Il tramonto dell’eroe

di GAETANO PRINCIOTTA CARIDDI

Robert De Niro. Riflessioni sull’attore: esordi, Hollywood, Scorsese di Caterina Rossi.

Taxi Driver (Scorsese, 1976)

Pochi film come Nashville (1975) di Robert Altman sono stati in grado di testimoniare la messa in discussione che il cinema americano ha fatto della sua stessa forma, sottraendosi alle convenzioni della narrazione tradizionale. Attraverso il dispiegamento di un racconto frammentario e discontinuo il film presenta ventiquattro personaggi la cui importanza narrativa varia continuamente: ventiquattro soggetti in movimento, mediati a loro volta da un sottofondo costante di vicende che avvengono mentre accade altro, tutto ancora filtrato e moltiplicato da annunci, canzoni, discorsi alla radio e in tv, mentre i megafoni si muovono perennemente per le strade della città declamando spot elettorali.

La narrazione del film è inesorabilmente digressiva: partendo da una campagna presidenziale che mira a mettere in scena uno spettacolo di musica country a Nashville, il film si dispiega attraverso le vite private dei partecipanti al grande evento, così come nelle piccole storie di quanti si trovano di passaggio o ai margini dello stesso spettacolo. I personaggi contribuiscono alle narrazioni sotto forma di storie della propria vita e attraverso l’uso di canzoni che ne raccontano il percorso, le lotte personali, le emozioni.

Questa visione panoramica proposta da Nashville è implementata dall’uso che Altman fa delle proporzioni con una messa a fuoco profonda, coordinando sapientemente movimenti della macchina da presa, uso dello zoom e recitazione degli attori in continuo movimento. Il racconto del film si conclude con l’assassinio in stile Kennedy della cantante Barbara Jean, episodio, questo, solo debolmente correlato alle necessità dell’intera narrazione, che tuttavia attraverso molteplici piccole narrazioni sconnesse offre una visione panoramica della realtà sociale altrimenti inaccessibile.

Per Deleuze, la crisi del cinema americano classico è la crisi del sogno americano come effetto di molte variabili: la guerra e le sue conseguenze, l’inflazione delle immagini nel mondo esterno e negli individui e, ancora, l’influenza sul cinema delle nuove tipologie del racconto già sperimentate dalla letteratura. Il realismo non è più in grado di raccontare il nuovo stato di cose. L’immagine non rinvia più a una situazione sintetica ma dispersiva, in cui la molteplicità di personaggi impedisce di distinguere i protagonisti principali dai secondari. La realtà stessa sembra lacunosa e confusa.

Uno degli attori di riferimento in chiave interpretativa di questo momento di trasformazione storica del cinema statunitense – e in generale del cinema occidentale – è certamente Robert De Niro, oggetto di uno studio di Caterina Rossi Robert De Niro. Riflessioni sull’attore: esordi, Hollywood, Scorsese, in grado di mettere a fuoco gli elementi decisivi di un metodo attoriale che non esprime solo capacità recitative, ma iscrive l’attore come corpo resistente che si frappone tra le capacità autoriali di importanti registi emergenti – De Palma, Scorsese, Coppola per citarne solo alcuni – e il nuovo cinema statunitense.

L’esordio sul grande schermo di De Niro in Oggi sposi (De Palma, 1969) coincide con questa fase di radicale e generale rinnovamento del sistema hollywoodiano. A metà degli anni sessanta si avvia quel fenomeno di rigenerazione, produttiva ed estetica, che si protrarrà fino a metà del decennio successivo e che prende il nome di New Hollywood Reinassance. Compromettendo le convenzioni narrative, sono diversi i registi che contribuiscono a far vacillare la fede assoluta nel personaggio e non possono, così, che distanziarsi dalle operazioni narrative che hanno dominato fino a quel momento il linguaggio degli Studios hollywoodiani.

Dentro questa trasformazione del cinema statunitense, il corpo e il volto vibrante di Robert De Niro sono in grado di incarnare l’unmotivated hero: l’eroe classico perde la sua propensione all’azione, la sua capacità di essere simbolo di riscatto di un’intera comunità e muta, così, definitivamente. Johnny Boy in Mean Streets – Domenica in chiesa, lunedì all’inferno (Scorsese, 1973) è probabilmente il primo personaggio a emergere dall’evoluzione dell’eroe americano e la prima figura che permette a De Niro di divenire un nuovo modello attoriale e fonte di ispirazione per le successive generazioni. L’eterna dialettica tra bene e male è qui concepita mediante la redenzione dal senso di colpa che è possibile raggiungere solo attraverso una violenza che vibra in ogni azione dei personaggi. 

Il Johnny Boy di De Niro/Scorsese rimpiazza il phatos of failure del nuovo eroe della metropoli con un effluvio di gesti e azioni che non fanno altro che restituirne la completa irrazionalità. Le azioni sconnesse di Johnny, il suo gesticolare, la sua espressività corporea, sembrano essere slegate dall’esigenza della narrazione, tratteggiando un personaggio che si muove e agisce freneticamente.

Travis Bickle, protagonista di Taxi Driver (Scorsese, 1976), è, invece, il personaggio che più di ogni altro riassume le figure emerse dal cinema della New Hollywood. Una figura che racchiude in sé non soltanto le inquietudini dell’uomo contemporaneo e le sue contraddizioni, ma che più in generale incarna il senso di oppressione individuale del soggetto urbano ormai in crisi. Il film racconta il tentativo di Travis di eludere una vita mediocre e il passaggio dall’essere un eroe della guerra del Vietnam a un reduce traumatizzato, sopraffatto dall’insonnia e consumato dalle proprie fantasie. Ciò che resta del mito della frontiera americana in Taxi Driver non è altro che il movimento ralenti della macchina da presa che sin dall’inizio segue il lento spostamento di un taxi notturno in una New York oscura e onnipresente, sfondo della vita di Bickle dal primo all’ultimo fotogramma.

Sia la dimensione vocale che quella gestuale del personaggio si caratterizzano qui per l’assenza di quell’impeto ininterrotto che si rivelava costante in Johnny Boy. Il corpo di Travis è al contrario un corpo poco reattivo, quasi rigido. Per De Niro interpretare un personaggio non ha semplicemente a che fare con i gesti, la voce o il ritmo della performance, ma con una “immedesimazione idiomatica” in grado di catturare tutto ciò che c’è intorno all’individuo, la sua intera biografia. Lo studio del personaggio, infatti, non riguarda la ricerca di una imitazione realistica di un certo modo di interazione con altri personaggi o con le cose del mondo, ma sprigiona una tensione costante del corpo a rendersi disponibile per nuove configurazioni.

Il Jack La Motta di Toro scatenato (Scorsese, 1980) rappresenta il primo caso radicale di actorly trasformation, un metodo di recitazione fondato sull’alterazione fisica dell’interprete che permette a De Niro in pochi mesi di modificare il proprio peso e incarnare perfettamente la soggettività del pugile. Una trasformazione fisica integrale che rende labile la soglia che distingue l’attore dal personaggio e che anzi rende possibile la coincidenza tra il corpo di De Niro e quello del toro scatenato.

Questo vero e proprio transfert fisico subisce una curiosa curvatura nel più recente sodalizio tra De Niro e Scorsese, The Irishman (Scorsese, 2019), grazie al de-aging, una tecnologia digitale in grado di catturare le espressioni degli attori per restituirle in un formato 3D che permette di agire su quegli elementi fisici che definiscono l’età, il “tempo” dell’interprete. Il risultato è singolare poiché questa versione ritoccata di De Niro, che fa ricorso a un ecosistema di espressioni e gesti che è possibile riconoscere in altri suoi personaggi, non è di fatto mai esistita e lo spettatore non la ha mai visto rappresentata.

Un ulteriore cortocircuito si innesca poi quando il protagonista-sicario sottoposto a de-aging e nella realtà quasi ottantenne, deve muoversi, far agire il suo corpo, come un giovane gangster. In questo tentativo di contrapporre le maschere già viste nella carriera di De Niro ad un corpo ormai stanco sembra essere la volontà di misurarsi con le nuove possibilità del cinema.

Nel breve testo che André Bazin dedicò alla scomparsa di Humphrey Bogart, il critico francese riconosce l’attore come il mito del periodo della guerra e del primo dopoguerra, tra il ’40 e il ’55, la personificazione dell’eroe ambiguo del film criminale nero. Per Bazin, Bogart rimane nella memoria per il suo tempismo, per la capacità di saper cogliere il momento migliore in cui sferrare un pugno, tirare fuori un revolver o svelare una verità. La sua ironia masticata, le sue battute tra i denti, seguono sempre una misura che tende a replicare di fronte a qualsiasi situazione si trovi ad affrontare: il segreto di Bogart è l’indolenza di chi affronta la vita ben sapendo i rischi di un gesto o di una parola di troppo, un segreto che ha una consistenza che si rivela al di là dei suoi ruoli.

Questa “sincerità epidermica” di Bogart fa vibrare corde assai diverse rispetto al trasformismo di De Niro. La star italoamericana mettendo in gioco la sua intera dimensione corporale dà vita a performance di una “naturalezza iperreale” distante dal naturalismo comunemente inteso, ma, al contempo, si rende interprete di un segreto che va oltre i suoi personaggi: un corpo resistente nella tensione del nuovo cinema che partecipa alla ridefinizione dell’antieroe hollywoodiano.

Riferimenti bibliografici
G. Deleuze, Cinema 1. L’immagine movimento, Ubulibri, Milano 2006.
A. Bazin, Morte di Humphrey Bogart, in Id., Che cosa è il cinema?, Garzanti 1999.

Caterina Rossi, Robert De Niro. Riflessioni sull’attore: esordi, Hollywood, Scorsese, Laba Editore, Milano 2023.

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