Il passato è passato 
attraverso l’eternità.
Vittorio Mathieu, Essere e Spazio

Ci ha lasciato una settimana fa, senza che il suo Trattato di ontologia possa, per ciò stesso, esser considerato un opus postumum. Esso resterà sempre quell’opus maius cui Vittorio Mathieu ha lavorato per più di vent’anni e che, della sua lunghissima vita intellettuale, offre un compendio, tirando in qualche modo le fila di un discorso inaugurato dalla tesi di laurea intorno alla distinzione kantiana tra fenomeno e cosa in sé. Che il reale si dia in e sia, per certi versi, prospettiva, nel senso che il termine assume nella geometria inventata da Desargues, non è infatti solo il titolo di un suo saggio del ’54. Il reale, per Mathieu, si dà ed è prospettiva, senza, però, coincidere mai completamente con essa. Il darsi in prospettiva o, come si dice in Essere e Spazio, l’oggettivarsi è, cioè, il fenomenizzarsi del noumeno, perché Mathieu ha sempre pensato quest’ultimo come quel fuoco virtuale della visione che è, a un tempo, fuori e dentro il vedere attuale che pure permette.

Da questo punto di vista, quindi, l’endiadi che titola il libro esprime sia un’identità che una differenza: un’identità perché, come scrive Mathieu, «il profondo si lascia prendere solo come superficiale», ed è in questo senso che, in definitiva, l’essere è spazio; una differenza perché, di questo trattato il cui titolo è simmetrico a un altro opus maius, Sein und Zeit di Heidegger, Mathieu si serve per ribadire, una volta di più, che la differenza ontologica, filtrata attraverso la lente della bergsoniana “distinzione qualitativa”, è la chiave di volta per interpretare il reale. Essa, tuttavia, non interviene tra l’essere e il tempo, ma tra l’essere – il profondo di cui, come recita il titolo della monografia dedicata a Bergson, il superficiale non è se non l’espressione – e il suo altro: lo spazio.

Lo spazio è l’altrimenti che essere, il suo divenire altro da sé. Mathieu ne mutua l’accezione kantiana – lo spazio è una forma a priori dell’intuizione – ma gli attribuisce una colpa bergsoniana – oggettivare l’inoggettivabile. Lo spazio è infatti sì la «possibilità di operare direttamente sugli oggetti per mutarvi qualcosa», ma l’operazione che vi ha luogo, e che è tutto il luogo dello spazio, è tanto necessaria quanto mistificante. Lo spazio spazializza e la spazializzazione, per Bergson, è una perversione della durata: quel tempo reale che, in più di un comma del suo trattato, Mathieu presenta come “perpendicolare” a tutti gli enti e a quel loro, reciproco, modo di operare gli uni su gli altri che un’ontologia “dal basso” – tale è l’ontologia differenziale sviluppata dal filosofo italiano – deve descrivere.

Ciò che si vede, in altre parole, è sì la possibilità di operare, tosto ché tutto ciò che possiamo fare è, in fondo, “spostare elementi nello spazio” – essere è agire e agire è spostare –, eppure ciò che si vede – “intuire” vuol dire “vedere” sia in greco che in tedesco – non è tutto. C’è qualcosa al di là dello schermo-specchio sul quale, emessi dal fuoco-foro del sé, i raggi luminosi si infrangono dando luogo a figure come maschere: qualcosa come la soggettività trascendentale al rovescio, ossia l’oggetto trascendentale in cui il Kant dell’Opus postumum – lavoro cui Mathieu, dopo averlo abilmente tradotto, ha dedicato acutissime pagine – non esitò a riconoscere l’impronta dello stesso Io penso. Detto altrimenti, l’ontologia differenziale trova nella geometria proiettiva tutte «le metafore necessarie a dispiegare i suoi concetti», anche se, tra le due discipline, una differenza resta e, secondo Mathieu, non la si può trascurare: ogni strato o spazio dell’essere, una volta che giunge al punto né dimensionale né spaziale che l’ha generato, cambia di natura e non solo, com’è previsto dalla geometria visiva inventata da Desargues, di grado-misura.

Per Mathieu il passaggio da un livello all’altro dell’essere conduce a un “punto metaforico” in cui il traslato si attesta come “inevitabile”. Ma passarvi, di conseguenza, non è né può essere un’operazione meramente quantitativa che avviene nello spazio.  «In ontologia – spiega – il passaggio da un livello all’altro si suppone graduale e continuo. E, nondimeno, proprio per il suo carattere metaforico, esso non è misurabile come un differenziale matematico». L’ontologia differenziale, cioè, non è in grado di calcolare le sue derivate: il decrescere dell’oggettività al crescere graduale della concentrazione dell’essere. Sicché, in queste dense pagine costruite nello stesso modo in cui, per il Bridgman più volte citatovi, sono costruite le teorie scientifiche, all’illustre “divide et impera” Mathieu si sente di sostituire il più efficace “divide et integra”, fedele, in ciò, al Bergson che, di questo doppio movimento unico, ha fatto il movimento caratteristico della metafisica.

«La nostra indagine – scrive infatti nel Prologo – si presenta esattamente come la metafisica secondo Bergson: una serie di differenziazioni e integrazioni qualitative». E se Kant, prosegue, «dà la base di questa ricerca, Bergson ne dà l’altezza». Kant e Bergson sono, per dirlo diversamente, le due rette non parallele nel cui intervallo si compie la descrizione fenomenologico-letteraria del moto progressivo e bidirezionale grazie a cui l’essere si spazializza e lo spazio, cairologicamente, si decide comprimendosi in un punto che vale «una negazione spaziale della spazialità». In altri termini, se sono dei passaggi al limite, le differenze qualitative lo sono nella misura in cui è sulle loro soglie che «si fuoriesce dallo spazio». Mathieu le introduce come “impossibilità trascendentali” – un tertium, sempre incluso, tra l’impossibilità empirica, anche detta materiale, e quella logica – e ne fa l’emblema del non poter pensare un livello restandovi.

Più nello specifico, la concreta possibilità di risalire dallo spazio all’essere si fonda sul fatto che lo spazio non basta a sé stesso ma è sempre trasceso da altro: sia esso il movimento, il tempo, la memoria o il reale. Pertanto, pur essendo ogni cosa pensata nel e con lo spazio – “intuitivo” o “kantiano” lo spazio è una possibilità trascendentale che «fa essere ciò che si pensa» –, lo spazio non è però pensabile permanendovi.

Esso, spiega Mathieu, non è mai capace di contenere l’essere della cosa, anche quando si tratta di una cosa materiale e allora, quantunque sia difficilissimo uscire dalla spazialità col pensiero – l’oggetto del pensiero in quanto tale è spaziale – la filosofia deve comunque sforzarsi di farlo aggiungendo allo spazio come possibilità la sua impossibilità più propria: quella che, per il kantiano Mathieu, coincide con l’essere come “mera esistenza”. Kantiano perché, come si sa, l’esistenza è, per Kant, il più del concetto e “più” significa “ciò che il concetto non può fare”, vale a dire la sua stessa impossibilità. In effetti, scrive Mathieu, «ciò che distingue il reale dal possibile è un’aggiunta al possibile che non è nulla di possibile» e che Kant chiama “impossibile” benché, di fatto, si tratti di ciò che «rende reale la possibilità». “Tempo” è uno dei nomi per questo impossibile o essere “spesso” che, dall’oggettiva piattezza dello spazio, non cessa di residuare alla stregua di quella “materia” che, nel Timeo, Platone introduce come il cascame inevitabile della cosmesi demiurgica (se infatti lo spazio è la possibilità di spostare qualsiasi cosa, «il tempo è l’impossibilità di spostare checchessia»: la necessità di aspettare). E nondimeno, sparsi nelle quasi quattrocento pagine in cui il pensiero di questo straordinario filosofo-centauro, per metà kantiano e per metà bergsoniano, si compie, se ne trovano altri.

Perpendicolare a ogni strato o modo dell’essere – perpendicolarità che, si badi, per Mathieu rappresenta la quintessenza dell’essere stesso – è anche l’atto puro di Aristotele e Gentile, l’ipsum esse di Tommaso, la monade di Leibniz, l’intensità incommensurabile all’estensione con cui Kant si è cimentato nelle pagine della Critica della ragion pura dedicate alle Anticipazioni della percezione, l’élan di Bergson e, infine, l’Essere irriducibile all’ente di Heidegger. Ma se Plotino, tuona Mathieu, «ha capito tutto», si deve ammettere che, in realtà, il primo nome per ciò che, come un fuoco virtuale, si rifrange in ogni piano o figura dell’attualità è “Uno”: quell’uno sovra-essenziale perché sovra-spaziale da cui tutti gli essenti derivano per emanazione. Plotino, in breve, è la diagonale che svetta dall’incrocio dell’ascissa kantiana con l’ordinata bergsoniana: una diagonale come una retta infinita che «si sfrangia irrimediabilmente verso il basso».

Dante, nel Paradiso, l’ha messa in versi: i celeberrimi del canto XXXIII che, come un mantra, scandiscono il ritmo del Trattato di ontologia: «Nel suo profondo vidi che s’interna, legato con amore in un volume, ciò che per l’universo si squaderna» (vv. 85-87). È difatti Plotino, a parere di Mathieu, colui che per primo ha divinato il concentrarsi, in un punto inesteso, di tutta l’estensione, ed è sempre Plotino che, per primo, ha fatto dell’irradiazione o proiezione dell’Uno nelle sue ipostasi una necessità. Non quindi, un’opera di persuasione (Platone). E neppure il risultato di una deliberazione razionale (Leibniz). Prima anche dei più brillanti cosmologi contemporanei, dove “prima” indica sia un primato logico che cronologico, Plotino si è installato col pensiero nel limite di quella singolarità singolarissima – l’Uno come primordiale quanto di energia – in cui s’interna, «legato con amore in volume», quell’essere che per lo spazio si dispiega «diminuendo, con ciò, in attualità».

Per Bergson Plotino è il primo psicologo. Per Mathieu, invece, è il primo cosmologo. Ed è servendosi della sua metafisica come dell’autentica clavis universalis che, in questo Trattato testamentario, giunge ad affermare che la gravità non è né un’azione né un’interazione tra una massa e l’altra, ma «la manifestazione sensibile dell’unità originaria dell’universo che si conserva nel corso dell’espansione». L’azione o interazione reciproca tra i corpi, cioè, non è prima. Ciò che è primo, di nuovo sia in senso logico che cronologico, è la loro vertiginosa e concretissima unità. Kant, nell’Opus postumum, la chiama ancora «unità a priori dell’esperienza». E Mathieu, nel suo Opus maius ne fa la ratio essendi del kantiano commercium assunto come ratio cognoscendi della, sempre kantiana, communio.

In una parola: il razionale della Gemeinschaft di tutte le cose. Il che, tuttavia, non significa «fare la lezione a Kant» posto che, se Plotino ha capito tutto, Kant ha detto «come le cose stanno» sia in ambito conoscitivo che morale. Prova ne sia il fatto che nemmeno il superbo nome di “ontologia” è riesumato da Mathieu in funzione anti-critica. Di primo acchito, è vero, può stupire di non trovarvi «il più modesto e semplice nome di analitica» (KrV, A247-B303). Ma, per chi non lo sapesse, anche Kant assume che l’ontologia sia qualcosa d’altro rispetto a un discorso sull’essere. La filosofia trascendentale, si legge nelle Lezioni di metafisica, è il «sistema di tutte le conoscenze a priori, chiamata per consuetudine ontologia». E perciò, conclude insospettabilmente Kant, l’ontologia si occupa, in ultima istanza, «delle cose in assoluto (von Dingen überhaupt)».

Eppure, se non una lezione, quanto meno una differenza si deve dire che v’è e resta tra le due “ontologie”, perché se Kant, come Fichte e Whitehead arguirono, ha dovuto scrivere ben tre Critiche per mostrare in che modo le strutture della Gegenständlichkeit e la realtà delle cose, nel senso dell’esser cosa di una cosa, stanno insieme, al nostro intellettuale amante del bridge è bastato un unico trattato. Esso, come racconta lui stesso, si è squadernato nell’intero spazio della sua vita per internarsi, con la sua morte, nell’essere infinito dell’eternità: l’immagine in quiete di un tempo che Mathieu ha vissuto ostinandosi a “suonare la spinetta” della philosophia perennis con la stessa passione con cui la suonava, mentre tutti intorno a lei si ammazzavano, la vecchia signora della Dreigroschenoper di Brecht.

Riferimenti bibliografici
I. Kant, Critica della ragion pura, Bompiani, Milano 2004.
Id., Realtà ed esistenza. Lezioni di metafisica, San Paolo, Milano 1998.
V. Mathieu, Essere e spazio. Trattato di ontologia, Mimesis, Milano 2019.

Vittorio Mathieu, Varazze 1923 – Chivasso 2020.

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