Nelle sue interviste, Christian Boltanski amava sottolineare di essere un artista che parla sempre, ossessivamente, di morte, senza essere per nulla triste: credeva anzi nella natura di clown dell’attività artistica. C’è un elemento spettacolare nella sua opera, pur così evocativa e malinconica: non a caso nel suo affascinante Abbecedario ricorre un solo nome proprio, quello di un grande regista, Tadeusz Kantor, il cui teatro vive di marionette, feticci e oggetti, sospeso in una dimensione a metà fra il ricordo e l’allucinazione. Così scrive Boltanski in quella voce: «Tutto il suo lavoro è basato sulla memoria – che è anche la mia – dell’Europa centrale ed è legato alla guerra. È anche la mia storia, la mia mitologia, che mescola tragicità e derisione, sofferenza, musica popolare, clownerie e orrore, in un universo espressionista». Come in tutti gli artisti e gli scrittori che hanno attinto ai meccanismi creativi del feticismo, ritroviamo nella sua opera un’oscillazione fra euforia e disforia, fra la memoria e i suoi ottenebramenti.
Dopo aver abbandonato la pittura su tela perché temeva che esprimesse troppo il proprio inconscio, Boltanski ha iniziato a elaborare i ricordi di infanzia, accumulando in scatole di biscotti oggetti, vestiti, e fotografie (Recherche et présentation de tout ce qui reste de mon enfance 1944-1950, 1969); ha svelato i contenuti di queste scatole nel suo primo film, La vita impossibile di C.B. (1968) ed è arrivato persino ad inscenare la propria morte in un incidente. Ben presto è avvenuto il salto fatidico dalla memoria personale a quella collettiva, con uno slancio utopico che aspira a conservare ogni traccia del vissuto, ma anche, allo stesso tempo, con una consapevolezza bruciante di quanto il recupero sia vano, e di quanto l’esistenza umana sia intrinsecamente effimera. È un’«ossessione ritualizzata della perdita» (Marrone, 2002) che crea sistematicamente feticci di sostituzione.
Questo slancio utopico si concretizza in opere come La Reserve des Suisses morts (1990), Les Archives du Reichstag (1999), Les abonnés du téléphone (2000), Les habitants de Varsovie (2001), alcune delle quali evidentemente orientate verso la tragedia per eccellenza del XX secolo, la Shoah, e verso la memoria delle comunità ebraiche. La religione gioca un ruolo importante nell’universo creativo di Boltanski che si dichiara ateo, ma interessato all’arte cristiana di cui cita come esempio, provocatoriamente, Nan Goldin. D’altronde il carattere ambivalente della sua opera è già inscritto nella sua nascita: nel 1944, da un padre ebreo askenazita ucraino e da una madre corsa cattolica, cresciuto poi con un’educazione cristiana, e immerso nei racconti della Shoah. L’ambivalenza è una chiave anche per capire le strategie espressive di Boltanski.
Le sue installazioni si richiamano alle metafore dell’archivio, della riserva, del catalogo, dell’inventario. Grandi metafore della piena modernità, che, dal Bouvard e Pécuchet di Flaubert alla vertigine della lista di Umberto Eco e alla filosofia di Derrida, esprimono un’ansia di registrazione totale. Boltanski formalizza questo elemento in architetture geometriche e monumentali: l’oggetto memoriale si teatralizza nello spazio, attraverso l’accumulo di scaffali, secondo una tecnica di installazione usata nello stesso senso anche da Louise Bourgeois. L’aspetto speculare, la coscienza dell’impossibilità, si esplica in una serie di caratteristiche formali: l’uso di luci fioche, ombre, neon, cavi, candele, fotografie in bianco e nero, e in genere di una dimensione fortemente malinconica che avvolge da subito lo spettatore, soprattutto se l’installazione è in luoghi antichi con grandi suggestioni storiche, come la Chapelle de la Salpêtrière o Santiago di Compostela. Una dimensione che richiama alla mente Austerlitz (2001), il grande romanzo di Winfried Sebald, ugualmente dedicato ai temi della memoria e della Shoah, e articolato in un’interazione intensa tra racconto e immagine fotografica.
Nel 2010 il Grand Palais di Parigi affida a Boltanski l’allestimento della terza edizione di Monumenta, appuntamento di arte contemporanea che prevede opere espressamente pensate per lo spazio della Navata, un’immensa area unica realizzata per l’Esposizione universale del 1900, tutta in vetro e ferro battuto, che produce una luce intensa e peculiare (Boltanski ha chiesto di esporre in inverno, per evitare un eccesso di solarità, e ha voluto che gli ambienti restassero freddi). Il titolo scelto, Personnes, condensa le sue ossessioni tematiche: l’unicità della persona, l’esigenza di conservarne la memoria, e la coscienza di una deperibilità universale. L’installazione utilizza soprattutto il feticcio più amato da Boltanski, assieme alla fotografia: il vestito. Una serie di abiti usati è infatti disposta con regolarità in numerosi mucchi, che alludono a celle, mentre al centro si staglia una pila immane, da cui attinge una gru, che ne prende una manciata e poi la rilascia.
A questo ritmo implacabile, si affianca il suono dei battiti del cuore registrati da Boltanski in un progetto, Archivi del cuore, iniziato anni prima, che rientra nell’utopia di una conservazione delle singole esistenze, a partire da un’impronta così primaria; progetto ora conservato in un’isola del Giappone, Teshima. Grazie dunque ai suoni martellanti, alla luce calda e avvolgente, all’odore dei vestiti, il fruitore di Personnes poteva vivere un’esperienza multisensoriale di grande impatto emotivo, che ruota intorno alla dialettica fra memoria e oblio scatenata dall’oggetto feticcio. Per enfatizzare il suo valore affettivo, Boltanski decise che i vestiti protagonisti dell’installazione sarebbero stati donati ai visitatori dell’ultimo giorno della mostra, nell’ultima sede in cui è stata allestita, dopo l’Armory di New York: l’Hangar Bicocca di Milano, altro spazio di grande fascino, in cui svettano le sette torri di Anselm Kiefer, altro artista ossessionato dalla memoria della Shoah, dalla cultura ebraica, dalle rovine e dalle reliquie.
Nel 2011, per rappresentare la Francia nel padiglione ai Giardini, Boltanski sceglie una dimensione emotiva diversa: una struttura in fili di ferro, che ricopriva tutto lo spazio, faceva scorrere delle pellicole con facce di neonati; l’effetto era stavolta privo di malinconia, tendeva invece a rendere un senso di spersonalizzazione, dovuto alla rapidità del tempo universale, scandito dalla casualità (il titolo era per l’appunto Chance). Nel 2017 Boltanski pensa per la città di Bologna un progetto speciale, intitolato Anime. Di luogo in luogo, che si articolava in tutto il tessuto della città, comprese le periferie, rivisitando ex bunker, ex parcheggi, l’Arena del Sole, mentre nel Museo per la Memoria di Ustica oggetti, specchi oscurati e suoni di sussurri formavano una installazione toccante. Al centro della mostra al Mambo svettava una delle opere più famose di Boltanski, che condensa la sua estetica della spettralità: Régards, in cui volti sfocati in bianco e nero stampati su veli impalpabili fluttuavano liberamente, mentre a pochi passi l’installazione Volver con le sue coperte termiche dorate evocava i drammi della migrazione.
Proprio questa polifonia di spazi e di stili riesce a sintetizzare l’ambivalenza affascinante di questo artista clown e sciamano, dal nome cristiano e dal cognome ebraico, che ha espresso come pochi la potenza della memoria e della storia, ma anche la loro evanescenza; l’insopprimibile unicità di ogni volto, e nello stesso tempo il loro dissolversi in un flusso universale: in quella liquidità fantasmatica che è la sua cifra ossessiva.
Riferimenti bibliografici
D. Eccher, a cura di, Boltanski. Anime. Di luogo in luogo, Silvana, Milano 2017.
P. Fabbri, Elementi a seguire l’Abbeccedario di CB, in D. Eccher, Christian Boltanski, Charta, Milano 1997.
M. Fusillo, Feticci. Letteratura cinema arti visive, Il Mulino, Bologna 2012.
M. Marrone, Tre variazioni. Note in margine a Christian Boltanski, in Christian Boltanski: Faire part, Palazzo delle Papesse, Siena 2002.
Christian Boltanski, Parigi 1944 – 2021.