Ho un ricordo nitido della mia prima “discussione” con Vittorio Spinazzola. Fu in occasione del mio esame di Letteratura italiana contemporanea alla Statale di Milano. Anni ’70. Anni di fermenti ideologici e di passioni totalizzanti. All’esame avevo scelto di portare, fra i testi teorici, Dialettica dell’illuminismo di Adorno e Horkheimer, più qualche altro testo francofortese e marcusiano. Durante l’“interrogazione” ricordo di essermi inerpicato in un’ingenua celebrazione delle tesi del libro e di aver ripetuto con convinta adesione la demonizzazione adorniana di Disney e dei suoi personaggi, quella secondo cui Paperino “prende le botte” nella finzione disneyana perché lo spettatore si abitui a prenderle a sua volta nella realtà. Spinazzola – lo ricordo perfettamente – mi guarda perplesso, sospira e tace per qualche interminabile secondo. Quindi, con un filo di voce, mormora: “È proprio sicuro di quello che sta dicendo?”. Silenzio. Ancora silenzio. Per la mezz’ora seguente, con argomentazioni inattaccabili, lui smonta ad una ad una le mie ingenue accensioni ideologiche, e io prima cerco di difendermi goffamente, poi – dentro di me – comincio a sentire che ha ragione lui. “Ventisette”, mi propone alla fine. È il voto più basso della mia carriera universitaria, ma obtorto collo accetto. Mentre mi congeda, stringendomi la mano, mi dice: “Legga Ejzenštejn, se vuole trovare qualcosa di non banale su Disney…”.

Alla Statale di Milano, allora, il cinema era bandito. La prima cattedra di Storia del cinema sarebbe stata istituita solo nel 2001. Incontrare un docente che citava Ejzenštejn, dopo che altri avevano irriso come irricevibile la mia richiesta di poter fare una tesi se non proprio sul cinema almeno sul rapporto fra cinema e letteratura, mi colpì parecchio. Mi dissi che volevo sapere qualcosa di più su questo Spinazzola e scoprii abbastanza in fretta quello che è rimasto forse il suo libro più innovativo e per certi aspetti perfino rivoluzionario: Cinema e pubblico. Lo spettacolo filmico in Italia 1945-1965, edito da Bompiani nel 1965. Con una copertina già di per sé irriverente e provocatoria (un’immagine di Totò con la pistola in mano), Spinazzola rovesciava il paradigma dominante degli studi culturali degli anni ’60 e si impegnava a investigare il cinema italiano non dalla prospettiva dei produttori o degli autori, bensì da quella del pubblico.

In anni in cui la critica era come irretita dagli ideologismi luckasiani di Guido Aristarco e di “Cinema Nuovo”, Spinazzola affermava con forza un principio che avrebbe poi ripreso e applicato in modo sistematico e teoricamente coerente anche nei suoi studi letterari: quello secondo cui la ricezione è un momento irrinunciabile in ogni processo creativo e il consumatore è il vero soggetto da indagare. Con analogo, radicale anticonformismo Spinazzola scardinava poi un secondo assioma: quello che divideva, allora, cultura alta e cultura bassa, cinema d’autore e cinema di genere, letteratura popolare e letteratura colta. In Cinema e pubblico, per dire, Totò aveva la stessa attenzione di Visconti, e Raffaello Matarazzo veniva trattato con lo stesso rispetto con cui ci si accostava a Michelangelo Antonioni, sempre indagando non solo le intenzioni dell’autore ma anche e soprattutto le reazioni dello spettatore. Cioè quell’insieme di fantasmi, desideri, fantasie e discorsi sociali che la visione di un film finisce per innescare in ciascuno di noi. Ciò non implicava la sottovalutazione del cinema sperimentale e di ricerca, anzi. Ma come precisava nella “Nota postliminare” alla riedizione del volume nel 1985, il cinema sperimentale doveva costituirsi come «alternativa reale: non un ghetto privilegiato dove condurre esperimenti alchimistici senza controllo, ma il luogo di operazioni funzionali a una riscoperta dell’autenticità democratica del mezzo filmico», senza abbandoni «al culto della sofisticazione autistica» (Spinazzola 1985, p. 350).

Negli anni ’70, in maniera progressivamente sempre più marcata, Spinazzola si sarebbe allontanato dal cinema (anche se risalgono agli anni ’80 alcuni suoi illuminanti interventi su E.T. di Spielberg e sul Fellini di quel decennio) per dedicarsi alla letteratura italiana contemporanea. “I film – mi disse una volta, quando il nostro rapporto era diventato ormai quasi un’amicizia – a un certo punto rischiano di venirti a noia, i libri mai”. Non ho ancora capito se avesse ragione o meno. So però che i libri lui li ha studiati con una profondità, un acume e uno sguardo davvero non comuni: dagli amatissimi Manzoni (con Il romanzo per tutti: saggio su I Promessi sposi, 1983) e Collodi (Pinocchio &c., 1997), passando per i fumetti, il romanzo rosa, il porno, il thriller, la commedia, ma anche per lo studio accurato di autori popolari come Paolo Villaggio, Oriana Fallaci, Sveva Casati Modignani, Andrea Camilleri e Roberto Saviano. A me ha consentito di laurearmi con una tesi sul giallo italiano degli anni ’30 che scandalizzava il 90% dei suoi colleghi accademici. Erano romanzacci, certo, ma costituivano un corpus inesplorato e di primario interesse per indagare la struttura e le strategie della nostra nascente industria culturale negli anni del fascismo. Sullo sfondo, resta però la battaglia che Spinazzola ha con coerenza combattuto per tutta la vita: quella per la democrazia letteraria in primis e per la democrazia culturale a tutto campo.

Da vero intellettuale militante, Spinazzola mi ha coinvolto in alcune delle sue più coraggiose avventure politico-culturali, dal Mystfest di Cattolica alla Casa della Cultura di Milano (di cui è stato a lungo Presidente). Erano tempi, quelli, in cui l’idea che un professore universitario a tempo pieno dovesse starsene chiuso tutto il giorno fra le sacre mura dell’accademia, intento a processi autoreferenziali e autocelebrativi, senza confrontarsi con quel che accade là fuori, sembrava quasi inimmaginabile. L’eredità più potente che Spinazzola ci lascia è proprio questa: un’idea di cultura che si innesta nel mondo e su un’idea di mondo. Su un sentimento di mondo in cui ci deve essere spazio per tutti. Alla faccia di quei ciliosi e accigliati guardiani di un’idea di cultura elitaria e snobistica che, dai loro scranni quasi sempre collocati a sinistra, hanno trascurato la lezione di Spinazzola contribuendo a generare, per reazione, alcuni dei peggiori populismi del nostro tempo.

Riferimenti bibliografici
V. Spinazzola, Cinema e pubblico. Lo spettacolo filmico in Italia 1945-1965, Bompiani, Milano 1965.

Vittorio Spinazzola, Milano 1930 – Milano 2020.

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