la grande tenda dell’atrio copre una corolla di petali lignei, disegnati dal lavoro delle forze. L’esile guscio della biblioteca, una specie di fungo a quattro vele, sospeso e svincolato dalla continuità perimetrale, grava su una colonna dal tipico profilo a fuso (quasi una cifra d’autore), esprimendo con intenso vigore plastico una ferrea logica di carichi e di spinte. Per la copertura dell’aula magna, infine, Calatrava utilizza una sequenza di archi lignei, con sezione fittamene segmentata a V (anch’essa destinata a molteplici riprese), e supporti inclinati, con capitelli taurino-zoomorfi, dando vita ad un interno fiabesco, ove trasparenza e leggerezza dialogano con la luce» (ivi, p. 10).
Le opere di Calatrava ci parlano con una lingua originale, il cui codice semiologico si arricchisce di volta in volta di forme zoo-antropomorfe e geometriche, evidenziando le strutture e le loro tensioni strutturali, esaltando le qualità dei materiali. Una lingua che discende dalla instancabile curiosità e ricerca sostenuta dal talento disegnativo e dalla formazione e produzione artistica mai abbandonata. Fondamentali quanto emblematici sono i taccuini di raccolta di schizzi e di idee, le opere scultoree, le ceramiche, gli oggetti di design, che costituiscono tasselli fondamentali di sperimentazione, analisi, studio e che si traducono, attraverso «continui salti di scala», nei progetti e nelle grandi strutture architettoniche.
I curatori della mostra (Museo di Capodimonte, 6 dicembre 2019 – 10 maggio 2020, ulteriormente prorogata fino al 22 agosto 2021) Sylvain Bellenger e Robertina Calatrava hanno inteso mostrare l’eterogeneità e l’interdisciplinarietà di Santiago Calatrava ed evidenziare come nella «sperimentazione di sodalizi tra diversi materiali, relazioni tra colori e toni, astrazioni e speculazioni sul mondo naturale, emerge costante la riflessione sul misterioso legame tra l’uomo, il mondo selvaggio della natura e quello alchemico dei materiali e delle tecnologie».
Il percorso espositivo parte da una sezione intitolata La ricerca del movimento che indaga il dialogo tra le proprietà tipiche dei materiali – in questo caso la malleabilità e la deformazione dell’alluminio –, la possibilità di passare dal bidimensionale al tridimensionale e le diverse percezioni che la luce offre attraversando le modanature; prosegue con architettura sacra, le cicladi, le geometrie della natura, le stazioni e lo stadio olimpico di Atene, i ponti, le forme della cultura. Ogni sezione ha una sua peculiarità ma tutte rimandano alla prassi progettuale composta da schizzi, acquerelli, modelli tridimensionali, sculture, analisi e studio dei dettagli costruttivi, attenzione ai materiali e, soprattutto, al rapporto con la luce e al ruolo fondamentale che svolge in tutti i progetti. Non solo maquette, ma sculture in legno, marmo e metalli, inoltre dipinti a pastello e carboncini per esplorare le torsioni dei nudi femminili e soprattutto acquerelli, molto utilizzati per lo studio dei dettagli in sezione che i curatori della mostra definiscono «percorso di meditazione della sua architettura», più di ogni altra tecnica capaci di rendere l’effetto di trasparenza e di permeabilità alla luce. Quell’architettura che per Calatrava «si fa da dentro verso fuori» e che perciò gli fa prediligere il disegno della sezione. La sezione, più delle altre viste, favorisce il dialogo con i materiali attraverso un’indagine osteologica che la trasforma in «una sorta di spina dorsale, che tiene assieme articolazioni ossee e tendini, una specie di fusto da cui germogliano ramificazioni e foglie» e che determina la «coazione di forme e materie nel progetto, il loro collaborare “in costruzione”, alle più diverse scale» (ivi, pp. 18-19).
Punto di forza del percorso espositivo diviene l’ulteriore dialogo tra il progetto e ciò che lo precede, tra i disegni di studio che ancora una volta sottolineano la «felice facilità di scrittura progettuale» – come scrive Sergio Polano. Una scrittura che procede tra schizzi, acquerelli, verso una sempre maggiore schematizzazione con il disegno al computer e infine la maquette. Di fatto in quasi ogni sala, gruppi di disegni o dipinti fanno da sfondo o meglio da cornice che accoglie e racchiude gli oggetti tridimensionali – scultura o maquette di architettura. Ancora un dialogo che conferisce ulteriore enfasi alla relazione tra i linguaggi artistici e all’importanza del passaggio dalla bidimensionalità alla tridimensionalità. Il dialogo con le linee di forza proprie del disegno bidimensionale – gli assi verticali e orizzontali – si traduce in torri e ponti passando per la modellazione delle forme (Turning Torso, Malmö), attraverso riletture di archi ogivali (Cattedrale di St. John the Divine, New York), o ancora nell’asciutta scioltezza come nel caso dei ponti ad arco tirante (Ponte sul Tamigi, ponte ad Almeda, …).
La mostra evidenzia che nell’opera dell’artista-architetto-ingegnere le diverse forme d’arte non dominano una sull’altra, né restano chiuse in se stesse. Anche se Calatrava sostiene che l’«architettura e la scultura sono due fiumi attraverso i quali scorre la stessa acqua» e che la scultura in quanto libera dal vincolo dalla funzionalità «è superiore all’architettura per la purezza di espressione», ciò non vuol dire che ne riconosca il predominio quanto piuttosto che nel progetto sia necessario far affiorare ed esaltare la peculiarità di entrambe. I continui passaggi dal bidimensionale al tridimensionale sono per Calatrava la dimostrazione che l’arte del XX secolo è stata caratterizzata da «elementi cinetici» e che l’esplorazione di queste trasformazioni lo ha condotto a interessarsi «al problema del tempo, del tempo come variabile» (Jodidio 2016, pp. 9-10, trad. mia) e a introdurlo come elemento progettuale dinamico in continuo dialogo con la luce.
L’ultima sezione della mostra è dedicata alle forme della cultura, cioè a spazi destinati ad ospitare luoghi d’arte e di educazione come testimonianza del valore che la formazione ha avuto e ha tutt’ora per il Da Vinci dei nostri tempi, come lo ha definito l’ex-consigliere americano Joseph Seymour. Spazi dedicati alla crescita culturale che si impongono per la cura dei dettagli, la scelta dei materiali, il rapporto con il paesaggio e l’ambiente urbano e la capacità di mostrare la ricchezza dei codici presenti nel suo linguaggio artistico.
A conclusione del percorso espositivo, nella sede distaccata del Cellaio, edificio borbonico destinato alla conservazione delle derrate alimentari all’interno del Real Parco di Capodimonte, gli organizzatori hanno immaginato un nuovo dialogo (nuovamente visitabile, ma solo nel fine settimana), tra 50 ceramiche e l’antica produzione della Real fabbrica di porcellana di Capodimonte: ceramica VS ceramica.
Le ceramiche mostrano il Calatrava artista, che guarda meticolosamente ai maestri di quest’antica arte e attinge dalla tradizione ellenica riprendendo la pittura vascolare a figure rosse su fondo nero e le decorazioni naturalistiche, vegetali della cicladica, ma anche da quella più ancestralmente iberica con le figure taurine, che ancora una volta assumono caratteri osteologici e si riducono a segno. La tavolozza si sofferma tra i colori caldi delle terre e degli ocra, ma non disdegna quelli freddi nei blu, celesti e verdi per definire le figure stilizzate.
Anche la ceramica sembra nutrirsi delle altre discipline artistiche e del «traffico della cultura» che continua ad attraversare le rotte del Mediterraneo. Traffico cui partecipano i maestri che hanno guidato la formazione artistica di Calatrava, da Michelangelo a Matisse, Cézanne e Picasso, da Gaudí, Julio González a Robert Maillart, Féliz Candela e Pierluigi Nervi.
Nel nuovissimo intervento nella chiesa di San Gennaro all’interno del Real Bosco di Capodimonte appena restituita al pubblico dopo 50 anni invece, il gioco tra le arti – finora in perfetto equilibrio – appare compromesso e sbilanciato per il prevalere della funzione decorativa. In nome della luce, il candore della piccola chiesa – voluta da Carlo di Borbone e realizzata dal Sanfelice – si oscura nell’intensità del blu oltremare (per qualcuno un richiamo a Giotto) e si trasforma in un set dal sapore di percorso multimediale tra tessuti, ceramiche e vetrate, disegnate dall’architetto catalano e realizzate dalle maestranze locali. Inevitabili le polemiche, anche in risposta ai ridondanti richiami appunto a Giotto, ma anche a Matisse, Dante e Virgilio, al possibile dialogo col Sanfelice, e le giuste critiche al «mescolarsi in modo inedito di arte contemporanea e barocco» che secondo Franceschini «dovrà indicarci la strada» per futuri interventi tra antico e contemporaneo. Strada, in questo caso, non ancora ben tracciata.
Riferimenti bibliografici
Le Corbusier, Verso un’architettura, Longanesi, Milano 2003.
P. Jodidio, Calatrava, TASCHEN GmbH, Köln 2016.
S. Polano, Santiago Calatrava. Opera completa, Electa, Milano 1996.
Santiago Calatrava. Nella luce di Napoli, 6 dicembre 2019 – 27 luglio 2021.