SanPa è una docuserie basata su circa duecento ore di materiali d’archivio, divisa in 5 parti, che consiste in 5 ore di interviste e testimonianze. Senza voce narrante, raccontata dai protagonisti, si presenta, anche attraverso le dichiarazioni dei suoi autori, come un tentativo di ricostruire la storia della comunità di recupero per tossicodipendenti più grande d’Europa. Ma, più che altro, questa docuserie, anche per il fatto di aver attinto alle testimonianze dell’epoca, è un racconto che prova a ricostruire una memoria. Ma che memoria esattamente? Quella che la docuserie fa è un’operazione difficile, anche sul piano della memoria, per molti versi ambivalente. Un’ambivalenza che risuona fin dalle parole che uno degli autori, Carlo Gabardini, pronuncia nell’intervista posta a corredo della serie: “Volevamo raccontare la storia com’è, senza giudizi”.

Difficile, tuttavia, riuscire a non emettere giudizi di fronte a una vicenda come quella di San Patrignano, anche pensando alla società in cui è stata possibile. Ma difficile in generale, non esprimere idee, o appunto giudizi, quando si racconta qualcosa. Ogni forma espressiva e discorsiva è un taglio, propone un punto di vista. E questo vale certamente anche per una serie, che, con il montaggio, le immagini, la selezione delle testimonianze, dei documenti e delle foto di archivio, si palesa quale portato di scelte narrative nette, quale presa di parola, quantomeno su un pezzo, uno stralcio, una versione, di quella vicenda, e necessariamente a partire da un’idea.

Gli stessi autori, al di là delle intenzioni, hanno accompagnato l’uscita della serie con dichiarazioni precise, hanno espresso parole che contribuiscono profondamente alla “definizione” della storia e della plausibilità di certe scelte. Là dove, per esempio, in una intervista la coregista Cosima Spender dichiara che “Vincenzo Muccioli era una persona molto carismatica; una figura paterna per questi ragazzi di San Patrignano; un personaggio quasi felliniano, ma molto coraggioso, che ha rischiato molto mentre si occupava di questioni di vita o di morte”. O quando Gabardini sottolinea che SanPa è un documentario sulla famiglia, “di Muccioli stesso, sua moglie i suoi figli, sia la famiglia di San Patrignano, in fondo Muccioli è come se avesse preso sotto la sua ala centinaia e centinaia di figli che le loro famiglie avevano rifiutato, avevano scacciato di casa”.

Sono parole che introducono un punto di vista: che migliaia di genitori di ragazzi drogati vedessero in Muccioli l’unica sponda di salvezza per i figli; che le famiglie fossero sole, ma anche che le famiglie vivessero un vuoto, una loro stessa incapacità nel costruire altre strade e possibilità di recupero al di là di quel modello che Muccioli teneva in piedi, in un momento in cui invece quel modello avrebbe dovuto essere superato. E lo si evince dalle parole di Paolo Villaggio: “Io penso che qualche schiaffo che Muccioli può aver dato, schiaffo benedetto, sono gli schiaffi che noi genitori progressisti non abbiamo avuto il coraggio di dare”. O dalle parole di Montanelli: “Ci sono dei momenti in cui bisogna legare un drogato e dargli pure un manrovescio e legarlo con le catene. Io approvo in pieno i metodi di Muccioli: l’educazione è crudeltà. Quando ero ragazzo, avevo Mussolini, come no. Io ho portato la camicia nera con entusiasmo fino all’età di anni 25. Fino a quando il fascismo cominciò a puzzare di morto”.

Queste testimonianze sono il condensato di idee che attraversavano come rivoli la società di quegli anni. Metterle in rilievo può aiutare a ricostruire il clima dell’epoca. Ma significa anche dare una direzione al racconto. Una direzione che trova supporto continuo nella serie: nella domanda che pone Gabardini: “Quanto male si è disposti a sopportare per fare del bene?”; nelle parole del giudice per le indagini preliminari: “Il controllo e l’uso dei mezzi coercitivi non erano accidenti di percorso, ma erano strutturali, facevano parte della mentalità, della cultura della comunità”; o, ancora, nella frase con cui si apre l’intera serie:

Italia, fine anni ’70.
La mafia sta inondando le strade di eroina.

La droga a basso costo
minaccia di uccidere una generazione.
Con lo Stato impotente,
un uomo vuole salvare i tossicodipendenti…
…con ogni mezzo necessario.

Se queste sono le dichiarazioni degli autori, o di alcuni protagonisti, sono poi le narrazioni autobiografiche di alcuni degli ex ospiti di San Patrignano ad accompagnare lo spettatore nel ventre della balena, alla scoperta di quel che accedeva, in quelle baracche, dove si faceva tutto quel “male” per tenere i ragazzi lontani dalla droga (per fare del bene). Le immagini dei luoghi e le parole degli ex tossicodipendenti mostrano il lato oscuro di una comunità che si configura quale istituzione totale, luogo di violenza e segregazione di corpi, tanto che qualcuno lo definisce un lager. Luogo di suicidi e omicidi che non hanno avuto giustizia. La stessa disposizione dei prefabbricati, o container, in cui abitavano gli ospiti della comunità, a forma di U, ricorda la logica spaziale di un campo di concentramento.

Resta, tuttavia, predominante, sullo sfondo di questi racconti e come una nebbia che ovatta le migliori intenzioni documentaristiche, l’intento di trovare una morale della storia, come un fondamento di plausibilità nella vicenda. Qualcosa che si può sintetizzare in questa frase di uno degli intervistati: “A San Patrignano c’erano quelli che venivano considerati la feccia della società…e lì vedi il miracolo”. Colpisce, insieme a ciò, il continuo insistere di immagini, che tornano molte e moltissime volte, e che potrebbero essere la summa dell’intera serie, di quei ragazzi come massa enorme e inerme che segue il padre padrone. Immagini di una dinamica relazionale e di un luogo in cui, come dice un ex ospite, “non hai documenti, non puoi fare nulla, sei contornato da un pecorume generale”.

Ne viene fuori il disegno, molto calcato, di Muccioli come leader carismatico necessario e salvifico, e dei ragazzi come massa impotente, eppur pericolosamente a rischio e da contenere, in balia della solitudine e della disperazione, che volge al seguito del redentore. Resta, nella memoria dello spettatore, una retrospettiva di San Patrignano come coacervo di migliaia di anime perse, a cui solo le catene hanno potuto offrire una possibilità di salvezza. Anime salve grazie al redentore e ai suoi adepti, quegli ex tossicodipendenti rimasti in comunità e che, quasi come kapò, a un certo punto assumono il ruolo di controllori dei nuovi arrivati.

Tuttavia, se i numeri di San Patrignano sono significativi, tanto che si contano circa 22.000 persone che sono state lì in quegli anni, fuori il fenomeno dilagava, raggiungendo cifre incredibili, rispetto alle quali i numeri di San Patrignano sembrano quasi granelli di sabbia in un deserto. Difficile dire esattamente quanti fossero i tossicodipendenti negli anni settanta, perché non venivano contati. Ciò nonostante si può dare qualche dimensione numerica del fenomeno. Per esempio, solo a Verona, come ricostruisce Vanessa Roghi in Piccola citta. Una storia comune di eroina (Laterza, 2018), nel 1980, su 300.000 abitanti si contavano 15.000 tossicodipendenti. Marco Pannella, in un intervento a San Patrignano del 1984, parla di 184.000 persone dipendenti dall’eroina in Italia (Roghi, 2018). I primi dati che si cominciano ad avere sui morti di eroina, contano oltre 500 persone nel 1987, che raggiungono il picco di 1600 nel 1995 (ivi).

Quando nel 1978, la comunità di San Patrignano nasce, il problema della tossicodipendenza e dell’eroina in Italia è molto radicato. Non è una emergenza, ma un fenomeno strutturato della società italiana, che sta intorpidendo e decimando almeno due generazioni. Un fenomeno che la politica non fronteggia, salvo che stimolando e finanziando, a partire dal 1975, progetti che prevedano interventi di prevenzione e cura della dipendenza. In questo panorama, in un enorme giro di denaro, con il sostegno di personaggi molto in vista e di potere, come la famiglia Moratti, spesso invischiati a loro volto nel problema della droga, anche per avere figli tossicodipendenti, come Villaggio, o Enrico Maria Salerno, Muccioli fonda la sua comunità di recupero. Oltre a essere un luogo deputato alla cura, e dove tale cura è stata portata avanti attraverso la violenza, il controllo, la detenzione e l’allontanamento di individui dal resto della società, la comunità di San Patrignano è stata un grande business.

La vicenda di San Patrignano si inscrive così in una storia sociale e politica complessa, che però la serie tocca in minima parte, troppo presa dall’intento di trovare il ruolo “utile” di quella comunità. Puntando fin dalla prima immagine sul fatto che San Patrignano, pur con i suoi metodi discutibili, sia nata per fare fronte a quella marea montante di eroina e tossicodipendenza che lo Stato non riusciva a fermare, la serie non riesce a palesarsi quale stimolo di riflessione critica su quegli anni. Perché di quegli anni, della droga e dello spaccio in realtà non indaga i nodi profondi. E pur consegnando agli spettatori una gran mole di elementi, anche processuali, testimonianze, anche di giudici e giornalisti, immagini e parole, di giovani fragili, o di soggetti violenti, aiuta molto poco a conoscere e a comprendere la portata del fenomeno, confondendo anche le idee dello spettatore di oggi rispetto alla funzione di San Patrignano: poca cosa davvero (oltre che inconcepibile) di fronte al dilagare della tossicodipendenza, a dispetto di quanto le stesse immagini di folle al seguito di Muccioli possano far pensare.

A chi, poi, voglia riconoscere a SanPa il ruolo di aver riportato all’attenzione del pubblico la vicenda di San Patrignano, e magari questo non lo si può negare, si potrebbe suggerire che forse, dalla giusta distanza, siamo pronti anche per fare memoria dei fattori strutturali per cui l’Italia, dagli anni settanta in poi, è stata incapace di fermare quel fiume di eroina che ha condannato a morte centinaia di migliaia di persone.

Per fare memoria critica non serve solo interrogarsi su Muccioli, sui suoi metodi, nemmeno sui suoi obiettivi sottesi (si pensi alla passione dei cavalli e alle testimonianze dei giri di contante per l’Europa). Anche da questo punto di vista non si farebbe che eludere il problema, giocando ancora sul versante della polarizzazione tra bene e male che tanto aveva appassionato il pubblico dei suoi anni: il santo duro e mosso da una compassionevole violenza o, in contrapposizione, il doppiogiochista avido. Per fare memoria critica non si può che partire dall’affrontare la rimozione profonda del trauma collettivo dell’eroina, di chi è morto e di chi ne è rimasto condizionato per sempre. E, insieme, dall’affrontare la responsabilità collettiva di fronte a quel trauma e, in particolare, l’elusione di tutta la complessità di un contesto storico che non ha saputo e voluto affrontare la questione delle dipendenze. E che è arrivato ad affidare a San Patrignano la risposta perbenista di una società che aveva perso la sua innocenza.

SanPa – Luci e tenebre di San Patrignano. Ideatori: Gianluca Neri; regia: Cosima Spender; sceneggiatura: Carlo Gabardini, Gianluca Neri e Paolo Bernardelli; fotografia: Diego Romero, montaggio: Valerio Bonelli; musiche: Eduardo Aram; produzione: 42; distribuzione: Netflix; origine: Italia, USA; anno: 2020.

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