Un ritorno in tre atti. O meglio, un percorso in tre viaggi (più un piccolo viaggio di epilogo), dove quel ritorno, quello vero, fatica a rivelarsi. Perché sebbene la meta sia sempre la medesima, Seoul, sono tre viaggi ben distinti e tra loro estremamente differenti a scandire l’itinerario di Frédérique, francese di origini coreane adottata alla nascita e mai tornata nel paese natale.

Sebbene la ragione non risulti chiara neanche a lei stessa, all’età di venticinque anni l’enigmatica ragazza intraprende un viaggio nel proprio paese di origine. Una decisione dell’ultimo momento, quando il suo volo per Tokyo era stato cancellato, è la poco convincente motivazione che fornisce alla madre adottiva. Ma non è necessario saper “leggere i segnali”, come la giovane vanta di essere in grado di fare grazie agli studi musicali e alla pratica di lettura a prima vista, ovvero comprendere e suonare per la prima volta uno spartito mai visto, per capire che molto di più si cela dietro a questa decisione. Freddie stessa non pare in fondo poi così brava come sostiene a leggere le situazioni, incapace di comprendere le ragioni di quella necessità di recarsi a Seoul. O, più probabilmente, rifiuta di farlo, chiudendosi alla lettura di sé. Perfino parlando con un’impiegata del centro adozioni, più tardi, affermerà di essere andata a Seoul di sorpresa. Ma di sorpresa per chi, se non per sé stessa.

Il viaggio in Corea non costituisce altro che una comune ricerca delle origini. Quasi banale oseremmo dire. È palese per chiunque, tanto lo spettatore, quanto le persone che la protagonista incontra sul suo cammino. Eppure non risulta così ovvio per lei. Una necessità seppellita a fondo nell’inconscio, occultata alla cognizione razionale della ragazza, lotta per riemergere: la ricerca di un’identità, quella coreana, di cui non è consapevole, ma continuamente menzionata dagli altri, che sia l’amica Tena, receptionist dell’hotel in cui alloggia, o un gruppo di sconosciuti al ristorante accennanti ai suoi tratti somatici tipici delle coreane di altri tempi. Senza un piano preciso o alcuna premeditazione, Freddie si ritrova inevitabilmente al centro di adozioni Hammond, gestore del suo affidamento ai genitori francesi. Ancora coscientemente ignara delle ragioni del suo viaggio, eppure guidata verso la prevedibile (per il pubblico) conclusione di una ricerca dei genitori biologici.

La conoscenza del padre, unico genitore a rispondere alla richiesta di incontro, non sortisce il risultato probabilmente atteso. I racconti della vita dell’uomo e della famiglia che si è costruito dopo il suo abbandono sono storie di altre vite, che non la riguardano, non le appartengono. Vite di estranei. Una famiglia, un mondo e una cultura che le rimangono sconosciuti, alieni quanto il cibo nel frigorifero della casa paterna. Freddie non parla coreano e non conosce nemmeno l’esatta pronuncia del suo nome originale. Ha sempre bisogno della mediazione (linguistica e culturale) dell’amica Tena o della moglie del padre. Perfino la donna nell’unica foto che credeva di possedere con la madre biologica è in realtà un’infermiera del centro di adozione. Niente della Corea (apparentemente) fa parte di lei.

L’abbandono in un parco delle ballerine compratele dal padre, ma in realtà da lei odiate, segnala il rifiuto di quel mondo, la decisione di lasciare indietro quella parte di sé, della sua famiglia e della sua vita. Il viaggio si configura come un inedito per Freddie. Non certo un ritorno, quanto un recarsi per la prima volta in un luogo sconosciuto, nell’incontro con una cultura ignota e fortemente distante dalla sua esperienza.

Due anni dopo troviamo Freddie di nuovo a Seoul, questa volta non più turista ma consulente internazionale. Le vere ragioni dietro a questo trasferimento a seguito degli eventi della prima parte e del ritorno a casa in Francia a noi sconosciute (ma anche a lei). Il ritorno a una cultura di cui continua a non sentirsi parte, in qualche modo rifiutata, anestetizzando un dolore incompreso e insepresso con alcohol, droga e prostituzione. Una cosa è certa: neanche questo è il ritorno promesso dal titolo, ma soltanto un altro mattone nella costruzione della strada che condurrà al vero ritorno.

Fast forward altri cinque anni e la ragazza è nel mezzo di un altro “ritorno” a Seoul, questa volta con il fidanzato, per l’opportunità di un lavoro nel commercio di armi, convinta di esservi destinata per la protezione del proprio paese dalla minaccia del vicino peninsulare. Qualcosa è cambiato. Freddie concepisce ora la Corea come il suo paese. È completamente diversa, ripulita. Non mangia carne, non beve. Sostiene di non essersi mai sentita così bene. Ma è sufficiente un incontro col padre, nel suo instabile stato, per vedere tutta questa illusione sgretolarsi. La tossicità di quella cultura, per lei, torna a bussare alla porta, poiché legata a quell’unica parte della sua ascendenza coreana che conosce. Quell’uomo alcolista, angosciato, pieno di rimpianti, che dopo il loro primo incontro aveva continuato a perseguitarla, divorato dai sensi di colpa, è l’immagine specchiata della parte peggiore di sé.

Un’altra parte ancora manca, prevenendo la comprensione di ciò che l’aveva spinta ad andare in Corea in primo luogo: l’assenza della madre è il fantasma che perseguita Freddie. Quella madre che non aveva mai smesso di tentare di contattare, costantemente ignorata. Ma questa volta qualcosa cambia. La donna acconsente ad incontrare la figlia. Un incontro senza parole e senza immagini (la madre rimane fuori fuoco) per lo spettatore, ma capace di stabilire finalmente un senso di appartenenza per Freddie. La definizione della sua esistenza agli occhi della madre quale presa di coscienza della propria identità e raggiungimento di una serenità. Il vero ritorno a Seoul.

Tre viaggi che vanno a coincidere coi tre atti di una storia della struttura teorizzata da Syd Field. Il ritorno tanto atteso, il vero e unico ritorno promessoci, arriva proprio al terzo tentativo, il terzo viaggio, quello risolutivo. Un ritorno che è forse anche un addio alla città, non più necessaria l’ossessiva ricorsività del viaggio coreano alla ricerca di qualcosa. La destinazione epilogante è infatti sconosciuta. Per la prima volta, finalmente, un ambiente naturale, lontano dalla metropoli e l’inquinamento coreani, incontaminato, quieto, specchio dell’animo pacificato di Freddie. Il giorno di quel compleanno che tanto rifiutava, la ragazza scrive alla madre di essere felice (probabilmente per la prima volta). Nonostante la scoperta che l’indirizzo email in suo possesso è errato, dunque senza possibilità di contattarla, Freddie si appresta a suonare uno spartito trovato sul pianoforte di un hotel. L’esecuzione è scorrevole e armoniosa. Consapevole di sé, finalmente la lettura a prima vista è davvero efficace.

Riferimenti bibliografici
S. Field, Screenplay: The Foundation of Screenwriting, Delta Publishing, London 2005.

Ritorno a Seoul. Regia: Davy Chou; sceneggiatura: Davy Chou; fotografia: Thomas Favel; montaggio: Dounia Sichov; musica: Jérémie Arcache, Christophe Musset; produzione: Aurora Films e co-prodotto da Vandertastic e Frakas Productions; distribuzione: I Wonder Pictures in collaborazione con MUBI; origine: Francia, Germania; durata: 113’; anno: 2020.

Tags     Corea, origine, ritorno, viaggio
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