Un anniversario non è una semplice corrispondenza di date quando questa ricorrenza è capace di moltiplicare, in maniera caotica e continua, il valore di una voce in grado di tracciare il tempo nella sua estensione ineffabile. È anche questa la ragione per cui soffermarsi a considerare una data legata alla figura di un’autrice o di un autore può costituire un’opportunità per riflettere su una questione non marginale: di fronte alla morte di un corpo, che cosa diventa quella voce che aveva raccontato, meglio di altre, un mondo e le sue storie, pur preservandone il carattere essenziale di approssimazione e apertura? Una possibile risposta a questa domanda è racchiusa nell’opera di Roberto Bolaño che, nelle poesie, così come nei romanzi e nei racconti, ha ridistribuito le vite degli altri – e anche la sua – e ne ha immaginate altre, per cucirle insieme in un racconto dissonante, a tratti violento e disperato, ma mai del tutto staccato dalla realtà del mondo.

Nell’anno che segna i settant’anni dalla nascita (1953), i trent’anni dalla pubblicazione della prima opera (La pista di ghiaccio, 1993 – se si eccettua il romanzo Consigli di un discepolo di Jim Morrison a un fanatico di Joyce, scritto nel 1984 con Antoni García Porta) e i vent’anni dalla morte (2003), Roberto Bolaño continua a essere sorgente viva di ordine e disorientamento, soprattutto per la capacità della sua scrittura di essere spesso centrata su un evento che, pur essendo racchiuso nella sua singolarità, riesce comunque a riverberare una più generale esperienza umana, anche quando quest’ultima è molto lontana dall’immaginario comune – si pensi, a tal riguardo, alla parziale finzionalizzazione degli oltre quattrocento rapimenti e femminicidi, avvenuti (per un’ulteriore e non trascurabile coincidenza di date) a partire dal 1993 nella città di Ciudad Juárez, la Santa Teresa di 2666.

L’interesse a raccontare storie che abbiano un legame con il mondo e che, in qualche modo, siano inscritte in esso, non è mai secondario nell’opera dello scrittore che diventa così una testimonianza diretta del “paradiso” – che è come «Venezia», un «posto pieno di italiane e di italiani, un posto che si usa e si consuma, un posto che sa che nulla dura per sempre, nemmeno il paradiso, e che in fin dei conti non importa»  – e dell’“inferno” che, invece, è come Ciudad Juàrez, «la nostra maledizione e il nostro specchio, lo specchio inquieto delle nostre frustrazioni e della nostra infame interpretazione della libertà e del desiderio» (Bolaño 2012, p. 81). Basterebbe questa contrapposizione archetipica a descrivere l’esperienza umana di cui si nutre la scrittura latinoamericana di Bolaño che rimanda alla smarginatura tra la salvezza e la dannazione, delineando allo stesso tempo lo spazio di transito in cui sempre si trova l’essere umano, teso verso una sponda come verso l’altra. Del resto, già il termine “infrarealismo” – il movimento poetico fondato da Bolaño insieme a Mario Santiago, vale a dire Ulises Lima dei Detective selvaggi – è sintomatico di questo atteggiamento che è un attraversamento del reale e, insieme, una sua ricomprensione: è l’incedere dettato dai «realvisceralisti o viscerealisti e anche vicerealisti» (Bolaño 2014, p. 15) affidati alla memoria di Juan García Madero, il giovane poeta che deve scomparire dallo spazio della narrazione per preservare il mistero della letteratura.

È questo stesso movimento infra-realista a caratterizzare anche il transito di Bolaño nei tre Paesi in cui ha vissuto: nato a Santiago del Cile (città in cui non ha dimorato) e cresciuto a Città del Messico («la città in cui tutto poteva succedere», Bolaño 2012, p. 53), nel 1973 (ancora una volta ritorna il numero ricorrente dei suoi anniversari) viene arrestato dai militari golpisti di Augusto Pinochet a Concepción, dopo essere rientrato in Cile per dare appoggio alle politiche socialiste di Salvador Allende. Nell’autoritratto pubblicato nella raccolta Tra parentesi, Bolaño racconta che, in quell’occasione, gli accadde una notte di sognare Stalin e Dylan Thomas (entrambi morti nell’anno della sua nascita), mentre bevevano whisky e vodka in una cantina di Città del Messico, impegnati in una sfida a non ubriacarsi, che coinvolse di rimando anche lui – nella sua dimensione onirica – rendendogli in cambio una fortissima sensazione di nausea. Alla fine degli settanta, lo scrittore si trasferisce in Spagna dove matura la decisione di non tornare più a vivere, né a visitare i luoghi che ha lasciato e in particolare il Messico che, nell’intervista con Eliseo Àlvarez del 2005, viene da lui descritto come un luogo «pieno di fantasmi, compreso quello del mio migliore amico [sc. Santiago]» (Bolaño 2012, p. 57), in cui la vita è «movimentata sotto tutti gli aspetti. Il Messico è un paese di una vitalità tremenda, benché sia il paese dove, paradossalmente, la morte è più presente» (ivi, p. 59).

C’è anche un altro aspetto, meno legato a un investimento affettivo e sentimentale, e profondamente vicino a una consapevolezza che risuona in altre parole della medesima intervista: «pur avendo viaggiato molto, ci sono tanti paesi che non conosco neppure da lontano e fra conoscere un paese nuovo e tornare in Messico, […] dove credo starei abbastanza male, preferisco andare in altri posti. […] Un tempo mi piaceva da morire andare in posti dove sapevo che sarei stato male. Ma ora, a che scopo?» (ivi, p. 57). È plausibile ipotizzare che questa riflessione sia stata, tra gli altri fattori, maturata dallo scrittore a seguito della scoperta della  malattia epatica che, diagnosticata nel 1992, ne causerà infine la morte. Eppure la distanza fisica dai luoghi non separa Bolaño dalla visione latinoamericana del mondo, conservata nel suo corpo e raccontata nelle opere che – stando a quanto più volte lui stesso ha dichiarato – hanno indirizzato, in modo e con peso differenti, la sua scrittura, vale a dire e tra gli altri: Jorge Luis Borges, Julio Cortázar, Mario Vargas Llosa, Gabriel García Marquez, Juan Rulfo. Oltre a queste presenze, emergono le influenze della letteratura e della poesia americana (con pretesa alcuna di esaustività: Philip K. Dick, Emily Dickinson, Herman Melville, John Kennedy Toole, Mark Twain, Walt Whitman), e poi ancora di Cervantes, Lichtenberg, Pascal e Wittgenstein, Petronio e Tito Livio.

Gli itinerari disegnati da Bolaño tracciano una cartografia brutale fatta di corpi morti, torturati e smarriti, fantasmi di scrittori che stimolano una necessità morbosa di ricerca, disegni che celano quanto nascondono per costringere a chiedersi, ancora e per sempre, «Che cosa c’è dietro la finestra?» (Bolaño 2014, pp. 687-688), senza mai avere la possibilità di vedere dietro la finestra perché lì è il mondo e il mondo si guarda solo da lontano quando il racconto illumina l’assenza di redenzione e di pentimento per lo sfrenato azzardo di un pensiero che si trasforma in gesto indicibile. La volontà di non risparmiare nulla e, insieme, di non offrirsi al sacrificio per una beatificazione dell’umano, emerge bene sin dalle prime pagine de La pista di ghiaccio, la cui struttura ricalca quella di una possibile sceneggiatura cinematografica a tre voci con personaggi complementari che sovrappongono le rispettive visioni di una medesima vicenda, alternandosi in quarantotto brevi capitoli.

Le manie, le ruvidità, i pensieri e gli atti umani di cui si fanno portatori i protagonisti Remo Moràn, Gaspar Heredia (che di mestiere fa il guardiano notturno in un campeggio, proprio come Bolaño a Barcellona) e Enric Rosquelles, rimandano all’adagio di Mario Santiago riportato nell’esergo del romanzo: «Se proprio devo vivere che sia senza timone e nel delirio» (Bolaño 2018, p. 13). Il testo declina in vari modi il senso di questa indicazione, alludendo alla forza alla quale non si può far altro che arrendersi quando un corpo incontrato eccede il senso intellegibile di una parola per accedere ad altre e impalpabili vie di comunicazione, di cui  tuttavia si può cercare di ricavare una ragione, almeno per se stessi, attraverso la scrittura.

Nel “Postscriptum” di Anversa – il penultimo romanzo pubblicato in vita da Bolaño, nonostante fosse stata la sua prima prova di scrittura – Bolaño scriveva: «Di quanto ho perduto, irrimediabilmente perduto, desidero recuperare solo la disponibilità quotidiana della mia scrittura, righe capaci di prendermi per i capelli e tirarmi su quando il mio corpo non vorrà più farcela» (Bolaño 2007b). E, dopo ventidue anni, nel saggio introduttivo al volume, Bolaño ricorda di aver «scritto questo libro per i fantasmi, che sono gli unici ad avere tempo perché sono fuori del tempo» (ivi). Sarà questo allora il motivo alla base di una scrittura che serve a sostenere un corpo segnato dalle tante ricerche senza mai un ritrovamento felice, dai tanti ritrovamenti che denunciano soltanto la miseria dell’umano: i fantasmi garantiscono la possibilità di non decretare ancora una fine.

Se è noto quanto succede a Cesárea Tinajero nel momento in cui viene raggiunta dai detective selvaggi, ben diverso è il destino di Arcimboldi che, all’uscita del “parco” di 2666, decide di partire per il Messico. Persino Arturo Belano, senza il suo amico, è in Africa a leggere quando «comincia a camminare verso ovest, verso la costa, […] e il suo pensiero va più veloce dei suoi passi nella foresta e nel deserto della Libreria, come quando era un adolescente in Messico, e poco dopo i suoi passi lo allontanano dal villaggio» (Bolaño 2015, pp. 210-211). Questa scrittura insegna che soltanto dai fantasmi si può tornare con speranza, e senza la paura di veder scomparire per sempre i corpi.

Riferimenti bibliografici
R. Bolaño, 2666, tr. it., Adelphi, Milano 2007a.
Id., Anversa, tr. it., Sellerio, Palermo 2007b.
Id., Tra parentesi: saggi, articoli e discorsi (1998-2003), a cura di Ignacio Echevarría, tr. it., Adelphi, Milano 2009.
Id., L’ultima conversazione, tr. it., SUR, Roma 2012.
Id., I detective selvaggi, tr. it., Adelphi, Milano 2014.
Id., Puttane assassine, tr. it., Adelphi, Milano 2015.
Id., La pista di ghiaccio, tr. it., Adelphi, Milano 2018.

Roberto Bolaño, Santiago del Cile 1953 – Barcellona 2003.

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