Dalla collina di Montecucco, nel quartiere romano del Trullo, la città sembra scomparire in lontananza. Ci troviamo nella periferia sud-ovest della capitale, eppure non c’è traccia di macchine, cemento e smog. Tutto intorno solo campi e silenzio, qualche cane si aggira ancora indisturbato, probabilmente intento a tenere d’occhio un gregge di pecore. La sommità del monte è dominata dalle rovine di una costruzione circolare chiamata Torre Righetti, un tempo dimora di caccia, in seguito divenuta celebre per fare da sfondo alle avventure di Ninetto e suo padre nel film Uccellacci e uccellini (1966). Spostando lo sguardo verso l’orizzonte, la vista si apre sulla cima dei Colli Albani, il Monte Cavo. Sulla destra, è possibile scorgere il profilo di alcuni edifici dell’Eur, la basilica dei Santi Pietro e Paolo e il palazzo della Civiltà Italiana, che nelle giornate con poca luce arrivano quasi a dissolversi dietro le nuvole.
Siamo completamente immersi nella realtà urbana, tuttavia il paesaggio circostante permette di osservare la città da una prospettiva inedita. Oltre i confini di ciò che appare familiare, infatti, si cela un’altra dimensione, meno sicura e più estranea, capace di produrre una sensazione di spaesamento. In questa condizione d’incertezza è facile perdere l’orientamento e la consueta fisionomia metropolitana assume contorni enigmatici. Il volume Riabitare il mondo (Quodlibet 2021), a cura di Giovanni Caudo e Martina Pietropaoli, illustra le opportunità dischiuse dall’attuale condizione urbana, intravedendo la possibilità di un nuovo modo di agire e attraversare i luoghi. Nell’età globale in cui ogni cosa è pensata per produrre dati e certezze (Jullien 2021), appare sempre più complesso intraprendere un percorso che da un iniziale smarrimento consente di giungere a un successivo ritrovamento. L’“inatteso”, che emerge nelle situazioni ordinarie, mostra come alle volte sia opportuno cambiare il punto di osservazione per scoprire orizzonti nascosti, ponendo così in discussione le certezze consolidate e aprendo una breccia nella pigra esperienza quotidiana.
Il libro si compone di poliedrici contributi che afferiscono a studiosi provenienti da ambiti eterogenei: dalla filosofia all’agraria, dalla psicoanalisi all’urbanistica, dalla sociologia all’arte e alla fisica. Mettendo da parte ogni infruttuoso tentativo di sintesi, il volume esorta il lettore ad accogliere con fiducia l’incontro tra metodologie di ricerca, nella convinzione che l’interdisciplinarietà non sia un pericolo da temere, ma un’occasione di arricchimento. A tale proposito il suggerimento, proposto da Caudo nel suo testo, di osservare i luoghi oltrepassando gli schemi operativi tradizionali può essere considerato come un invito a costruire relazioni e alleanze tra campi scientifici differenti. In questa direzione, l’azione di riabitare il mondo assume il significato di «superare il conosciuto, il già noto, rimuovere il pregiudizio e rendere visibile ciò che accade dinanzi a noi e dal quale possiamo imparare» (Caudo 2021, p. 16). Sono le cose stesse, insieme agli incontri imprevisti, a guidare il pensiero verso quella re-inventio dello spazio che permette di costruire narrazioni originali.
Per interpretare la città contemporanea occorre, dunque, ricordare che il nostro sguardo non è mai univoco, ma si nutre della molteplicità di tutti gli enti che popolano il presente. Nel suo contributo, Pietropaoli evidenzia con precisione l’importanza della nozione di cura, intesa nell’accezione più profonda come rispetto per ciò che ci circonda. Avere cura vuol dire innanzitutto «fare spazio all’Altro, nel senso del tempo a venire, dell’affettività, della conoscenza» (Pietropaoli 2021, p. 20). Nell’epoca segnata dall’individualismo illimitato (Pulcini 2009), si rivela necessario prendere consapevolezza della propria vulnerabilità, ripartire dall’essenzialità degli affetti e dall’autenticità delle relazioni. Occorre lasciarsi guidare dal sentimento della pietà, non soltanto nei confronti dei viventi, ma anche verso l’ambiente e i luoghi in cui siamo immersi: solo coltivando quella che Elena Pulcini ha definito un’«etica della relazione», si dischiude la possibilità di «inaugurare una nuova forma del mondo» (ivi, p. 23).
Quali sono gli strumenti a disposizione per un uso creativo degli spazi urbani? Maura Gancitano individua un punto di partenza nella cosiddetta “psicogeografia”, elaborata negli anni cinquanta da Guy Debord nell’ambito della Théorie de la dérive (1956). In breve, il metodo “psicogeografico” si basa su uno studio degli effetti precisi del territorio, che agisce in maniera diretta sul comportamento affettivo dei singoli individui. Sulla scia delle ricerche condotte in precedenza da autori come Jacques Fillon e Gilles Ivain, che hanno descritto la città attraverso quartieri i cui nomi corrispondono a un «susseguirsi di stati d’animo» (Careri 2006, p. 65), Debord realizza la prima mappa interamente fondata su rilievi psicogeografici. Si tratta di una speciale guida volta a scomporre la città di Parigi in tanti frammenti diversi, ognuno dei quali legato a una determinata zona o sobborgo. Questa ridefinizione dell’ambiente metropolitano invita letteralmente il turista a perdersi tra le strade: in tal modo, l’itinerario da percorrere non seguirà i classici dettami della geografia, ma prenderà forma lungo il cammino, traendo ispirazione da alcuni dettagli in apparenza privi di significato.
L’idea di attraversare lo smarrimento è anche al centro del saggio di Lidia Decandia, dedicato all’esplorazione del paesaggio urbano. Se, in un certo senso, addentrarsi nel selvatico espone al pericolo dell’ignoto o all’angoscia, vale comunque la pena accettare di correre un simile rischio per vedere cosa si nasconde dall’altra parte. L’incoraggiamento contenuto in queste pagine è dunque rivolto a «mantenere viva la tentazione di esporci verso quell’esterno non familiare, verso quell’alterità che continuamente ci richiama e che non ci consente mai di bloccare nel già visto e già conosciuto, nella norma data “una volta per tutte”, una vita che è continuo spostamento, una realtà che è molto più viva e più complessa di qualsiasi schema a cui si tenti di ridurla» (Decandia 2021, p. 40).
Nel saggio che chiude il volume, Paolo Virno riflette nuovamente sulla preminenza della cura, soffermando l’attenzione sulle numerose implicazioni teoriche e pratiche connesse al verbo avere. L’intervento del filosofo, confluito poi nel libro intitolato Avere. Sulla natura dell’animale loquace (2020), risuona come un elemento di raccordo delle molteplici suggestioni emerse in queste righe. Prendendo le mosse dalla costitutiva eccentricità del vivente umano, che ha la particolare caratteristica di non coincidere mai con il proprio corpo, Virno insiste sul legame che unisce tre verbi affini: avere, abitare e partecipare. Se il primo termine della relazione evidenzia una separazione, senza tuttavia alludere al modo di riempirla, gli altri due verbi indicano l’aspetto per così dire attivo della prassi, che consente di passare attraverso il distacco. Ed è proprio questa capacità di prendere le distanze da se stessi che, secondo Virno, favorisce l’insorgere di un sentimento come l’amicizia. L’autentica philía non appartiene alla rassicurante sfera dell’òikos, ma rientra in una dimensione sostanzialmente pubblica: nel tempo dominato dagli algoritmi che organizzano i dati, esporsi all’alterità rappresenta una risorsa preziosa per riabitare il mondo coltivando il valore dei legami.
Riferimenti bibliografici
F. Careri, Walkscapes. Camminare come pratica estetica, Einaudi, Torino 2006.
S. Consigliere, Favole del reincanto. Molteplicità, immaginario, rivoluzione, Derive Approdi, Roma 2020.
F. Jullien, L’inaudito. All’inizio della vita vera, Feltrinelli, Milano 2021.
E. Pulcini, La cura del mondo. Paura e responsabilità nell’età globale, Bollati Boringhieri, Torino 2009.
A. Tsing, Il fungo alla fine del mondo. La possibilità di vivere nelle rovine del capitalismo, Keller, Trento 2021.
Giovanni Caudo, Martina Pietropaoli, a cura di, Riabitare il mondo, Quodlibet, Macerata 2021.