C’è una tradizione novecentesca italiana, letteraria e pittorica, che sposta i canoni del realismo verso atmosfere pervase da una sospensione fantastica. Si tratta di quel realismo magico che trascorre da Bontempelli a Landolfi, da Savinio a Zavattini, da Sironi a Morandi, da Casorati a Donghi. Nell’ambito del cinema italiano la figura e lo stile di Peter Del Monte sembrano raccogliere questa eredità: ora, si è spenta la sua voce filmica che captava nei suoi film le proustiane intermittenze del cuore, introducendovi una obliquità apolide, un intimismo e insieme una trascolorante atmosfera in bilico tra il lirismo e l’enigma, lo scavo psicologico e il senso del mistero. Il tocco di Del Monte, per quanto assolutamente eccentrico rispetto tanto alla forma generica della commedia di costume, quanto al cinema di impegno civile (che si affermavano entrambi nel cinema italiano degli anni settanta), si mostrò capace di cogliere una condizione esistenziale, una dimensione creaturale. La sua delicatezza nei ritratti femminili, nel cogliere le solitudini infantili, così come quelle della vecchiaia, e nel tessere intorno alle relazioni umane un alone di mistero, emerge nei suoi film più significativi. La dimensione dell’incontro, le oblique relazioni d’amore, le “ragioni del cuore”, spesso imperscrutabili, il filo dei paradossi della vita, i soprassalti dell’anima hanno caratterizzato il suo cinema.
Era nato a San Francisco nel 1943 e, quando a dieci anni si trasferì in Italia con la famiglia, i suoi occhi di bambino avevano visto le ferite del dopoguerra incise nell’anima degli uomini e dei paesaggi; aveva studiato al Centro Sperimentale di Cinematografia, alla fine degli anni sessanta, con Roberto Rossellini, il cineasta che meglio aveva raccontato quelle ferite. Forse la lezione rosselliniana più segreta (la più amata dalla Nouvelle Vague) di un cinema della credenza nel mondo, della potenza dell’incontro, della dimensione di uno sguardo sempre in viaggio, inaspettatamente si può trovare nei suoi film che rifuggivano un malinteso recupero del realismo, avvicinandosi al Rossellini cosiddetto “spirituale” in cui prevale il senso misterioso, epifanico, dell’esistenza umana.
Come altri cineasti della sua generazione (Gianni Amelio, Maurizio Ponzi, Gianni Amico), Del Monte cominciò a lavorare nel 1970 per la Rai girando un film tutto ripiegato sui silenzi e i climi rarefatti, Le parole a venire (1970), ispirandosi al racconto Les muets (1957) di Camus. Sembrava già una dichiarazione di poetica: quella di un cinema del “non detto”, del “fuori campo” dell’anima. E tale era stato anche il mediometraggio di diploma al Centro Sperimentale di Cinematografia che, appunto, si intitolava Fuori Campo (1969), e che Del Monte riuscì a portare a Cannes. Era una riflessione metafilmica, dove una comparsa in costume attraversa silenziosa i set vuoti di Cinecittà incrociando altri personaggi in costume e vagando per la campagna fino a una piscina dove una ragazza che si è tolta il vestito di scena prende il sole.
La cifra di Del Monte si rivelò quindi fin dai suoi primissimi esordi, assimilando le lezioni tanto del secondo periodo rosselliniano, quanto di un cinema del silenzio e della contingenza come quello di Antonioni, nel segno dello spaesamento, del vagare, della trasfigurazione spaziale e paesaggistica, dell’incontro, e, non ultima, di una certa fenomenologia esistenziale. In seguito, il suo stile e le sue ricorrenze tematiche si chiariscono, prendendo la forma di una interiorizzazione, una attitudine al limite del fantastico che filtra la realtà su percorsi eccentrici. Emerge una sua ossessione per il doppio, tutta implicata nelle figure di donna, come accade nella duplice identità femminile e nella riflessione sulla diversità di L’altra donna (1980), dove una colf di colore e la sua padrona – borghese nevrotizzata e in crisi – si scrutano in uno specchio deformante. Oppure in Giulia e Giulia (1987), dove la scissione di una giovane americana (rimasta vedova durante il viaggio di nozze), la porta a confondere memoria, allucinazione, ipotetiche immaginazioni, fino a condurla all’omicidio. E poi nella produzione francese Invitation au voyage (1989), dove si tratta della morbosa attrazione erotica, luttuosa e incestuosa di un giovane per la propria gemella.
Altra ricorrenza nei suoi film è lo stato ambiguo dell’infanzia o della prima adolescenza, sempre condotto su un filo paradossalmente crudele e tenue insieme. In Piso Pisello (1981, su un’idea di uno scrittore-sceneggiatore anch’egli attratto dal fantastico come Bernardino Zapponi, già collaboratore di Fellini) un tredicenne diventa padre e, abbandonato a se stesso, vaga con il suo bambino per una Milano un po’ zavattiniana, incontrando barboni e rifugiandosi in un orfanatrofio. In Piccoli fuochi (1985) il tono è da “favola nera”. Qui un bambino sviluppa un attaccamento morboso e possessivo per la colf e si circonda di personaggi immaginari, fino a un atto incendiario, tanto inquietante quanto delirante. L’altra faccia dell’infanzia – la vecchiaia solitaria e i relativi soprassalti o obnubilamenti della memoria – è ancora un tema che appare nel suo cinema, tanto agli inizi che nella sua maturità di cineasta.
Il suo esordio vero e proprio per le sale, Irene, Irene (1975), è la crisi esistenziale di un vecchio magistrato che ricostruisce in un malinconico bilancio, il rapporto con la moglie scomparsa e quello con il figlio, per poi decidere di salire su un treno qualsiasi lasciandosi morire. Come se riprendesse questo personaggio, Del Monte, con il suo film più maturo e affascinante – Compagna di viaggio (1996) – ci mostra una analoga deriva. Un anziano professore che sta perdendo la memoria (lo strepitoso Michel Piccoli) dissemina le tracce di una sorta di fuga: salendo su un treno, incontra, in una comunanza affettiva e solidale di tenerezza e di ribellione, la ragazza (una istintiva e scontrosa Asia Argento) che ha accettato dalla figlia di lui l’incarico di pedinarlo.
È curioso il modo in cui Del Monte abbia spostato nei suoi film questa forma del pedinamento zavattiniano, nonché la forma-incontro come paradigma amoroso, declinata su una linea di più immaginativa ed eccentrica. Si pensi alla sua personalissima e visionaria interpretazione del fenomeno dell’immigrazione dai paesi dell’Est nell’adattamento di un romanzo di Albinati, La ballata del lavavetri (1998) in cui la forma “corale” del film si libera ancora una volta nelle accensioni del realismo magico, citando espressamente il duo Zavattini–De Sica di Miracolo a Milano (1951). Dimensioni inquiete e irreali che si dipanano nei frammenti di Tracce di vita amorosa (1990), film-mosaico, che vede l’ultima apparizione di Walter Chiari, il quale incarna un anziano che fugge nudo da un gerontocomio e si perde per le strade.
Nei film più recenti Del Monte si fa più cupo e contorto, attinge a una sensibilità che si muove nelle penombre e nelle pieghe, luminose e oscure, dell’animo femminile, nei traumi e nei conflitti. Da qui, la predilezione ricorrente in questo periodo per i “ritratti di donna”, cui dedica le sfumature inquiete di film come Controvento (2000), dove due sorelle, una psichiatra e l’altra attrice (Margherita Buy e Valeria Golino), l’una antitesi dell’altra, si incontrano e si scontrano in una “zona d’ombra” dove si colloca un uomo che improvvisamente emerge per dividerle. Oppure in Nelle tue mani (2007) che è appunto la storia della ferita d’amore traumatica e dello squilibrio di una donna che si sente spezzata nella sua identità. E ancora nel suo ultimo film dal titolo, che suona come antonioniano, Nessuno mi pettina bene come il vento (2014), dove ritorna una figura infantile, una bambina disadattata, che elabora un sentimento di odio-amore per la solitaria scrittrice che la accudisce, il tutto sullo sfondo ventoso e sabbioso di Santa Marinella, in cui Del Monte si era ritirato. Appare strano: Santa Marinella è il luogo dove Rossellini (che lo aveva battezzato regista al CSC) aveva una casa che ha amato tutta la vita. Nello stesso luogo Peter Del Monte se n’è andato, lasciando nel vento il sussurro discreto, delicato ma anche inquieto, delle sue immagini.
Riferimenti bibliografici
I. Senatore, Peter Del Monte. Un regista controvento, Falsopiano, Alessandria 2017.
Peter Del Monte – San Francisco 1943, Roma 2021.